Londra, 23 luglio 2011: il corpo senza vita della cantante Amy Winehouse viene ritrovato dal suo bodyguard all’alba. La notizia si diffonde fin da subito. La casa della cantante è circondata da fan in lacrime, giornalisti e polizia. Tutti piangono la prematura scomparsa di un’artista che, in breve tempo, è riuscita ad imporsi nel mondo della musica a livello internazionale grazie alla sua vocalità fuori dal comune e, in seguito, grazie alla sua fama di “artista tormentata”, descrivendo il ben noto meccanismo del “genio portato all’autodistruzione”.

Dopo la prematura scomparsa della cantante (avvenuta a 27 anni) il mondo del cinema, da subito, inizia a prendere in considerazione l’ipotesi di un film (o di un documentario) dedicato alla vita di Amy. La famiglia della Winehouse, in particolare il Mitch (il padre) accoglie ed incoraggia l’idea, tanto da scegliere in prima persona il regista che dovrà occuparsi del progetto finale. La scelta ricade su Asif Kapadia, regista inglese di origine indiana, acclamato per il suo lavoro precedente “Senna”. Kapadia studia e sceglie attentamente i filmati che riprendono la vita della protagonista: dall’infanzia ai primi concerti nei locali, dall’uscita del primo disco “Frank”, al successo planetario di “Back to black”. All’immagine di cantante, ovviamente, il regista affianca anche l’immagine della ragazza che si cela dietro quella voce e quell’inconfondibile stile. Tuttavia, dopo la presentazione di “Amy – The girl behind the name” al Festival di Cannes 2015, la famiglia Winehouse non approvò il lavoro, ritenendolo approssimativo ed accusatorio (soprattutto nei confronti di figure come il padre Mitch o il marito Blake).

Analizzando il lavoro, si capisce fin da subito che il documentario segue una struttura prettamente filmica\cinematografica, nella quale abbiamo una protagonista (Amy), una prova da superare (l’ingresso nel mondo della musica), l’abbandono del mondo ordinario (il successo commerciale di “Back to black”), il “superamento” della prima soglia (lo stato di “star” e il tentativo di vincere l’alcoolismo), la prova centrale (il passo della vita da star con i problemi personali) – il tutto con la presenza di figure chiave: un ombra (il padre), un “mutaforma” (Blake).

Quindi non un documentario, ma un film che non rispetta alcune sfumature della vita dell’artista, in quanto film e non puro documentario: ma il cinema non è lo specchio della vita stessa? È uno dei dilemmi più antichi da quando esiste la settima arte e non possiamo risolverlo in questa sede; tuttavia, a difesa del regista, bisogna dire che vita privata\vita pubblica non possono essere concetti separati quando si parla di un personaggio come Amy Winehouse. Lei stessa non li ha mai separati: basta ascoltare le sue canzoni.

In conclusione, “Amy” sarà pure un documentario insolito, ma, grazie a questa sua caratteristica, riesce a donarci il ritratto di una vera e propria discesa all’Inferno di una ragazza che, alla fine, voleva solo essere una cantante Jazz. Una ragazza amata e poi distrutta dai media; una ragazza come tante, cresciuta in una famiglia con un papà assente ed una madre debole; una ragazza a cui bastava suonare la chitarra per qualche ora per esorcizzare i suoi demoni. A fine pellicola, quello che lo spettatore davvero percepisce è il calore di aver passato due ore della propria vita con una ragazza timida, per niente cosciente del proprio talento e, ovviamente, dilaniata dalla vita e dall’arte.

Un’artista vera che si è spenta troppo in fretta.

 

Sabrina Monno

 

Nata a Bari nel febbraio del 1996, laureata presso la facoltà DAMS di Bologna e studentessa presso Accademia Nazionale del Cinema, corso regia-sceneggiatura. Lavora prevalentemente in teatro, curando reading di lettura e sceneggiature.