di Douglas Mortimer

Un movimento di massa con alla sua testa la classe operaia industriale. E’ quello che in queste ore sta paralizzando l’intero Brasile con scioperi e blocchi della produzione in diversi distretti industriali in risposta alla riforma generale del lavoro, che intende cancellare i diritti conquistati con lo Statuto dei lavoratori, innalzare l’età pensionabile a 65 anni per gli uomini e a 62 per le donne, e decurtare drasticamente la pensione di reversibilità.

Il Brasile è un paese dove la disoccupazione coinvolge 14 milioni di persone e che è attraversato da una profonda crisi dei salari. L’attacco del Governo Temer, al potere grazie a un golpe bianco istituzionale, prevede il ridimensionamento della forza contrattuale dei lavoratori e sancisce una forte libertà di licenziamento da parte dei padroni.

I lavoratori di tutto il paese organizzati nei diversi sindacati di settore si sono mobilitati bloccando i principali nodi dell’economia brasiliana: industrie, trasporto su ferro, trasporto marittimo, uffici pubblici, ospedali, scuole e università. Intere città sono completamente paralizzate dallo sciopero. L’estensione della lotta è talmente vasta che persino le forze di polizia stanno valutando d’incrociare le braccia.

In lotta anche i lavoratori dei servizi. Una risposta dura e combattiva risultante di una serie di processi che hanno attraversato il Brasile negli ultimi anni. Nessuno, però, fino ad oggi era riuscito a portare l’attacco al cuore degli interessi economici del grande capitale brasiliano, come sta succedendo, invece, in queste ore.

La protesta nella sola periferia industriale di San Paolo ha visto un’adesione dell’85% nelle più importanti fabbriche metallurgiche con un blocco della produzione in Ford, Mercedes-Benz, Volkswagen e General Motors con oltre 70.000 operai che hanno lasciato il lavoro per aderire alla lotta. In Bosch, CNH, Volgo, Renault, Volkswagen i lavoratori hanno bloccato le autopiste con picchetti e barricate dando fuoco a pneumatici.

Nella fabbrica Marco Pòlo oltre 10.000 operai metalmeccanici hanno lasciato il lavoro.
La protesta si è estesa a macchia d’olio e la radicalità della battaglia in relazione all’attacco del Governo ha fatto da detonatore per per tutto il movimento operaio brasiliano, che vede crescere sempre più la propria consapevolezza rispetto alle metodologie di lotta da mettere in campo.
Picchetti e astensione dal lavoro si sono verificati nelle fabbriche chimiche, nelle raffinerie e nella siderurgia.
Sono soltanto alcuni dati del tutto parziali di quello che è uno dei più importanti scioperi generali da decenni in Brasile.

Una bella gatta da pelare per la burocrazia sindacale, che sta sudando sette camice per riportare gli operai negli schemi della concertazione e dell’accordo al ribasso. Uno dei principali sindacati, Forza Sindacale ha chiesto al Governo di rinegoziare il ridimensionamento del ruolo dei sindacati al tavolo delle trattative, per evitare il collasso del proprio apparato burocratico di stipendiati, arrivando a far pressioni sul suo partito di riferimento (Solidarietà) per fare un accordo con Renan Calheiros, senatore destituito per corruzione, e emendare la riforma.

In questo quadro magmatico di precipitazione del conflitto, le organizzazioni sindacali legate al Partito del Lavoro (CUT e CBT) stanno provando a cavalcare la protesta per polarizzarne il potenziale in una logica di sostegno elettorale a Lula il prossimo anno.
La burocrazia sindacale, però, sbaglia se pensa di poter utilizzare la classe operaia come una pedina in una partita a scacchi. Quando il proletariato entra in conflitto col governo dei padroni cresce la sua consapevolezza. Il risultato reale della lotta non è tanto la vittoria in sè, ma la crescita complessiva della coscienza e l’allargamento dell’autorganizzazione dei lavoratori.

Il governo golpista di Temer è il frutto delle politiche di compromesso sociale portate avanti dal PT. Le stesse che hanno fatto sprofondare il proletariato brasiliano nella disoccupazione e nello sfruttamento.
Le ragioni dei lavoratori, che reclamano salari dignitosi, case, la fine della povertà e dello sfruttamento, non sono in alcun modo conciliabili con quelle della proprietà privata, degli imprenditori brasiliani e della crescita dei saggi di profitto.

Lo sciopero generale in Brasile dimostra concretamente e ancora una volta, fuori da qualsiasi astrazione concettuale, che la classe operaia industriale rappresenta il centro dello scontro tra Capitale e Lavoro, se non altro per il suo ruolo peculiare nella produzione delle merci e nei processi di valorizzazione; che la sua scesa in campo nel conflitto sposta in maniera decisiva i rapporti di forza. Quanto questa forma radicale di lotta saprà trovare gli giusti canali di organizzazione per vincere lo diranno soltanto gli eventi. Certo è che una svolta decisiva sembra essersi affacciata all’orizzonte in Brasile.

Il movimento operaio brasiliano può allearsi soltanto con sè stesso e con i lavoratori degli altri paesi dell’America Latina; imparare attraverso la lotta a educarsi ala propria autorganizzazione. Soltanto sulla base di una propria democrazia assembleare –  operaia e popolare – può costruire una società senza classi, che ridia dignità a tutti gli oppressi, sulle cui vite imprenditori, politici corrotti e burocrazia sindacale hanno costruito nel capitalismo i propri privilegi.

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