Decine e decine di lavoratori del trasporto merce operanti nei porti di Los Angeles e Long Beach hanno incrociato le braccia per cinque giorni per protestare contro le condizioni di lavoro. Lo sciopero, il 15° negli ultimi quattro anni, è stato proclamato contro la pratica diffusa del subappalto e del “wage theft”, il furto di salario compiuto dalle compagnie di autotrasporti. La mobilitazione è sostenuta dalla sezione locale del sindacato dei Teamster.

I lavoratori hanno cominciato a riunirsi alle prime luci dell’alba del 19 giugno, prima davanti alle sedi delle compagnie XPO Logistics, Cal Cartage, CMI, e poi nei punti di arrivo delle merci a Long Beach e Los Angeles, dove i container vengono trasferiti sui camion e sui vagoni ferroviari. I picchetti, che si sono estesi a sette terminal, hanno bloccato decine di camion provocando ritardi nel traffico in entrata e in uscita dal porto di Los Angeles.

“Lavoro 14 ore al giorno a volte senza pause”, gridava un camionista in lotta.

Da anni le compagnie di trasporto classificano i conducenti come lavoratori autonomi, evitando così di pagare il salario minimo, gli straordinari, le spese per la salute e la sicurezza, e i benefici per la disoccupazione. Particolarmente feroce è la pratica – come racconta USA Today – di “costringere i conducenti a riscattare i propri autocarri assumendosi debiti che non possono permettersi. Le società hanno poi usato quel debito come leva per sfruttare meglio i lavoratori e intrappolarli in un lavoro che li ha lasciati poveri”.

Venerdì 23 giugno una delegazione di lavoratori appoggiati dal sindacato ha consegnato una petizione con 10.000 firme che invita i sindaci di Los Angeles e di Long Beach a porre fine alla schiavitù nei porti.

La condizione lavorativa dei teamster è pari, da almeno dieci anni, a quella degli autisti di Uber. A partire dal 2008, le compagnie di autotrasporto hanno costretto i camionisti a versare quote che arrivano fino a 100.000 dollari per il contratto di locazione degli autocarri, indebitandoli pesantemente. I camion sono talmente costosi che molti piloti sono costretti a lavorare fino a 20 ore al giorno per riuscire ad avere un salario dignitoso; se i conducenti si ammalano o sono troppo esausti per andare avanti, le società di trasporto possono rescindere il contratto, riprendersi il camion e tutto quello che è stato versato. Molti autisti hanno perso fino a 50.000 dollari, altri hanno addirittura perso la casa.

Il processo di “outsourcing” (esternalizzazione) non è dovuto tanto alla cattiveria dei padroni, quanto al bisogno impersonale del capitalismo globale di sfruttare in maniera scientifica la forza lavoro. I giganti del commercio al dettaglio attingono ad una catena di ditte appaltatrici e subappaltatrici che spremono come limoni gli operai, e la filiera va dai magazzini della California fino a quelli del Sud-est asiatico.

La maggior parte dei 16 mila autisti definiti “appaltatori indipendenti” fa parte di un esercito che sposta i carichi di merce nei porti di Los Angeles e di Long Beach, dove transitano la metà di tutte le importazioni statunitensi (in maggior parte in arrivo dalla Cina). Insieme a più di 14.000 lavoratori dei magazzini portuali, gestiscono una media di oltre 233 milioni di tonnellate di merci ogni anno, valutate intorno ai 334 miliardi di dollari. Questi operai avrebbero un’enorme forza se solo fossero organizzati adeguatamente dato che la logistica è un settore chiave nel moderno flusso di produzione/circolazione capitalistico.

Gli autisti dicono che la campagna “Justice for Port Drivers” non si fermerà fin quando non miglioreranno salari e condizioni di lavoro. C’è da credergli.

 

Fonte: Chicago 86

Nato a Cesena nel 1992. Ha studiato antropologia e geografia all'Università di Bologna. Direttore della Voce delle Lotte, risiede a e insegna geografia a Roma nelle scuole superiori.