Pubblichiamo la seconda parte (qui la prima) di un’intervista pubblicata su Izquierda Diario di Juan Dal Maso a Pietro Basso, sociologo italiano che svolge lavori di ricerca sulle cause del fenomeno delle migrazioni e la sua relazione con la crisi del capitalismo. Un contributo analitico che pensiamo possa essere utile per chiarire diversi aspetti delle politiche razziste degli Stati-Nazione imperialisti d’Europa.
Continuando la riflessione sulla politica europea nei confronti degli immigrati, tu hai parlato di una guerra agli emigranti africani e medio-orientali, perché?
Sì. Si parla tanto dei muri e dei fili spinati che l’Ungheria di Orban sta costruendo alle sue frontiere. Ma cos’altro sta facendo da anni l’intera Unione europea se non costruire campi di concentramento per emigranti in Africa e Medio Oriente subito fuori dai propri confini, e anche dentro i propri confini; se non mettere in moto navi, droni, aerei di combattimento, bombardamenti, mezzi finanziari ingenti per strutture repressive e militari quali Frontex, Triton e Poseidon; se non creare un coordinamento sempre più stretto tra le proprie polizie, generalizzare le impronte digitali, costruire banche date e schedature; se non indurire la propria legislazione contro gli immigrati e le immigrate, subordinando sempre più la regolarità della loro condizione all’esistenza di un contratto di lavoro?
Quindi non bisogna aspettarsi un mutamento della politica dell’Unione europea nei confronti degli immigrati in seguito all’impatto degli eventi delle ultime settimane.
No. Se non sarà costretta a ciò da una ripresa della lotta della classe lavoratrice che si sappia fare carico delle aspettative e dei bisogni degli emigrati-immigrati, l’Unione europea andrà avanti sulla stessa strada degli ultimi vent’anni, combinando una repressione sempre più sistematica e dura con una accettazione selettiva degli immigrati. La repressione e la gyuerra agli emigranti-immigrati non sono fini a sé stessi: servono a comprimere al massimo le attese dei nuovi immigrati; più difficile e rischioso è e sarà entrare in Europa, più chi riuscirà ad entrarvi dovrà starsene zitto e buono, accettare il trattamento discriminatorio che gli stati e le imprese europee gli riserveranno.
Qui sorge una grossa questione politica. Tu hai sottolineato che le migrazioni internazionali hanno modificato in profondità la composizione della classe operaia rendendola più internazionale. Continua a pensare la stessa cosa? E come vede la crescita delle organizzazioni di destra anti-immigrati in Europa?
La internazionalizzazione del proletariato europeo (e mondiale) è un processo epocale inarrestabile, frutto della compiuta mondializzazione del capitale e della mondializzazione delle migrazioni. Il capitale imperialista delle metropoli cerca di tenerlo sotto controllo e usarlo ai fini del rilancio del processo di accumulazione attraverso la sistematica messa in concorrenza tra i proletari delle diverse nazionalità, e tra i proletari immigrati di più lungo insediamento e i nuovi venuti. Per questo è in perenne ‘agitazione’ contro gli immigrati – lo è anche perché sa bene che essi provengono dai continenti di colore che si sentono in ascesa sul piano storico, tanto quanto vedono in discesa di forza e di legittimità i vecchi padroni del mondo. Questa ‘agitazione’ è forte soprattutto nelle frazioni più deboli delle classi capitalistiche europee, che si sentono mancare il terreno sotto i piedi – sono esse, a mio avviso, le forze sociali propulsive che stanno dietro le organizzazioni della destra europea più aggressive e violente contro gli immigrati. In Italia è la massa dei piccoli e piccolissimi capitalisti padani che ha dato e dà forza alla Lega.
Ma la loro ‘agitazione’ – inutile negarlo – ha fatto e fa breccia anche tra i lavoratori italiani ed europei che sentono sulle proprie vite il peso della oggettiva concorrenza al ribasso esercitata, non certo per loro scelta, dalle lavoratrici e dai lavoratori immigrati. Tra i salariati italiani c’è paura, c’è anche ostilità verso, soprattutto, i nuovi immigrati (meno verso quelli già residenti da tempo). Il problema è: come si può uscire da questa paura, ostilità, contrapposizione fratricida?
Infatti: è questa la questione-chiave. Tu hai sottolineato l’importanza della auto-organizzazione degli immigrati. Può dirci qualcosa sulle esperienze più recenti?
Ho già citato le proteste e le rivolte degli emigranti che non hanno avuto paura, nelle scorse settimane, a scontrarsi con polizie e militari in vari punti dell’Europa pur di affermare la loro necessità di entrare in Europa e trovarvi una vita dignitosa. Se solo volessimo fare un censimento di queste proteste, sarebbe davvero molto lungo.
Ma ora, limitandomi all’Italia, degli ultimi anni, noterò questo. 1) In una situazione di arretramento generalizzato e disordinato della classe lavoratrice, il solo settore in cui i lavoratori hanno fatto dei passi in avanti è stato quello dei grandi centri della logistica nel centro-nord del paese, per effetto delle accanite lotte condotte da alcune migliaia (dieci-quindicimila) lavoratori immigrati che si sono organizzati nel Si Cobas, il primo sindacato di base in Italia composto in larga prevalenza da lavoratori immigrati. Hanno subito ogni tipo di repressione e di ricatto, ma l’hanno fronteggiato senza paura e con un senso molto forte della collettività e della solidarietà operaia. Sono stati loro e il loro sindacato ad organizzatore la sola iniziativa militante e internazionalista che c’è stata in Italia a sostegno dei richiedenti asilo e degli emigranti in genere. 2) In una situazione delle campagne, del Sud Italia in particolare, nella quale è normale una condizione semi-schiavistica, le uniche proteste e le uniche rivolte degli ultimi sette-otto anni si devono ai braccianti africani, che stanno insegnando anche ai braccianti e alle braccianti italiani che si deve tornare alla lotta organizzata se si vuole uscire da questa condizione. 3) In un contesto sociale e istituzionale sempre più segnato da un dispotico autoritarismo, le proteste e le rivolte degli immigrati – e solo esse, per il momento – hanno avuto il merito di segnalare in quale direzione sta andando l’intera società italiana, e non solo la politica verso gli immigrati, e di mostrare che si può e si deve resistere a questa tendenza.
Si tratta di ‘piccoli’ esempi in termini numerici, ma molto significativi perché avvengono in un contesto, come ho detto, di depressione della conflittualità sociale.
L’Italia, però, è nel mondo una piccola cosa. Non c’è spazio per parlarne qui, ma a livello mondiale l’importanza di questa auto-organizzazione e la sua forza è evidentissima in due grandi fatti di inizio ventunesimo secolo: il magnifico sciopero degli immigrati latinos (e non solo latinos) avvenuto negli Stati Uniti il 1° maggio 2006 e la ininterrotta catena di piccoli-grandi scioperi delle operaie e degli operai immigrati interni (mingong e non solo) nelle aree costiere della Cina. Stiamo parlando di Stati Uniti e Cina…
Hai richiamato la posizione di Marx sulla questione irlandese per pensare il posizionamento del movimento operaio sulla questione degli immigrati oggi. Come vede la politica attuale dei sindacati europei su questo tema? Cosa dovrebbero fare le organizzazioni sindacali dei paesi metropolitani?
Mi permetto di non avere alcun dubbio a riguardo: Marx farebbe una critica spietata e a 360 gradi dell’attuale movimento sindacale europeo, senza eccezione. Nella crisi degli ultimi mesi esso è rimasto in pressoché totale silenzio! Anche nelle iniziative di piazza più riuscite (penso alla manifestazione avvenuta a Londra l’11 settembre, con circa centomila partecipanti), non c’è stata traccia di una presenza sindacale organizzata. Questo perché in Europa i sindacati storici sono sempre più sottomessi alla logica della competitività e degli interessi nazionali e aziendali, sono sempre più profondamente malati di nazionalismo, e per questo sempre più subalterni ai poteri costituiti, e sempre più deboli. E questo sebbene siano tanti, milioni!, gli immigrati ‘organizzati’ nelle loro fila.
Quello che dovrebbero fare delle organizzazioni sindacali veramente classiste è battersi contro ogni forma di discriminazione ai danni delle lavoratrici e dei lavoratori immigrati e promuovere ovunque la più forte unità, su basi paritarie, di effettiva parità, tra immigrati e autoctoni. Consapevoli che la divisione della classe lavoratrice è la sua principale ragione di debolezza, e la sua unità la sua sola forza.
Nato a Buenos Aires nel 1977, vive a Neuquén. Membro del Partido de los Trabajadores Socialistas (PTS) dal 1997, è autore di "Il marxismo di Gramsci. Note sui quaderni del Carcere" (pubblicato in spagnolo, portoghese e italiano) e "Hegemonía y lucha de clases. Tres ensayos sobre Trotsky, Gramsci y marxismo" (Ediciones IPS, 2018), oltre a vari articoli su temi della teoria marxista.