Ha attirato l’attenzione dei media lo studio pubblicato da Mediobanca che restituisce il quadro delle principali società italiane. Dalla mole di dati messi a disposizione, emerge in particolare lo stato delle prime dieci aziende italiane, specie se comparato con quelle dell’UE – tenendo conto che grandi gruppi industriali e holding finanziarie come Exor (famiglia Agnelli), Pirelli e Italcementi risultano realtà con “passaporto straniero” poiché hanno spostato la propria sede legale in altri paesi (ad esempio, Exor ha base nei Paesi Bassi).

Dal quinquennio 2012-16 emerge che i dieci maggiori gruppi italiani  (Fca Italy, Leonardo, Saipem, Luxottica, Prysmian, Parmalat, Fincantieri, Prada, Buzzi Unicem e Cofide) nel 2016 hanno fatturato 84 miliardi di euro, crescendo dell’1,6% rispetto al 2015, ma arrancando rispetto ai big di altri importanti paesi europei.

I primi dieci gruppi tedeschi hanno portato il fatturato 2016 a 767 miliardi, circa nove volte tanto; quelli francesi 327 miliardi e quelli del Regno Unito 180 miliardi – un divario che negli anni è cresciuto, con una crescita del fatturato 2016 che va dal 5,1% italiano al 5,7% britannico, dal 6,6% francese all’11,9% tedesco, mentre l’incidenza sul PIL nazionale rende l’idea della minore centralizzazione dei grandi capitali propriamente “italiani”: 5,1% a fronte del’8,3% britannico, il 14,7% francese e il 24,4% tedesco.

Le top 10 italiane si caratterizzano per una minore quota di fatturato prodotto all’estero, ma di una percentuale relativamente piuttosto alta di dipendenti nelle sedi straniere, mentre registrano risultati pessimi in quanto a redditività netta (-3% medio contro il 12-24% dei rivali) e agli utili, appena 4 miliardi in cinque anni, cioè lo 0,9% del fatturato.

Il fatto che i pesi massimi dell’economia italiana risultino così poco competitivi rispetto ai capitali europei, unito alla situazione piuttosto drammatica del sistema bancario italiano (il quale ha un fortissimo peso sulle aziende), influenza negativamente a cascata tutti gli strati che attorno ad esso si dispongono, arrivando fino alla miriade di micro-aziende sparse nei territori. E senz’altro i tanti estimatori del piccolo è bello gioiscono del fatto che il capitale italiano sia meno centralizzato e che quindi il peso delle odiate multinazionali sia in qualche modo mitigato.

Il problema per questi ideologi e per la piccola e media borghesia che li osanna è che, “in compenso”, l’economia italiana è fortemente dipendente da un numero sempre più ristretto di colossi bancari, spesso eredi di banche e imperi commerciali tra i più antichi del capitalismo mondiale, strapieni di prodotti finanziari del tutto slegati dal valore prodotto dall’economia “reale” (i famosi titoli tossici); a ciò si somma il tasso di ricerca&sviluppo mediamente molto più basso di quello dei rivali europei di cui sopra: un fattore derivante perlopiù proprio dal fatto che un corpo spezzettato di aziende piccole non è in grado di accumulare e centralizzare risorse per la ricerca allo stesso modo in cui lo fanno pochi grandi gruppi che hanno a disposizioni budget faraonici. Ed è d’altronde la centralizzazione del capitale e quindi delle aziende un fattore politicamente molto pericoloso per i capitalisti stessi, poiché fisicamente mette insieme, nello stesso luogo, un numero molto più grande di lavoratori che si trovano così già “naturalmente” in una situazione più agevole per lo sviluppo di una comune lotta economica e politica – una situazione di cui si rendono contro anche i giornali più lucidi della borghesia, come ha fatto l’Economist un anno fa cogliendo con terrore la profonda attualità dell’analisi marxista dei monopoli nell’epoca imperialista e delle conseguenze della concentrazione e centralizzazione del capitale.

GT

Nato a Cesena nel 1992. Ha studiato antropologia e geografia all'Università di Bologna. Direttore della Voce delle Lotte, risiede a e insegna geografia a Roma nelle scuole superiori.