Pubblichiamo questo approfondimento a cura de Il cuneo rosso, che riteniamo utile e stimolante per una presa di posizione classista e internazionalista per il movimento operaio italiano ed europeo, in opposizione al rafforzamento delle posizioni sovraniste e campiste.

America First!

Il bombardamento della base aerea di Shayrat nei territori controllati dal regime di Damasco e le vomitevoli dichiarazioni con cui Trump l’ha accompagnato  – “dopo aver visto i bellissimi bambini colpiti dal gas … ho cambiato idea su Assad” – segnano un ulteriore avvicinamento a quello che Stati Uniti, Unione europea e le potenze d’area sperano sia l’atto finale della vicenda siriana: la divisione delle spoglie della Siria. Con i suoi 59 tomahawk, Trump ha battuto il pugno sul tavolo: “Ho detto America first, perdio! Mi state prendendo sottogamba. Siamo intorno a Raqqa con centinaia di soldati e migliaia di curdi nostri alleati, siamo operativi da tempo con i nostri bombardieri in tutto il territorio dell’Isis, e a Mosul ne sanno qualcosa [anche i bellissimi bambini iracheni]. Quindi pretendiamo le nostre abbondanti libbre di carne siriana. A nessuno venga in mente di mettere in atto soluzioni finali prese in tutta fretta, escludendoci dal giro. Chiaro?”.trump-siria.jpg

Il messaggio, più che ad Assad, è rivolto agli avversari strategici: Putin anzitutto, e Xi Jinping. Lo è anche agli amici-concorrenti europei. Ed è servito a tacitare, almeno momentaneamente, i tanti membri dell’establishment politico-militare yankee – negli Stati Uniti i due termini, politico e militare, quasi si identificano – che vorrebbero l’intensificazione della politica aggressiva contro Russia e Cina attuata da Obama e dalla sua gang.

La reazione scodinzolante di Gentiloni e degli altri governanti europei vede nella decisione di Trump un’azione ben fatta, adeguata: l’impresentabile e imprevedibile Trump, il presunto amico di Putin, è diventato tutto ad un tratto presidenziale ed equilibrato. Anche se tra i più sgamati, un Giuliano Ferrara classifica il bombardamento un “fake strike”, un finto colpo, e teme che diventi un involontario aiuto alla già alta popolarità di Putin in Europa; mentre altri, tra i più russofobi, si chiedono se dietro c’è una strategia anti-russa di lungo periodo, o solo un estemporaneo colpo di testa; e altri ancora, tra i più islamofobi, ricordano che non è sensato alienarsi Putin perché prima della contesa con la Russia viene il regolamento dei conti con la “minaccia islamista”, il pieno ristabilimento dell’ordine dispotico neo-coloniale in tutto il Medio Oriente da realizzare con la cooperazione della Russia. Al di là di queste contrastanti interpretazioni dell’attacco su Shayrat, se sommiamo quest’atto di guerra all’aumento del 10% delle spese militari in un solo anno, all’ingiunzione agli stati europei di pagarsi da sé i propri apparati bellici, incrementando anch’essi le spese militari, agli avvertimenti minacciosi alla Corea del Nord (un altro strike in preparazione?), non restano dubbi: Trump ha posizionato gli Usa alla testa della accelerazione militarista e guerrafondaia del capitale globale alimentata con cieco, irresistibile impulso dall’incapacità del sistema di dare un’effettiva soluzione “pacifica” alla crisi scoppiata nel 2008. E spinge tutti gli stati più potenti del mondo a muoversi  in questa stessa direzione. Per quanto malandati siano – e lo sono davvero rispetto agli scintillanti anni ’40 e ’50 del secolo scorso, il primo ad ammetterlo è stato proprio Trump nella sua campagna elettorale – gli Stati Uniti pretendono di restare sul trono del mondo. Costi quel che costi. Del resto alcuni tra i suoi consiglieri più estremi sognano un “Reich millenario” degli ariani anglosassoni trapiantati sull’altra riva dell’Oceano …

I geopolitici de noantri

A sua volta, una parte della cosiddetta sinistra ha visto nel bombardamento della base aerea di Sharyat la conferma della sua tesi di sempre: chi si è mosso contro Assad non può essere che un fantoccio etero-comandato, una creatura della Cia al servizio dell’imperialismo americano, che ora finalmente getta la maschera ed interviene in prima persona. Fino a pochi giorni fa, fin quando Trump si era “limitato” ad affermare che il suo obiettivo prioritario è cancellare lo Stato Islamico e una buona quota dei suoi abitanti dalla faccia della terra, questa cosiddetta sinistra è rimasta in omertoso silenzio. Quando si tratta di conciare la pelle degli islamici (fossero pure i più sfruttati) o degli islamisti (fossero pure gruppi che, a modo loro, del filo da torcere ai governi occidentali ne danno), non hanno nulla da eccepire. Nella islamofobìa non li batte nessuno. In questo caso, però, trattandosi della sovranità della Siria (ma non c’erano già 400 e più soldati Usa attorno a Raqqa per strangolare la ‘capitale siriana’ dell’Isis, insieme ai fidi alleati curdi? quelli non li avevate visti? e i bombardamenti del Pentagono su Mosul, favoriti sul terreno dai bravi ragazzi della Brigata Friuli, non violavano nulla?); trattandosi soprattutto, secondo loro, del caro presidente Assad e della sua sorte, sono scattati come dei velocisti allo start, anche quando hanno un buon numero di anni sul groppone. Ancora una volta, perciò, la tragedia siriana è servita a rileggere l’intera vicenda delle sollevazioni arabe del 2011-2012 in esclusiva chiave ‘geo-politica’, al di fuori e contro ogni analisi di classe degli avvenimenti la geopolitica de noantri, poiché hanno scritto di Siria senza vergognarsi, degli analfabeti totali rispetto a tutto ciò che il mondo arabo realmente è, a ciò che le classi lavoratrici arabe realmente sono, pensano e vogliono, in Siria in particolare. L’insorgenza siriana è servita così a trasformare in aperta ostilità, la sostanziale indifferenza con cui in Italia e in Occidente la gran parte dei compagni – quasi quasi ci verrebbe da scrivere: dei cosiddetti compagni – ha accolto il grande movimento di massa che ha scosso il mondo arabo dal 2011.

Diverse sono le motivazioni portate a sostegno di questa ostilità: 1) essa non era rivolta contro un governo asservito all’Occidente, come in Egitto, o contro una potenza straniera occupante il territorio (come in Iraq), ma contro un governo alleato della Russia e dell’Iran, “anti-americano”, e quindi, per ciò stesso, anti-imperialista; 2) essendo quello di Assad un regime anti-imperialista, oltre che laico e progressista per definizione, l’opposizione ad esso non poteva che essere di natura reazionaria (come comprovato dai riferimenti religiosi che caratterizzano parte delle organizzazioni combattenti) e sostanzialmente immotivata sia sul piano politico che su quello economico; 3) del resto essa si è presentata sin da subito priva di una credibile guida politica e di una organizzazione centralizzata; 4) non si è vista la presenza di un movimento operaio organizzato, dal che si deduce che la classe operaia siriana fosse e sia dalla parte di Assad. Troppo faticoso indagare sulla realtà, sulle reali condizioni economiche e politiche delle masse (nel vero senso del termine) di siriani sfruttati, oppressi e impoveriti (idem) che si sono mobilitate.Pics Photos - President Bashar Al Assad

Il risultato di questi presupposti è stato la negazione radicale della stessa insorgenza siriana : un fotomontaggio, un’illusione ottica, l’azione di un gruppo o di gruppuscoli di mercenari incaricati di mettere in opera il piano di destabilizzazione del legittimo governo siriano, un piano organizzato a tavolino dalla Cia e finanziato dai satrapi del Golfo. Senza neppure rendersi conto del ridicolo in cui questi arci-guru del complottismo e del campismo precipitano: un paese come la Siria, educato per decenni all’anti-imperialismo, sono loro ad affermarlo, d’improvviso – che fa? – genera la più grande armata mercenaria pro-imperialista della storia del mondo, che non si disperde né va in rotta neppure dopo una sequenza di distruzioni e massacri da brividi!

Le ragioni della rivolta popolare

Le cose stanno ben diversamente da come la raccontano questi impostori anti-operai, e vogliamo ribadirlo sulla base di un continuo e dettagliato studio della situazione: le suddette masse siriane impoverite avevano molte buone ragioni per ribellarsi. E l’hanno fatto, senza sospettare cosa poi sarebbe toccato loro in sorte, sull’onda delle rivolte in Tunisia ed Egitto, dando vita a un’insorgenza spontanea, pacifica, di massa, non connotata inizialmente in senso confessionale, che si è estesa da Dera’a e dalle regioni più povere del paese a tutte le città e le campagne siriane nei mesi successivi al 15 marzo 2011.

Questa insorgenza affonda le sue radici nella storia della Siria, nella natura del regime baathista (borghese, giusto?) degli Assad, padre e figlio (una dinastia anche questa, giusto?), nelle reali condizioni di vita del popolo siriano – usiamo questo termine generico, non certo felice né univoco, per indicare l’insieme assai variegato delle classi lavoratrici e non sfruttatrici della Siria, escludendo da esso solo la classe borghese dell’industria (assai ridotta) e del commercio e i proprietari terrieri, che sono rimasti saldamente dalla parte di Assad, anche se di confessione sunnita. Dunque non la classe operaia o il proletariato della Siria, bensì le classi proprietarie si sono strette intorno all’élite al potere, che ha potuto anche beneficiare, a Damasco centro e nelle poche zone del paese rimaste costantemente sotto il suo controllo, di un sostegno più o meno passivo, accordato nella speranza di sfuggire alle stragi e alle distruzioni delle zone contese o sotto il controllo degli insorti, o per il timore suscitato più che comprensibilmente dalle degenerazioni delle divisioni settarie tra i gruppi jihadisti, e/o dal loro integralismo.

Sul piano economico, la sollevazione della primavera 2011 deriva dalla rottura del patto sociale costituitosi tra il partito Baath e i lavoratori siriani. Rottura dovuta alla mancata attuazione della riforma agraria, alla progressiva ri-privatizzazione dell’apparato industriale di stato, all’erosione della stabilità di lavoro e delle relative garanzie di cui godevano i dipendenti pubblici. Il dominio del quadro dirigente del partito e la sua trasformazione in classe proprietaria delle terre e delle industrie, la perdita di potere d’acquisto dei salari (dovuta alla progressiva liberalizzazione dei prezzi), la riduzione del welfare e dei sussidi di stato, la crescita esponenziale della disoccupazione giovanile e del livello di povertà, l’impoverimento delle classi medie e la loro espulsione dalle città, hanno aumentato a dismisura la sperequazione sociale e impoverito strati sempre più ampi della popolazione tanto nelle città (specie nelle nuove cinture di inurbati) quanto nelle campagne. Negli anni precedenti alla rivolta questa situazione, già di per sé precaria, ha subito un ulteriore aggravamento, che ha portato all’esodo dalle campagne verso le periferie urbane di oltre 1.200.000 contadini, il rientro dal Libano di centinaia di migliaia di lavoratori verso le zone più povere del paese dalle quali erano emigrati, che sono andati a ingrossare ulteriormente l’esercito di riserva già molto ampio, l’afflusso dei profughi iracheni dopo lo scatenamento dell’aggressione Usa. Tutto ciò ha portato ad una crescita abnorme delle periferie urbane, in particolare nella Ghouta di Damasco. Un aumento della popolazione  superiore alla crescita economica, l’estendersi della disoccupazione giovanile (i giovani senza futuro, istruiti e non, come in tutto il nord Africa) e una siccità eccezionale aggravata, nelle campagne, dall’accaparramento delle risorse idriche da parte dei grandi proprietari terrieri lanciati nell’agribusiness, hanno aggiunto negli anni 2000 ulteriori pressanti ragioni di scontento sociale.

Sul piano politico, il regime baathista ha imposto l’abolizione del diritto di sciopero (l’ultimo sciopero risale al 1982, ovvero a 35 anni fa) e lo stato di emergenza permanente, dal colpo di stato del 1967; la creazione di un apparato di sindacati di stato come organi di controllo sui lavoratori; l’azzeramento totale di ogni forma di dissenso e di organizzazione politica; l’accentramento del potere nelle mani dei notabili del partito e poi nella ristretta cerchia della famiglia presi

dI Syria-Frames-Of-Freedom (Pro-FSA information) – [1], CC BY 2.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=17138401

denziale. La creazione di forze di sicurezza e di intelligence onnipresenti, la settarizzazione della società e la cooptazione delle élites delle minoranze, in  particolare della setta alawita cui appartiene il presidente, hanno formalizzato nel paese divisioni e spaccature su base religiosa, etnica e “tribale” (anche se chi non sa assolutamente nulla della realtà sociale e politica siriana, sostiene il contrario a scatola chiusa). Il governo di Damasco ha favorito poi l’islamizzazione delle campagne, stringendo un patto con l’islam ufficiale, a cui ha delegato la funzione di supplenza  nella gestione delle opere caritative, consentendo la proliferazione delle moschee in cambio dell’appoggio nella repressione della rivolta guidata dai Fratelli Mussulmani negli anni ’80.

L’arma fondamentale della permanenza al potere degli Assad è stata e rimane tutt’ora una spietata repressione di ogni dissenso, specialmente se organizzato, non diversamente da quanto accade in tutta un’altra serie di paesi arabi. Lo spettro della strage di Hama è ben presente nelle menti dei siriani, ma quello che è successo negli ultimi sei anni supera ogni più funesta immaginazione.

Sull’”anti-imperialismo” degli Assad

Anche sul preteso anti-imperialismo del regime baathista siriano, che è rimasto comunque il suo punto di forza agli occhi di una parte della popolazione, è lecito avere sostanziosi dubbi. Ci riferiamo non all’anti-imperialismo proletario e comunista, che non può che identificarsi con l’anti-capitalismo, di cui ovviamente non c’è traccia, ma all’anti-imperialismo borghese, nella misura in cui possa realmente esistere, sotto forma di eccezione, a questo stadio di sviluppo universale del capitalismo.

Da dove nascono questi sostanziosi dubbi? Dalla storia passata, anzitutto. La presenza e l’appoggio alle milizie cristiane in Libano durante l’assedio del campo palestinese di Tall el Zaatar o l’appoggio dato al primo attacco della coalizione imperialista a guida Usa all’Iraq nel 1991, come volete chiamarli: prove di anti-imperialismo? o non sono piuttosto espressioni di una politica che si inserisce nelle contese con gli stati limitrofi per l’egemonia nell’area, prestandosi anche a ruoli utili direttamente ai massimi poteri imperialisti (come schiacciare i palestinesi più radicali o l’Iraq di Saddam colpevole di avere ripreso a sé la provincia kuweitiana)? Altrettanti dubbi, diciamo così, sorgono dalla storia recente e dall’attualità. L’inserimento della Siria nell’economia di mercato, seppure in posizione subordinata, le sempre più ampie aperture al processo delle liberalizzazioni e agli investimenti esteri, l’aggravarsi della povertà di ampi strati della popolazione a vantaggio di una élite sempre più ristretta, e più di ogni altra cosa i metodi di governo che hanno azzerato per decenni le possibilità di autodifesa e di auto-organizzazione del proletariato e degli strati più poveri, sono tutti elementi in piena contraddizione con la pretesa funzione anti-imperialista di Assad e Co., dal momento che la mobilitazione e l’organizzazione delle classi sfruttate è la sola forza sociale su cui l’autentico anti-imperialismo può contare.

Ci vuole davvero una spiccatissima mancanza di senso storico e un’altrettanto spiccata mancanza di istinto di classe per vedere nel dottor Assad una sorta di Lumumba o di Fanon siriano. La stessa che ci vuole per trasfigurare la politica dell’abile nazionalista granderusso Putin in un fac-simile della politica del grande rivoluzionario internazionalista Lenin (di cui sarebbe il caso di riesaminare e meditare i magnifici, attualissimi appunti del 31 dicembre 1922 sui misfatti verso i caucasici del trio Ordžonikidze-Stalin-Dzeržinskij). In realtà, nello schiacciare la rivolta popolare, l’”anti-imperialista” Assad ha fatto il lavoro sporco, prima e durante l’insorgenza, non solo per sé ed i suoi sodali di classe siriani, ma per l’intero consesso delle classi sfruttatrici locali, di area e globali. Dunque anche per i poteri imperialisti, tutti, nessuno escluso. È ben per questo che gli aiuti militari stranieri ai gruppi ribelli e alle forze resistenti non sono mai andati oltre le armi leggere, così da lasciare totale libertà d’azione all’arma militare più esiziale del governo di Assad e del suo sponsor russo: l’aviazione. È ben per questo che Trump, appena insediato, si era detto apertamente favorevole a che restasse in sella, a sua volta gratificato dallo stesso Assad, che su Trump ha detto di recente: “Ha speso parole molto interessanti sulla necessità di combattere ed eliminare l’Isis. Adesso aspettiamo anche i fatti” (intervista a “L’Avvenire”, 14 marzo 2017).

L’isolamento ha ingigantito le debolezze della rivolta

Le ragioni dell’insorgenza, ora sinteticamente ricordate, il suo carattere di ribellione degli strati più poveri della popolazione, la sua capacità di sfidare la durissima repressione che si è da subito manifestata (anche quando il movimento di massa non chiedeva la fine del regime), avrebbero dovuto essere ragioni più che sufficienti per garantire l’appoggio e la mobilitazione di un vasto movimento proletario e popolare qui, appoggio che è mancato totalmente tanto per la Siria quanto per tutta l’intifada araba. Le sollevazioni arabe del 2011-2012 hanno ispirato le vigorose lotte dei lavoratori immigrati della logistica, spesso arabi, che hanno portato nel cuore della penisola lo spirito di piazza Tahrir, ma per il resto non si è praticamente mossa foglia. Responsabili di questa mancata mobilitazione non sono solo le difficoltà oggettive e soggettive in cui si dibattono il movimento operaio e l’insieme dei lavoratori, che si manifesta nella mancata difesa dei propri interessi vitali; è anche l’indifferenza manifestata da tante cosiddette avanguardie davanti alle lotte e al massacro, alla vera e propria macellazione delle popolazioni siriane e medio-orientali (pensate ai ribelli dello Yemen o ai palestinesi di Gaza puniti da Israele con ogni arma tradizionale e nuova, quelle chimiche anzitutto, nel silenzio complice del mondo intero).

L’isolamento totale in cui è precipitato il movimento di massa siriano, oltre alla repressione spietata cui è stato oggetto, hanno ingigantito le sue debolezze originarie e costretto alla fuga da un lato, alla risposta armata dall’altro, i suoi partecipanti (quelli sfuggiti alla morte, alla galera o alle torture). La resistenza è continuata, ormai da anni, nelle condizioni più difficili, più estreme, con intere zone del paese sotto assedio e bombardamento permanente, costrette alla resa per fame, con città resistenti rase al suolo…

Dal canto suo Assad ha saputo creare una forte coalizione internazionale capeggiata dalla Russia, che lo ha salvato da una sconfitta sul campo che pareva imminente – fin dall’inizio, del resto, una parte del suo esercito si era liquefatta, e il totale controllo dei cieli non è bastato per garantire al governo di Damasco il controllo dei territori (ci sarà una ragione sociale di ciò, vero?). Nel frattempo la lotta tra gli stati più potenti dell’area, Turchia, Arabia saudita, Iran, e la contesa tra le potenze occidentali per mettere le loro grinfie sulla Siria si sono fatte più accanite. Il controllo sulle formazioni armate da parte dei paesi “donatori” di armi e “aiuti umanitari” si è fatto sempre più stringente, favorendo la frammentazione e la contrapposizione interna, e soffocando la crescita del movimento che nella sua fase iniziale aveva tentato di organizzarsi e coordinarsi autonomamente, al di fuori e contro l’opposizione all’estero sponsorizzata dagli avvoltoi occidentali e federata in organismi-fantoccio tipo il Cns, che non ha mai contato nulla. Tutt’ora, anche se si leveranno in Siria voci favorevoli all’intervento Usa, che a tutto mira fuorché a sostenere quel che resta dell’opposizione popolare interna nata nel 2011, la maggior parte dei Siriani che resistono sono fermamente contrari a delegare alle potenze straniere la sorte della Siria.

Guerrafondai & macellai uniti nel coro : mai più una seconda Intifadah araba!

Nella Siria dei 470.000 morti, dei 6.400.000 sfollati interni, degli oltre 4 milioni di profughi, delle migliaia di torturati e uccisi nelle carceri, degli oltre centomila combattenti, delle mille fazioni a vernice islamista più o meno radicale a seconda degli stati che le sponsorizzano, e da cui comunque tentano di autonomizzarsi, nella Siria che si prepara ad essere smembrata e divisa, dove i curdi perseguono la loro autonomia (!) sulla strada spianata dai bombardieri americani, dove lo stato islamico si prepara a perdere le sue capitali per conquistare migliaia di nuovi aderenti in tutto il mondo, ormai regna il caos.

Conosciamo, lo abbiamo detto fin da subito nel n. 1 della nostra rivista, le gravi debolezze politiche dell’opposizione siriana. Debolezze costituzionali, dovute anzitutto al fatto che in Siria, a differenza che in Egitto e in Tunisia, non hanno potuto giocare alcun ruolo organismi a composizione operaia, dato che il nazionalismo borghese vi ha soffocato sul nascere, dopo averlo utilizzato ai propri scopi, il giovane movimento proletario (contro  l’occupazione coloniale francese, e dopo di essa, c’erano stati molti scioperi operai e contadini). Ma dal riconoscimento di questa debolezza non può derivare in nessun modo un’ulteriore indifferenza per le sorti di quanti oggi in Siria resistono come possono, in armi o meno, contro una coalizione di forze ormai mondiale (le popolazioni dei territori ancora nelle mani dell’Isis sono bombardate da 14 stati diversi, mentre altri da terra, tra cui l’Italia, svolgono funzioni logistiche!). Una coalizione divisa sul futuro del regime e del paese, ma unita nell’intento di dare, attraverso un ulteriore, terribile bagno di sangue finale nelle aree di Idlib e di Raqqa, oltre che a Mosul, la lezione definitiva all’insorgenza proletaria e popolare che si è manifestata e continuerà comunque a ricomparire nell’area. Questa è la speranza e lo scopo di tutti i poteri imperialisti e capitalisti in campo, da Washington a Mosca, da Londra a Roma, da Damasco a Riad, da Istanbul a Teheran: mai più una seconda Intifada araba! Senonché neanche un regime brutalmente repressivo come quello attualmente al potere in Egitto, ben protetto da Washington e dagli stati amici di Israele e Russia, ha saputo impedire la ripresa delle lotte nelle fabbriche, nelle piazze, contro la repressione, per il pane, per la vita. Il fatto è che nonostante l’impressionante dispiegamento di forze poliziesche e militari che può attuare, il capitale globale è sempre meno in grado di vincere le guerre che scatena e risolvere le contraddizioni e le crisi che crea.

Né campismo, né indifferentismo. Internazionalismo!

L’indignazione per i bombardamenti di Trump e della sua gang di militari stragisti forgiatisi nei pogrom di Falluja (a proposito di armi chimiche!) e di Ramadi, per l’ipocrisia dei governi europei che affettano di piangere i bambini siriani, la denuncia della Nato e del governo Gentiloni (non come semplice infeudato a Washington, però, ma come convinto complice di tutti i crimini occidentali), non assolvono chi resta a vedere a braccia conserte come va a finire la faccenda, guardandosi bene dal mischiare la propria immagine con quella di questi “straccioni”, poco e male politicizzati e per di più preda, spesso, della superstizione religiosa.

Un minimo di decenza dovrebbe imporre a tutti coloro che si dicono compagni, tanto più se internazionalisti, il massimo sforzo per denunciare l’azione del “nostro” stato anzitutto, e degli stati occidentali, quali massimi responsabili, con i secoli di guerre e rapine che hanno all’attivo, dell’attuale situazione in Medio Oriente – inclusa la islamizzazione di una parte delle sue popolazioni come elementare mezzo di auto-difesa, per fragile e contraddittorio che esso sia. Dovrebbe imporre di denunciare la guerra infinita che questi stati hanno scatenato ai lavoratori e ai popoli arabi e medio-orientali, in nome della lotta al “terrorismo islamico”, e pretendere l’immediato ritiro delle ‘nostre’ truppe. E dovrebbe imporre il massimo sforzo di  fraternizzazione con gli immigrati arabi e medio-orientali qui, primo passo per esprimere una vera solidarietà a chi si batte per il pane e per la dignità, la denuncia a tutto campo delle politiche repressive nei confronti dei profughi, per l’accoglienza incondizionata di tutti, per la denuncia dell’escalation bellica e dell’aumento delle spese militari come mezzo per scaricare la crisi sulle popolazioni ribelli. E invece…

Nella tragica vicenda siriana si stanno forgiando gli schieramenti di una possibile apocalittica futura guerra mondiale, nella quale entrambi gli schieramenti, quello che al momento appare il più forte, assemblato intorno agli Stati Uniti, e quello che va lentamente formandosi intorno all’asse Russia-Cina, sono nemici giurati della causa dei lavoratori del mondo intero. Gli anti-imperialisti a senso unico, i capi almeno, questo è sicuro, hanno già scelto dalla parte di quale delle due fazioni capitaliste-imperialiste stare, sulla base di analisi e di calcoli che di proletario e di comunista non hanno assolutamente nulla. Per noi internazionalisti, invece, ieri come oggi, “i socialisti [i comunisti, i proletari] devono servirsi della lotta tra i briganti [capitalisti, imperialisti] per abbatterli tutti”, e non certo aiutare i più giovani e rampanti tra loro contro i più decrepiti e arrancanti – è il Vladimir, quello giusto, che detta. Fermissimi nel disfattismo verso il ‘nostro’ imperialismo e il suo soprastante di Washington, verso i suoi patti e atti di guerra, ci rifiutiamo categoricamente di portare acqua agli avversari ultra-capitalisti del fronte occidentale che stanno a Pechino, a Mosca, a Teheran, a Damasco: significherebbe tradire, pugnalare le sterminate schiere dei proletari di questi paesi, le loro necessità, le loro aspirazioni, le loro lotte.

Noi lavoriamo per la costituzione del nostro schieramento, per la formazione di un nuovo movimento proletario internazionale e internazionalista composto dai lavoratori e dalle lavoratrici di tutti i paesi, per la loro fraterna unità, per conquistare insieme la liberazione dal sistema sociale di sfruttamento e di oppressione che ci succhia e ci toglie la vita e la dignità. La guerra esterna (in questo caso agli sfruttati e ai popoli del mondo arabo e del Medio Oriente) e la guerra di classe interna condotta dal padronato e dal governo, che ci riserva ogni giorno licenziamenti, estrema precarietà, disoccupazione, che ci impone l’intensificazione delle prestazioni per accrescere la competitività delle imprese, che ci reprime sui luoghi di lavoro e nella società, che vuole avvelenarci con il razzismo, sono due facce della stessa medaglia, due anelli della stessa, indivisibile catena capitalista da spezzare per sempre.

12 aprile 2017

La redazione de “il cuneo rosso”

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