Nel panorama del nuovo cinema italiano, il nome di Paolo Genovese è, senza dubbio, uno dei più noti. Il regista romano, ancora immerso nel successo che è stato “Perfetti sconosciuti”, chiude quest’anno il Festival del cinema di Roma con il film “The place”. Un film che sembra voler prendere le distanze dalle tematiche affrontate nella pellicola precedente, mantenendo, tuttavia, la stessa struttura narrativa (l’uso di un’unica unità di luogo, in questo caso un bar un po’ vintage all’americana).

L’intera vicenda di questo film corale ruota intorno al locale “The place”, in cui un uomo misterioso (Valerio Mastandrea) siede sempre in ultima fila, con camicia bianca, giacca nera ed una grande agenda scura. Resta lì intere giornate, incontrando diverse persone: le ascolta, annota i loro desideri, i loro pensieri e, infine, dà loro un compito. Una volta svolto questo incarico, i desideri da loro espressi si avvereranno. Una dinamica che richiama quella del patto col Diavolo, anche se il personaggio di Mastandrea non si qualifica come tale: non ha nome, non ha una vita al di fuori del locale, al di fuori dei problemi dei suoi clienti. La sua unica attività è dar loro compiti che richiedono azioni atroci, fomentando, in un certo senso, la cattiveria potenzialmente già presente in ognuno di noi.

Il film si ispira alla serie tv made in USA “The booth at the end”, andata in onda nel 2010. La trama del film di Genovese è praticamente identica: la differenza basilare tra le due produzioni è proprio la costruzione e l’intreccio degli eventi. Quando si tratta di gestire un film corale, statico dal punto di vista scenografico e, quindi, di impostazione puramente teatrale, la maestria del regista deve essere al massimo delle sue capacità. Di fatti, da un regista come Genovese che è stato capace di regalarci un film come “Perfetti sconosciuti”, le aspettative erano a dir poco altissime. Sfortunatamente “The place” non riesce a reggere il peso dei vari intrecci, i quali, ben presto, diventano prevedibili e, soprattutto, carichi di buonismo. La cultura occidentale, soprattutto un certo tipo di letteratura romantica, è pregna di protagonisti che si scontrano con la figura, a tratti seducente, di Mefistofele. Quindi la tematica del “patto col Diavolo” è ben radicata in noi. Personaggi come Faust, in conclusione, non sono nè buoni, nè cattivi: sono semplicemente umani; raramente la costruzione di questi personaggi concede loro un finale positivo. Ma è qui il film di Genovese si distrugge da solo: i personaggi di The place cedono, il più delle volte, all’amore e alla comprensione, nonostante più volte il personaggio di Mastandrea si definisca come “colui che sfama le bestie”. Bestie, queste di Genovese, rese prevedibili non solo da una sceneggiatura predicibile, scontata, ma anche da scelte di regia non totalmente efficaci o comprensibili (ad esempio una ripresa dall’alto sul personaggio della Ferilli in pieno stile “poliziesco”).

Per concludere, “The place” non riesce ad essere il degno erede di “Perfetti sconosciuti”, ma riesce a mostrarci un cinema italiano capace di mettersi in discussione, di tentare e percorrere strade rischiose; un cinema, possiamo ufficialmente dirlo, che tenta disperatamente di risorgere dalle sue ceneri.

 

Sabrina Monno

 

Nata a Bari nel febbraio del 1996, laureata presso la facoltà DAMS di Bologna e studentessa presso Accademia Nazionale del Cinema, corso regia-sceneggiatura. Lavora prevalentemente in teatro, curando reading di lettura e sceneggiature.