“Adesso capisco, o Signore, la mostruosità che c’è dentro di noi, la nostra droga è il male, la nostra propensione al male risiede nella nostra debolezza. Kierkegaard aveva ragione, c’è un terribile precipizio davanti a noi, ma si sbagliava riguardo al salto, c’è differenza tra il saltare e l’essere spinti. Si arriva a un punto in cui bisogna fare i conti con i propri bisogni e l’incapacità di gestire fino in fondo la situazione crea un’insopportabile ansia, non è cogito ergo sum, ma pecco ergo sum, pecco quindi sono”
Nonostante la sua breve durata, “The addiction” di Abel Ferrara può esser interpretato come un enorme dramma morale, a tratti quasi arrogante, con le sue pretenziose citazioni filosofiche: più volte si passa da profondi dialoghi esistenzialisti alla spietata crudeltà del gore. La storia ha inizio con Kathleen, una giovane studentessa di filosofia. Una sera viene morsa da una seducente vampira, Casanova, la quale, dopo averla mutata in vampiro, la farà entrare in una vera e propria spirale della droga: Kathleen arriverà ad iniettarsi il sangue in vena. Perché Kathleen si lascia mordere con tanta facilità? Perché non oppone nessun tipo di resistenza? Perché il morso del vampiro vien accettato non per panico ma per fascinazione, per il fascino del male stesso. La nostra droga, diventa così, il male. Il morso del vampiro risveglia in Kathleen ( e in ognuno di noi )una voglia di onnipotenza, immortalità e controllo sulla vita e sulla morta (nostra e del prossimo). La protagonista interpreta il vampirismo come una specie di illuminazione. Dopo aver completato la sua mutazione, Kathleen inizia ad avere una nuova prospettiva sulla vita, guarda i libri come oggetti inutili – utili solo a quegli umani che vogliono trastullarsi con essi, umani ben lontani dal suo livello di consapevolezza della vita. Durante il film, la protagonista, inizia a coinvolgere insegnanti e studenti nella sua nuova ricerca di “senso”, mordendoli. Da questo punto del film, il regista mostra quanto conti l’impatto del nostro ego sugli altri. Questa umanità che, in fin dei conti, ha sempre vissuto al di là del bene o del male, vede, nella dipendenza, una duplice natura: essa o soddisfa lo stimolo che scaturisce dal male o attenua il nostro stesso stato di dipendenza, parliamo di un’esistenza intesa come ricerca di sollievo dal vizio, ma il vizio, alla fine, resta l’unico sollievo. Prima di toccare definitivamente il fondo, Kathleen incontra un vampiro (interpretato da Christoper Walker) che ha deciso di trascorrere la propria esistenza astenendosi dal sangue umano. Egli cerca di aiutare la ragazza, ma invano, poiché lei, all’apice della sua dipendenza, finirà, dopo essersi laureata a pieni voti in filosofia, finisce con l’ organizzare un vero e proprio baccanale di sangue, facendoci vivere una delle scene più grottesche ed estreme del film. Kathleen uscirà da quest’orgia completamente distrutta, in un’overdose ematica. Logorata dai suoi eccessi, verrà ricoverata in ospedale, con un crocifisso posto sul muro. Kathleen cercherà di confessarsi, chiamando un prete ma, in quel momento, compare nuovamente Casanova.
Capire il finale del film: Riscatto e redenzione?
Questi due temi sono sempre presenti nei film di Ferrara e, in un certo senso, si potrebbe dire che sono visibili anche qui… ma forse non del tutto. Bisogna prima discendere negli inferi per risalire? Come rinunciare alla propria natura? Quando Casanova va a trovare Kathleen in ospedale, le cita queste parole:
“Sproul ha detto che non siamo peccatori perché pecchiamo, ma pecchiamo perché siamo peccatori. In termini più accessibili, non siamo malvagi perché facciamo del male, ma facciamo del male perché siamo malvagi. Ora, che scelte hanno persone come noi? Non sembra che ne abbiamo.”
Feuerbach è uno dei filosofi più citati nel film: egli riteneva Dio un’estrazione mentale della natura, una natura malvagia, quindi, Dio è malvagio come rappresentato da De Sade in “Justine” o “Le 120 giornate di sodoma”?
Alla fine del film, assistiamo a ciò che potremmo interpretare come una redenzione finale della protagonista, che si reca sulla propria tomba, prima di voltarsi e lasciare così alle spalle il proprio passato. Tuttavia, questo non è il vero finale del film. Esso si concentra nell’ultimissimo frame, nell’ultimissima inquadratura, la scritta in latino su una lapide, che tradotta dice: “L’autocoscienza è la distruzione del sé”.
Sabrina Monno
Nata a Bari nel febbraio del 1996, laureata presso la facoltà DAMS di Bologna e studentessa presso Accademia Nazionale del Cinema, corso regia-sceneggiatura. Lavora prevalentemente in teatro, curando reading di lettura e sceneggiature.