In questa società sono molti i motivi per cui una persona può essere discriminata: non solo per il colore della pelle, per il Dio in cui crede o non crede, per gli abiti che indossa, per una condizione di povertà materiale, per la propria inclinazione sessuale, per ciò che dice e che pensa; generalmente si tende ad allontanare le persone anche per il modo che hanno di relazionarsi con gli altri (o di scegliere di non farlo). Quelle persone giudicate per il proprio modo di essere e di comportarsi “fuori moda”, sono caratterizzate da tutto ciò che comporta una spiccata fragilità emotiva che non favorisce l’adattamento alle “normali” richieste della vita.

Più o meno, tutti sanno o presumono di sapere cosa significa introversione (e, ovviamente, estroversione). Pochi neologismi inventati nel corso della storia della psicologia e delle scienze umane hanno avuto la fortuna di questi termini, introdotti da Jung nel 1920 (Tipi psicologici, Roma 1970).

Per il senso comune l’introverso è tout-court un “orso”, un essere tendenzialmente solitario e asociale. Il senso comune si riflette anche a livello lessicale. Se si consultano i dizionari più diffusi (Zingarelli, Garzanti, Devoto Oli, De Mauro), introversione ed estroversione sono definiti in termini che implicano un giudizio di valore. L’estroverso è aperto, comunicativo, cordiale, affettuoso, espansivo, esuberante; l’introverso, viceversa, chiuso, riservato, scontroso, freddo, schivo, distaccato.

Che cosa c’è di vero in tali definizioni? Molto stando alle apparenze, poco per quanto concerne ciò che si dà dietro di esse: il mondo interiore dell’introverso.

Le apparenze comportamentali permettono di comprendere il pregiudizio sociale che, nella nostra società, incombe sull’introversione. Per sormontarlo, occorre procedere sulla via della conoscenza, partendo da un presupposto che concerne tutti gli esseri umani:

ogni uomo, nel modo di essere che lo caratterizza e ne definisce la personalità, è un prodotto della natura, delle opportunità di sviluppo offerte dall’ambiente socio-culturale e del modo in cui egli interagisce con esse.

Dato ciò, bisogna essere disposti ad accettare la diversità umana anche sotto questo aspetto, valorizzando i pregi e rispettando i limiti propri di ogni singolo tipo psicologico. Ai più (gli estroversi), rimane scomoda la comprensione dell’inattitudine alla socialità tipica degli introversi, poiché ignorano come il motore che perpetua questo stato di cose sia presente nella stessa incomprensione di determinati comportamenti che sfocia inevitabilmente nella discriminazione.

Ogni coscienza individuale vive nell’interfaccia di due mondi: quello esterno, su cui è affacciata attraverso i sensi, e quello interno, che viene recepito come “sede” della propria identità. Il tratto estroverso/introverso, sul piano immediato, significa semplicemente che alcuni soggetti sembrano più attratti dal mondo esterno, altri da quello interno: gli uni pensano, sentono e agiscono sulla base dei dati che arrivano dal mondo esterno; gli altri filtrano attraverso il mondo interno tali dati e danno ad essi significati soggettivi.
Se si ha la pazienza e la fortuna di conoscere veramente una persona prevalentemente introversa e poi ci si ferma a riflettere un istante, appare evidente che l’introversione è una condizione potenzialmente ricca, ma anche problematica. Sentire intensamente, essere capaci di mettersi nei panni degli altri, avere un senso innato di dignità e di giustizia, essere inclini a riflettere sulla vita, essere dotati di una qualche creatività sono autentiche qualità. Esse però, confluendo univocamente nella tendenza a interrogarsi su sé stessi, sugli altri e sullo stato di cose esistente nel mondo, “condannano” in una certa misura l’introverso a porsi dei problemi per tutta la vita, e a tentare di risolverli raggiungendo livelli sempre più elevati di consapevolezza e di comprensione della realtà (o peggio, abbandonare ogni speranza e finire col far parte della categoria dei NEET hikikomori).

Questa “condanna” a crescere emotivamente e culturalmente, a esplorare mondi e modi di essere possibili, è spesso mal vissuta dagli introversi, che, avvertendola come un peso, giungono ad invidiare coloro che vivono senza porsi troppi problemi.

Operata e valorizzata originariamente da Jung, la distinzione tra estroversione e introversione va, oggi, ripresa e approfondita perché, nel nostro mondo, l’introversione si è venuta sempre più a configurare come un tratto negativo della personalità. Purtroppo, tale pregiudizio è spesso condiviso anche dagli introversi, che vivono con una consapevolezza dolorosa la propria diversità e fanno il possibile per mascherarla e/o negarla, cercando di omologare il proprio comportamento a quello degli altri.

Il pregiudizio incide anche a livello pedagogico, perché, in vari modi, i genitori e gli insegnanti, identificato un bambino come introverso, sentono il dovere di aiutarlo ad estrovertirsi, a socializzare, a normalizzarsi, ecc.

Le conseguenze del pregiudizio sociale sull’introversione sono serie perché gran parte degli introversi convivono con un oscuro malessere e non pochi di essi manifestano disturbi psichici di vario genere.

Esistono, insomma, nel nostro mondo, troppi introversi introvertiti e troppi estroversi estrovertiti. Questo giudizio non è un gioco di parole. Esso coglie una drammatica realtà psicosociologica, che non è azzardato ricondurre nell’ambito dell’alienazione, se con questo termine s’intende un’eccessiva pressione adattiva operata da un modello normativo funzionale alle esigenze del sistema socio-economico e culturale. Il pregiudizio nei confronti degli introversi, che essi purtroppo interiorizzano con l’aria che respirano, e che in alcuni casi si traduce in una vera e propria “persecuzione” sociale, Nella maggior parte dei casi inconsapevole e incolpevole, non è certo l’unica iniquità del nostro mondo.
Il paradosso per cui una ricchezza potenziale, qual è quella intrinseca all’introversione, dà luogo spesso ad un’esperienza di vita soggettivamente e a volte socialmente penosa, fino al limite estremo dell’isolamento e del disagio psichico, rappresenta un “mistero” difficile da decifrare. Alcuni studiosi lo risolvono affermando che l’introversione, se comporta una ricchezza di potenzialità, o forse proprio in conseguenza di essa, è caratterizzata anche da una “vulnerabilità” costituzionale che non favorisce l’adattamento alle “normali” richieste della società. Si tratta, però, di un’ipotesi che assume l’adattamento al mondo esterno come criterio supremo di normalità. Essa traspone un principio valido per gli animali, che devono lottare per sopravvivere in rapporto all’ambiente naturale, ad un livello – quello umano – in cui l’adattamento concerne un ambiente culturale prodotto dall’uomo stesso: un ambiente, dunque, “artificiale”, che, nel suo modellarsi in rapporto alle esigenze di coesione e di riproduzione di una determinata società, può non fornire opportunità di sviluppo adeguate alla varietà genetica che caratterizza gli individui; un ambiente, infine, che, in nome di una norma, tende a naturalizzarsi e a rifiutare l’esistenza di altri modi possibili di organizzazione della vita individuale e collettiva.

L’introverso adulto che ha avuto uno sviluppo poco o punto interferito dall’ambiente è un essere equilibrato e sostanzialmente sereno, riservato, signorile e delicato nei rapporti con gli altri, con una sfera di relazioni sociali intime sempre ristretta ma di grande profondità. Egli di solito coltiva interessi culturali e creativi piuttosto impegnativi, ma che sono per lui come l’aria che respira e dai quali ricava un appagamento spesso superiore alla pratica dei rapporti sociali e affettivi. Egli continua ad interrogarsi sul mondo, ma a partire da un atteggiamento di comprensione e di tolleranza, incentrato sulla consapevolezza che gli uomini tendono a dedicare troppo poco tempo alla vita interiore per essere saggi.

Purtroppo, una condizione di autorealizzazione del genere è eccezionalmente rara. Gran parte degli introversi, infatti, rimangono letteralmente schiacciati dall’interazione tra le loro potenzialità, che comportano tempi e modi di sviluppo particolari, e le opportunità offerte o le richieste normative dell’ambiente socio-culturale.

Per cercare di far comprendere quanto il modo di produzione antropologico proprio della nostra società sia in certi casi molto più che fallimentare, sono riportate di seguito alcune testimonianze prese dal forum della LIDI (Lega Italiana per la tutela dei Diritti degli Introversi):
È una verità che ogni bambino introverso impara ben presto: la società non vuole persone introverse, non sa cosa farsene e così le incita a rinnegare il proprio carattere, i propri bisogni per altri che reputa migliori e più desiderabili. È questo il messaggio che mi è stato trasmesso sia a scuola che nella vita di tutti i giorni: devi parlare, interagire, essere al centro dell’attenzione anche solo per pochi secondi. Non rimanere in silenzio, non parlare di cose interessanti, non li fare sentire in imbarazzo con la tua incapacità di rincorrere gli argomenti. Il mondo è nelle mani degli estroversi, è palese, sono loro ad avere successo, a far carriera, a cogliere le opportunità migliori… o perlomeno questo è quello che vogliono farci credere.

Il peggior difetto di un introverso? Essere quello che “non è di moda”. Il peggior difetto di un estroverso? Il non riflettere veramente su quello che dice o fa.

Per i miei genitori la mia timidezza introversione andava bene finché ero bambina, sai com’è ai “miei tempi” (negli anni 90!) c’era il mito del bambino silenzioso, giudizioso, bravo a scuola. Ed io ero proprio così. Quando sono cresciuta e dovevo allora abbracciare lo stereotipo prima dell’adolescente e poi dell’adulta aperta, simpatica, estroversa “sveglia” se vogliamo dire, le cose sono andate sempre più peggiorando. È una vita che mi dicono che devo cambiare, che se non cerco di cambiare non mi troverò mai bene nella vita, che siamo fatti per essere esseri sociali e non è possibile che io preferisca stare da sola che uscire con gli amici; che la vita è anche doversi confrontare con il giudizio degli altri e anche soffrirci… Mi dicono che alla mia età, 24 anni, bisogna essere pieni di vita e di brio, aver voglia di fare. Invece io sono sempre amante dei passatempi solitari: mi piace guardare film su internet, leggere notizie interessanti, leggere un bel libro da sola e fare escursioni da sola a contatto con la natura. Anche avere un’amica o due con cui confidarmi ma nel gruppo non mi ci trovo.

Mia sorella è molto estroversa, ha avuto tantissimi amici e a me, che ero riservatissima, l’hanno sempre proposta come modello, a volte credendo di spronarmi dicendo che “ero una fallita in confronto a lei” e che “non ce l’avrei mai fatta ad essere come lei” credendo di stimolarmi in quel modo. Ancora oggi non mi lasciano in pace.

Purtroppo, le difficoltà stanno nel liberarsi dall’interiorizzazione di certi modelli e nel trovare interlocutori altrettanto liberi e autentici. La cosa è difficile e molto rara. Tutti noi, consapevoli o meno, usiamo delle maschere nell’affrontare gli altri. Questo è un metodo affinato dall’uomo che vive in società per riuscire a salvaguardare delle parti di sé intime e profonde (non sempre ha senso dire tutto, far sapere tutto di sé, mettersi in gioco completamente e incondizionatamente, usare la massima fiducia e spontaneità nell’approcciare l’altro) e allo stesso tempo, però, a entrare in relazione con gli altri. Come tentativo di trovare un compromesso tra le due cose non sarebbe neanche troppo tremenda. Il guaio è che le persone – senza neanche rendersene conto – interpretano solo il ruolo assegnato e sono disturbate ossessivamente dall’avere anche un mondo interiore che vivono come fonte di problemi e di rovinosa compromissione delle prestazioni che devono dare all’esterno, quindi tentano di annullarlo, di non ascoltarlo, di eliminarlo il più possibile. Il fine è quello di aderire perfettamente ad un modello, essere artificiali, inautentici come segno di controllo di sé, di superiorità, efficienza, maturità e di bellezza. Tutti quelli che non riescono a recitare in maniera inappuntabile e che usano segni di genuinità, spontaneità e differenziazione, di scostamento dal “come si deve fare” sono vissuti come persone matte, strane, pericolose o che poverine, non ce la fanno, tradiscono incapacità a controllarsi, a sapersi muovere, parlare relazionarsi, debolezza, pochezza di mezzi, di forze e di risorse. Sono ben poche le persone che non si spaventano e che apprezzano chi si discosta dagli stereotipi, chi li interpreta a maniera sua o se ne inventa di altri.

Perché in questa società devi essere spigliato, carismatico, ma remissivo all’occorrenza. Devi avere tanti amici ed essere disposto a saper intrattenere conversazioni di circostanza quando serve se vuoi tentare la tua scalata sociale e conquistare la tua fetta di “successo”. Non importa del tipo di lavoro che fai o che vorrai fare, devi saper vendere la tua personalità per ottenere la simpatia degli altri anche se a te quegli altri non stanno simpatici.

In poche parole: vi si sta chiedendo di non essere voi stessi, di imparare a recitare la farsa, imparare ad essere più estroversi. Perché è questo che richiede il mercato.

Ma se siete contrari a questo vuol dire che siete contrari alla mercificazione che, sotto i più svariati aspetti, il capitale fa di voi e dell’intero genere umano.

 

Bierre

fonti: www.nilalienum.it

Nato a Cesena nel 1992. Ha studiato antropologia e geografia all'Università di Bologna. Direttore della Voce delle Lotte, risiede a e insegna geografia a Roma nelle scuole superiori.