«Ad ogni sciopero sento di essere libera»
Dal 18 Dicembre 1986 al 15 Gennaio 1987 ha avuto luogo uno dei più importanti scioperi ferroviari di tutto il XX secolo. Uno sciopero offensivo sotto un governo di “sinistra” rivolto contro il blocco dei salari imposto dal 1982 dai governi che sino succeduti sia nel pubblico che nel privato.
Ma questo è stato ben più di uno sciopero per i salari. Si sente parlare spesso del 1995 e del ruolo avuto dai ferrovieri nel braccio di ferro contro il governo Juppé e la sua riforma. Ma lo sciopero del 1986, meno conosciuto del precedente anche tra gli stessi ferrovieri, è stata un’esperienza che merita attenzione presso coloro che vogliono conoscere le migliori esperienze di lotta della classe operaia.
Lo sciopero del 1986 è stato guidato dai ferrovieri, dalla base e non dalle direzioni sindacali.
Lo sviluppo dell’auto-organizzazione è stato importante con la costituzione dappertutto di comitati di sciopero e di coordinamenti nazionali. Révolution Permanente ha intervistato Myriam, controllore a Parigi-Ovest dal 1983 che ci racconta questo avvenimento memorabile e ricco di insegnamenti della storia della classe operaia. Una lezione da trarre in questi nostri tempi di leggi sul lavoro e attacchi alle condizioni di vita e di lavoro dei lavoratori.
Le premesse dello sciopero
RP: Quando avete deciso di iniziare lo sciopero?
M: Al tempo eravamo sempre in sciopero, almeno una volta al mese. I sindacati organizzavano scioperi di 24 ore ed eravamo via via eravamo sempre di più a ritenere che questo non fosse più sufficiente, che dovevamo iniziare a scioperare ad oltranza anche senza l’appoggio dei sindacati.
Verso maggio o giugno eravamo veramente stufi, eravamo in molti a dirci che c’ erano troppi problemi da risolvere nel nostro lavoro, i turni… Io ero giovanissima, avevo 25 anni, ero entrata nella SNCF tre anni prima, nel 1983. Eravamo un gruppo molto numeroso di giovani, ci fu un’ ondata di assunzioni. Ci trovammo in numerosi a dire che a Settembre ci sarebbe stato un nuovo sciopero e che occorreva organizzarsi. Ognuno portava alle assemblee uno o due colleghi per essere più numerosi. Questo iniziò a Settembre, poi passarono Ottobre e Novembre. Ci organizzavamo, facevamo riunioni via via più numerose. All’inizio eravamo una decina e il gruppo cresceva fino a raggiungere le 20 o 30 persone. Ci dicevamo che bisognava agire.
RP: Questo accadeva poco dopo la protesta studentesca contro la legge Devaquet, giusto?
M: Esatto. Nello stesso periodo c’ erano le manifestazioni studentesche. Abbiamo partecipato alla manifestazione a seguito della morte di Malik Oussekine come comitato di sciopero. Non potevamo lasciare i ragazzi da soli a farsi picchiare.
4 e 5 Dicembre: I primi due giorni di scipoero.
RP: Puoi raccontarci come è iniziato lo sciopero?
M: Siamo entrati in sciopero la sera del 3 Dicembre. Sapevamo di dover iniziare in qualche modo, che in tutte le regioni c’ erano lavoratori che si stavano organizzando ma non c’era nessuna presa di posizione ufficiale da parte del sindacato. Ho iniziato io la sera del 3 Dicembre chiamando per dire che ero in sciopero, senza preavviso, e che altri si sarebbero aggiunti. Eravamo molto determinati.
Il 4 Dicembre la CGT è arrivata a fare un picchetto. Voleva impedirci di scioperare. Ci dicevano che eravamo dei teppistelli. È stato un momento molto violento, hanno usato metodi stalinisti: se non ottenevano ragione a parole passavano alle mani.
Lo sciopero è continuato nelle giornate del 4 e del 5 Dicembre. Questo ci ha permesso di andare presso le altre stazioni, Ivry, Massena, ci ha dato l’opportunità di incontrare il coordinamento dei conducenti della Gare du Nord. La nostra iniziativa si è diffusa, ci siamo fatti vedere, abbiamo incontrato le persone e abbiamo spiegato quello che stavamo facendo, che non eravamo un sindacato ma lavoratori in sciopero. Tantissima gente ci chiamava dalle altre regioni. Avevamo un grosso sostegno anche se non si sentivano pronte. Abbiamo fatto solo due giorni di sciopero all’inizio e ci siamo detti che non potevamo continuare da soli, che bisognava fare darsi da fare per convincere altri lavoratori. E ci siamo messi d’accordo per ricominciare tutti insieme a partire dal 18 Dicembre.
RP: Come ha risposto la direzione?
M: Dopo il 5 Dicembre abbiamo ricevuto tutti una richiesta scritta di chiarimenti, tutti noi che avevamo scioperato il 4 e il 5, perché non c’ era stato alcun preavviso da parte dei sindacati e avevamo osato scioperare ugualmente. Volevano farcela pagare. Abbiamo preparato una risposta collettiva che abbiamo fotocopiato e distribuito a tutti. L’abbiamo consegnata alla direzione e anche ai colleghi che non avevamo partecipato per dire che forse avevamo fatto una cosa illegale, ma che avevamo una risposta collettiva e che avremmo continuato qualunque cosa fosse successa. La direzione non sapeva cosa fare, non avrebbe licenziato una trentina di persone così. Non abbiamo avuto alcuna sanzione, ma anche se fosse arrivato qualche provvedimento non ce ne sarebbe importato niente perché sapevamo di avere ragione. Era chiaro per noi, sapevamo di essere nel giusto, sapevamo che la nostra rivendicazione non aveva niente di assurdo. E malgrado questo la direzione della CGT ci avvicinava uno ad uno per convincerci a mollare o per intimidirci.
Il 18 Dicembre inizia lo sciopero ad oltranza.
M: Il 18 Dicembre inizia lo sciopero a oltranza. Ogni mattina facevamo un picchetto, poi le assemblee generali del nostro settore e infine andavamo a Ivry per comunicare quello che avevamo deciso nelle nostre assemblee al coordinamento che a sua volta faceva da organo di collegamento e di distribuzione delle informazioni. Le assemblee generali decidevano, il coordinamento diffondeva le comunicazioni. C’ erano discussioni, militanti di diversi gruppi politici che portavano le loro analisi. Il coordinamento doveva essere nazionale. Raggruppava numerose stazioni parigine ma avevamo molti contatti anche con Marsiglia anche se non circolando nessun treno non ci si poteva spostare e non era facile. L’ obiettivo era di far circolare il più possibile le informazioni e coordinarsi. Era importante continuare la lotta e vincere. Non volevamo rimanere nel nostro angolino.
La fase dell’ auto-organizzazione e dei coordinamenti
RP: Da quel che ho letto uno dei limiti dello sciopero era l’ aspetto un po’ corporativista dei conducenti. A Parigi Nord ad esempio avevano la politica di organizzarsi solo tra conducenti.
M: Avevamo dei contatti con il coordinamento della Gare du Nord. Loro erano sorpresi che la nostra iniziativa raccogliesse anche controllori e per giunte le donne (non eravamo molto numerose all’ epoca). Noi della stazione Invalides avevamo un comitato di sciopero trasversale: c’ erano meccanici, controllori, da ultimi si unirono anche gli operai dei cantieri. Avevamo un piano di rivendicazioni che doveva comprendere tutte le categorie mentre i conducenti avevano fatto un coordinamento chiuso alle altre categorie e portava avanti rivendicazioni molto settoriali. Noi abbiamo fatto del tutto per farli aprire, per farli entrare nel nostro coordinamento o per convincerli a fare la stessa cosa che facevamo noi. Il coordinamento interservizi era importante, per noi fu una scoperta, ci trovavamo insieme e ciascuno raccontava delle proprie condizioni di lavoro. Penso che fu proprio a partire dallo sciopero del 1986 che la SNCF ha iniziato a separarci.
RP: Intendi la politica di separare le varie attività lavorative?
M: Certamente. Perché si sono accorti che in fin dei conti ci conoscevamo, lavoravamo insieme, ci parlavamo. Hanno capito – perché credo che ci sia gente che si occupa nello specifico di queste cose – che era un sistema da abbattere e questo hanno fatto a partire da quel momento. Oggi non ci conosciamo più tra di noi. Qualche tempo dopo lo sciopero, quando eravamo tutti agli Invalides, la direzione ha deciso di separarci e di spostare i controllori ad Austerlitz per separarci dai conducenti. D’ un colpo non vedevamo più i meccanici se non quando lavoravamo insieme. Quando controllori, conducenti e meccanici erano tutti agli Invalides, avevamo una sala comune, facevamo le assemblee generali insieme. Quando ci hanno separati è stato l’inizio della fine. C’ erano ancora dei contatti ma diventavano via via più flebili. Mi sento un dinosauro quando penso che sono stata una delle ultime ad aver trascorso parte della mia carriera lavorativa assieme ai meccanici. Avevamo un forte spirito di squadra quando partivamo in treno. C’era un controllore, un meccanico e non c’era alcuna differenza.
Autoorganizzazione dei lavoratori: “Lo sciopero è il nostro”
RP: Puoi parlarci di come vi siete organizzati?
M: Mi ha sorpresa sentire nel 2016 che alcuni militanti dicevano che occorresse un coordinamento perché non si fa così il coordinamento. Non c’ è un vero coordinamento solo perché lo decidono i militanti. Deve essere un processo e una consapevolezza che proviene dalla base. Da noi era la base che parlava e i lavoratori in sciopero decidevano. Qualunque cosa si facesse. Tutto era deciso in assemblea generale. All’ epoca io ero la base, non una semplice militante e sapevi che eri tu a decidere. Questo modo di lavorare è diverso dal funzionamento dei sindacati dove i delegati avevano solo diritto di parola. Questo sciopero era una messa in questione dei metodi burocratici che esistevano allora nel sindacato.
Perché la lotta si allarghi bisogna che la base si organizzi e il ruolo che giocano i militanti è anzitutto di aiutare la base ad organizzarsi. Altrimenti non si va avanti. Allora durante le ultime manifestazioni eravamo molti militanti e pochi della base ed era durissimo organizzare i picchetti. Vero è che nel 1986 il ’68 non era ancora così lontano. Eravamo figli del ’68, per noi la lotta di classe aveva un significato. Eravamo politicizzati nostro malgrado. i nostri genitori avevano fatto gli scioperi e quando non lavoravano e noi non avevamo scuola si organizzavano i pasti in comune, tornei di calcio…Oggi è completamente diverso ma bisogna imparare da quelle esperienze.
Un comitato di sciopero non si decide, bisogna far capire ai lavoratori in sciopero che “lo sciopero ci appartiene e siamo noi a decidere”.
Repressione e violenza della polizia
RP: Le violenze delle polizia sono un argomento che preoccupava molto durante le mobilitazioni studentesche nell’ autunno di lotta contro la legge Devaquet?
M: Le violenze della polizia erano gravissime. Per la prima volta furono schierati i reparti mobili (voltigeurs), i poliziotti in moto con i manganelli. Alcuni compagni sono stati presi quando non erano nelle manifestazioni e raccontavano che era stata un’esperienza di una violenza inaudita.
All’ epoca bisognava farli tacere, abbatterli.
Pensavo che avessimo raggiunto il massimo della violenza possibile ma in occasione della manifestazioni contro la legge sul lavoro nella primavera scorsa (2016) la repressione è stata ancor più violenta. Ad esempio io non avevo mai visto un cannone ad acqua, salvo che alla TV. Trenta anni dopo abbiamo visto cose che non avrei mai immaginato. E inoltre all’ epoca si trattava di Pasqua e del Servizio d’ azione Civica e dell’estrema destra; c’ era u contrattacco violento ma nulla a che vedere con oggi. Allora la risposta violenta della polizia era diretta verso i giovani e in misura molto minore verso i lavoratori. Oggi subiscono la violenza della polizia tutti i settori che si mobilitano, indistintamente, che siano studenti o lavoratori.
Ma nel 1986 la repressione ci faceva prendere coscienza di molte cose. Abitavamo in molti nello stesso quartiere, c’era un poliziotto per ogni strada. Daniel Vitry (militante di lotta operaia) venne minacciato e fu obbligato a cambiare appartamento e ogni era dormiva in una casa differente. C’era una violenza terribile. Eravamo tutti sorvegliati, i nostri telefoni era sotto controllo. Questo non ci ha fermati ma ci ha insegnato parecchie cose. Pensavamo che certe cose succedessero solo sotto Stalin.
“Lo sciopero è una scuola di vita e di libertà”
M: Lo sciopero ci unisce, ci permette di discutere e di confrontarci. Soprattutto tu hai tutto d’ un colpo la coscienza dell’ importanza di essere una comunità, che solo insieme si possono raggiungere certi obiettivi. Mi fa tanta tenerezza ricordare le persone con cui all’ epoca passavamo 20 ore al giorno. Ci siamo battuti, abbiamo vissuto cose che non avremmo mai pensato di vivere. Questo lo ricorderò per sempre. Lo sciopero è una scuola di vita e di libertà. Eravamo liberi. In occasione di ogni sciopero ritrovo questa sensazione di libertà ed ecco perché lo aspetto con impazienza. Inoltre siamo noi a decidere. Nel 1986 il fatto di votare e rivotare ogni giorno il prolungamento dello sciopero era favoloso. Abbiamo dovuto riprendere tre o quattro giorni dopo gli altri perché non potevamo fermarci. non potevamo accettare che fosse finita.
RP: Cosa è successo al momento di ritornare al lavoro?
M: Non ci hanno lasciati tranquilli quando siamo tornati a lavorare. La direzione ha detto: 2 riprenderete domani alle vostre condizioni” e così abbiamo fatto. In circostanze come quella si ha la netta percezione che solo in gruppo si possono affrontare i problemi, non da soli. Avevamo davvero un funzionamento di questo tipo. Se per esempio si sentiva qualcuno lamentarsi delle sue ferie, sistematicamente tutti se ne facevano carico. E il quadro si diceva: “Se non gli concedo le sue ferie rischiamo che si mettano tutti in sciopero, rischiamo di non far partire i treni”. Il fatto di essere tutti uniti esercitava una pressione enorme sulla direzione.
È questo tipo di sciopero del tutti insieme, dell’unità e della solidarietà che bisogna recuperare in questi periodi di riforma del lavoro e di attacchi contro le nostre condizioni di vita e di lavoro. Sono insegnamenti preziosi dello sciopero del 1986.
fonte: www.revolutionpermanente.fr
traduzione di Ylenia Gironella
Nato a Cesena nel 1992. Ha studiato antropologia e geografia all'Università di Bologna. Direttore della Voce delle Lotte, risiede a e insegna geografia a Roma nelle scuole superiori.