Pubblichiamo la prima parte della traduzione in italiano di un articolo di Hillel Ticktin, fondatore e direttore della rivista di studi marxiani “Critique”, sulla quale è stato pubblicato lo scritto con il titolo «Decline as a Concept – and its Consequences». Qui potete leggere la seconda parte.


Quest’articolo presenta la sintesi di una teoria del declino del capitalismo. Si sostiene che il declino si verifica quando diventa maggiormente difficile per il capitalismo gestire le proprie contraddizioni e quindi le sue crisi. Le soluzioni che adotta diventano sempre più controproducenti e trasformano il sistema stesso. Il declino è il declino della legge del valore; ciò si riflette nella sostituzione del valore da forme organizzate come il ‘monopolio’, enti regolati e nazionalizzati, burocratizzazione in aumento e dominio sul capitale da parte del capitale finanziario, che è per sua natura parassitario. Un risultato di ciò è la crescita del divario tra ciò che si potrebbe produrre per i bisogni umani e ciò che è prodotto; un altro risultato è la disintegrazione del sistema e di parte della società stessa in alcune parti del mondo.

 

Questo articolo vuole fare una sintesi e sviluppare la concezione del declino sulla quale ho lavorato e scritto per diverso tempo. Non ripeterò nel dettaglio gli argomenti presenti negli articoli precedenti, benché essi siano qui ripresi1. I vari temi che andrò a toccare sono stati discussi negli articoli citati più avanti o saranno sviluppati in futuri articoli.
Il concetto di declino è tornato di moda al punto che i termini ‘declinologia’ e ‘declinologo’ sono di uso corrente, anche se in maniera parzialmente dispregiativa. Dalla fine della Guerra Fredda viviamo in un mondo costantemente travolto da nuove paure di crisi terminali per la civiltà, che sia a causa di un cambiamento climatico, di un asteroide che colpisca la Terra, di epidemie o di una guerra nucleare. Allo stesso tempo, la potenza dominante, gli USA, è ancora una volta percepita come declinante. La stessa sensazione si diffuse prima della fine della Guerra Fredda ma fu abbandonata con la scomparsa dell’Unione Sovietica2.
La sinistra, comunque, deve ancora riprendersi dalle assurdità dello stalinismo, subite per lungo tempo. Il pensiero stalinista ha di fatto dominato l’intera sinistra quasi fino alla scomparsa dell’Unione Sovietica. Anche dove lo stalinismo era stato ufficialmente rifiutato, i marxisti non avevano le risorse e le opportunità di fare ciò che era necessario. Lo stalinismo aveva completamente rielaborato il marxismo e, di conseguenza, si è dovuto rinnovare, riattualizzare e riammordernare le sue categorie in modo da sostituire ciò che ormai portava alla mera apologia degli stati stalinisti e della loro particolare forma di sfruttamento ed oppressione.
La parola ‘declino’ ha affrontato il suo stesso declino sin dal tempo di Lenin, che fu di fatto il primo marxista a usare il termine e a sviluppare il concetto, anche se esso è implicito in Hilferding3 e in Trotsky4. Lo stalinismo scelse d’interpretare il concetto come un assoluto il cui significato era quello di crisi terminale e crollo definitivo. Gli stalinisti proclamarono che il capitalismo in declino stava attraversando fasi successive di Crisi Generale. I libri di testo in Unione Sovietica inculcavano l’idea che lo standard di vita poteva solo peggiorare nel capitalismo, come risultato dell’applicazione della legge della povertà crescente [cfr. Marx, Il Capitale, Libro I, Cap. 23, ndt]. Questa fu un’economia politica di poca importanza per il capitalismo moderno. Era concettualmente ed empiricamente errata.
Dunque, non sorprende che molti teorici della sinistra abbandonassero tutti i concetti coinvolti in questo ritratto del mondo contemporaneo. La ‘crisi’ è stata così abusata da perdere il suo significato, mentre l’uso particolare e l’interpretazione dogmatica della legge della povertà crescente suscitavano ilarità. Essendo il concetto di ‘declino’ quello che si stagliava su questo miscuglio di nonsense, ci si sarebbe aspettato che anch’esso fosse rimosso dal dibattito. Effettivamente è andata così.
Allo stesso tempo era necessaria una politica economica alternativa per comprendere il capitalismo moderno. Parecchie opere sono state scritte con quell’intento, come quelle della scuola della Monthly Review [rivista statunitense di matrice socialista, ndt] o di Ernest Mandel, che però elidono le questioni cruciali alle quali lo stalinismo fornì la propria risposta. Il capitalismo, in queste opere, avrebbe potuto continuare all’infinito finché la popolazione lo avesse tollerato. Tutto ciò che la classe capitalista doveva fare, dunque, era fornire uno standard di vita migliorativo per la maggior parte della popolazione, e non vi era motivo di dubitare della riuscita di tale impresa. Il capitalismo poteva presentare malfunzionamenti, aumentare il livello di spreco, far scoppiare guerre ecc., ma sarebbe andato avanti finché per qualche motivo la popolazione non l’avrebbe più tollerato. Le loro opere furono una boccata d’aria fresca nel processo di recupero del marxismo, ma non erano opere di economia politica: erano eclettiche ed empiriste, mancando di una metodologia marxista.

 

Il marxismo e il suo metodo

Il metodo marxista ha due aspetti costitutivi. Nel senso più ampio della parola, il marxismo è dialettico. Nel senso stretto di una metodologia d’inchiesta, il marxismo si basa sul metodo dell’astrazione. Quest’ultimo è basato necessariamente sul primo perché è la dialettica che procura la direzione che il metodo astratto deve seguire. Concretamente, l’analista deve scoprire la fonte essenziale del movimento attorno alla quale gravitano gli altri fattori, così da capire il soggetto da analizzare.
Il movimento stesso non è semplice ma coinvolge le forme classiche dello sviluppo, della maturazione, del declino e della morte.
Per quel che sappiamo, tutte le entità fisiche e sociali si sviluppano, maturano, declinano e muoiono. Ciò si applica tanto all’universo e al sistema solare quanto agli esseri umani e alle loro creazioni. Tutte le civiltà note si sono sviluppate, sono cresciute fino alla maturità, per poi subire il declino e l’estinzione. Solitamente le vecchie entità, anche se non sempre, sono state sostituite da nuove forme. Se si guarda in modo più ristretto ed accurato ai modi di produzione come quelli del mondo antico o del feudalesimo, essi seguono chiaramente la stessa legge generale. C’è una fase embrionale seguita da un periodo nel quale il particolare modo di produzione si configura come dominante, dopodiché comincia a declinare verso la sua estinzione.
È interessante soffermarsi sull’origine del concetto di declino stesso. Aldilà della storia anteriore al capitalismo, il concetto sì affermò durante il diciottesimo secolo, visto esso stesso come un periodo di declino. Il libro di Edward Gibbon, ‘Il declino e la caduta dell’Impero Romano’, scaturì dall’idea di quel tempo. L’evoluzione era nell’aria e vari scrittori da Hegel a Darwin la incorporarono nel loro pensiero. Sono possibili varie forme di evoluzione, tuttavia il fatto che le entità si sviluppino da uno stadio embrionale passando per la maturità e diventando sempre meno funzionanti fino a morire (con la possibilità di essere sostituite o meno a seconda delle circostanze) sembrava corrispondere alla realtà visibile, in particolare con i vari stadi dell’umanità stessa (feto/bambino, età adulta, vecchiaia e morte). La concezione di Marx, dunque, appariva più che ragionevole5.
Questa forma di moto è una parte integrante della dialettica dall’epoca del mondo antico fino al marxismo. Le opere che non la incorporano dentro l’economia del proprio pensiero possono essere considerate non-marxiste o, in modo più indulgente, limitate nel loro marxismo. In altre parole, se si afferma che il capitalismo non è ad oggi in declino, allora ne consegue che il capitalismo è nella sua fase di salutare maturità, che andrà a declinare in un momento futuro indeterminato.
Di norma esiste un’ulteriore fase nella quale il vecchio ordine è rimpiazzato dal nuovo. Tale periodo è di solito chiamato ‘fase di transizione’ e si sono avuti una discussione considerevole attorno alla transizione dal feudalesimo al capitalismo e un meno solido, sebbene importante, dibattito sul movimento dal capitalismo al socialismo.
L’importanza di prendere atto di queste fasi, nella vita di qualsiasi modo di produzione, non può essere sottovalutata. Questa posizione è stranamente in conflitto con buona parte della scienza sociale ortodossa e specialmente con l’economia moderna, che sostengono che il mercato è sempre esistito in qualche forma e che sempre esisterà finché esisterà l’umanità, anzi forse potrebbero persino affermare che una qualche forma di mercato fosse parte dell’evoluzione della specie. Come qualsiasi soggetto organico o inorganico ha una vita limitata, sarebbe stato lecito pensare che la stessa cosa si applicasse all’umanità e alle sue creazioni, e che l’onere della prova dovrebbe gravare su asserito chi asserisce il contrario. La stessa idea che il mercato sia ‘per sempre’ suona intuitivamente improbabile per quelli non indottrinati dall’economia ortodossa6.

 

Leggi e forme del declino

Considerata nella sua essenza, l’affermazione secondo la quale ci sono fasi demarcate così chiaramente, stabilisce anche che le leggi generali di un particolare modo di produzione sono soggette a mutamenti in ogni fase. Ne consegue che una fase sia allo stesso tempo simile e dissimile rispetto alle altre. Più precisamente,ogni fase ha le sue particolari leggi. Pertanto, le leggi che governano un capitalismo in embrione sono una combinazione delle leggi del capitalismo e delle leggi del capitalismo nascente. Così il ruolo del denaro, del lavoro salariato e del capitale sono diversi nella prima fase. Senza dubbio, questo è empiricamente evidente una volta che la distinzione è stata fatta. Le varie forme di lavoro non libero nel primo capitalismo, come il lavoro schiavile e la servitù debitoria, e i primi metodi di accumulazione di capitale che includevano il furto semplice, l’usura e il mercantilismo, vennero aboliti o fortemente limitati sotto il capitalismo maturo, ma sono riemersi in forme orripilanti nella fase declinante del capitalismo, attraverso il capitale finanziario, l’imperialismo, il fascismo.
Ne consegue che il capitalismo, per esempio, ha una vita notevolmente più lunga di quanto si potrebbe pensare. Chiaramente, se definiamo il capitalismo solo nei termini della sua forma più matura di produzione generalizzata di merci con forme conseguentemente generalizzate di lavoro salariato e capitale, allora il capitalismo è durato soltanto circa due secoli. Altrimenti, se definiamo un modo di produzione nei termini della sua legge dominante, che sia o no generalizzata, allora si può far risalire l’esistenza del capitalismo anche a 500-900 anni fa, a seconda se venga incorporato il periodo di transizione al capitalismo oppure no. Il capitalismo, come modo di produzione, è un processo e la questione del dominio va impostata dalla direzione del movimento delle sue leggi. Da questo punto di vista, il feudalesimo entrò in declino entro l’undicesimo secolo.

 

La natura della transizione

Dopodiché [dopo l’inizio del declino feudale, ndt] ci fu un lungo periodo di transizione verso il capitalismo. Qualsiasi periodo di transizione è segnato dall’esistenza delle vecchie leggi accanto a quelle nuove. Ci sono, quindi, sia vecchie sia nuove relazioni sociali, ma anche varie forme intermedie e destinate al fallimento.

La transizione fu segnata da guerre sanguinose che riflettevano i cambiamenti in corso nelle leggi dominanti della politica economica, e quindi nelle relazioni sociali. Non c’era garanzia che la nascente borghesia avrebbe avuto la meglio. Tutte le transizioni fino ad oggi sono state largamente inconsce o fraintese. Persino la presente transizione dal capitalismo al socialismo non può essere ancora pienamente compresa.
La transizione a un nuovo modo di produzione e la prima fase di tale modo di produzione chiaramente si sovrappongono. Si potrebbe pensare che il periodo iniziale di transizione debba incorporare l’ultimo periodo della fase declinante di un modo di produzione e, verso la fine della transizione, la prima fase di un nuovo modo di produzione. Tuttavia, la storia non è necessariamente così schematica: la fase declinante del vecchio modo di produzione, la fase embrionale del nuovo modo di produzione e il periodo di transizione stesso potrebbero essere presenti allo stesso tempo.
Che cosa rimane di un periodo di transizione una volta che si sottraggono le particolari fasi del vecchio e del nuovo modo di produzione? Si formano delle entità che non sono né una cosa né l’altra. Nel caso della transizione al socialismo, si tratta di entità che non sono né capitaliste né socialiste e che sono destinate a non svilupparsi, a perire.
Le vecchie relazioni sociali, e la legge fondamentale sulla quale si basano, permangono, ma si trovano in conflitto con le forme emergenti delle nuove relazioni sociali. Esse si trovano in conflitto anche con le loro stesse forme declinanti. Il risultato in qualsiasi transizione è una confusione di forme praticabili e non praticabili. Gli schemi di pensiero in questo periodo tenderanno a esprimere questa confusione di forme. Il periodo di transizione presenta quindi due caratteristiche: la coesistenza di una forma declinante della vecchia società e di una forma emergente della nuova società, così come l’apparire di forme che non possono evolvere nella nuova società, ma soltanto estinguersi. Queste forme possono essere interi sistemi o sistemi parziali, oppure possono essere particolari forme di lavoro.
La loro caratteristica essenziale è che sono insostenibili. Chiaramente, l’ex Unione Sovietica ricade secondo me in questa categoria di forme di transizione insostenibili.

 

L’evoluzione delle categorie

La questione cruciale è stabilire la natura delle leggi dominanti e quindi le peculiari relazioni sociali di un modo di produzione. Mi pare, per esempio, che la relazione servo-padrone basata sull’agricoltura di sussistenza e sul pagamento di un affitto tramite lavoro o in natura fu cruciale per il feudalesimo. Pertanto, l’impiego del denaro per quel pagamento segnò un allontanamento dal feudalesimo verso il capitalismo. Chiaramente una tale sostituzione non sarebbe potuta verificarsi senza l’esistenza di un mercato in espansione, di cui il signore poteva servirsi, con tutte le conseguenze del caso. Altri potrebbero essere contrari all’affermazione che l’uso crescente del denaro costituisse in sé un qualche cambiamento nella natura del modo di produzione. Il punto, qui, non è dibattere su questo caso, ma illustrare l’importanza di tale categorizzazione. In altre parole, l’affitto in denaro, insieme alla crescita del mercato, riflette il declino del modo di produzione feudale e l’inizio di un periodo di transizione verso il capitalismo, sulla scorta della mia definizione della legge fondamentale del feudalesimo.
Parto dal denaro in questo modo non perché sia l’origine di tutti i mali, ma perché l’uso del denaro per il pagamento dell’affitto e quindi l’uso del denaro per il pagamento del lavoro extra o di beni presi dal servo riflette l’emergere di una legge del valore, anche se in forma embrionale. Chiaramente, se l’uso del denaro fosse poco più che simbolico, allora non potrei sostenere il ragionamento. Il punto è che ogni movimento che coinvolga i modi di produzione deve riguardare un movimento sia di categorie sia di classi. In questo esempio, quello dell’affitto, stiamo parlando di un cambiamento di categoria: da un pagamento a un signore feudale, perché egli era in possesso di una forza sufficiente a estorcere il pagamento, aldilà degli altri servizi che poteva fornire, a una situazione dove il signore feudale accettava denaro come pagamento per il suo diritto alla proprietà. Facendo ciò, egli dava inizio al cambiamento della posizione del servo, che non aveva più bisogno di risiedere sulla terra per pagare il padrone, bensì doveva trovare il denaro necessario per pagarlo, con ogni mezzo, finché voleva tenere per sé la terra. Così il servo fu emancipato ma perse i suoi diritti sulla terra.
Possiamo porre la questione in un’altra maniera. Ci sono solo tre metodi di controllo sul lavoro. Uno è la schiavitù, con la quale il lavoratore perde la sua libertà; il secondo è una posizione intermedia in cui il lavoratore è obbligato a lavorare per un certo periodo di tempo per il suo sfruttatore, avendo a disposizione il resto del suo tempo; nel terzo, il lavoratore è completamente libero dalla coercizione a lavorare per lo sfruttatore, ma deve farlo perché questa è l’unico modo che ha per sopravvivere. Nella prima circostanza c’è una coercizione fisica diretta, nel terzo caso c’è una coercizione economica. Nel secondo caso si hanno entrambe.
Lo sfruttamento di un essere umano da parte di un altro è possibile solamente quando c’è un sufficiente plusprodotto che lo permetta. Nel primo esempio, lo schiavo è obbligato a consegnare sia il plusprodotto sia parte dello stesso prodotto necessario. L’estinzione di quest’obbligo è possibile solo quando il plusprodotto si è accresciuto fino al punto da poter essere utilizzato come un incentivo da parte dello sfruttatore per aumentare la produttività stessa, così che il servo può trattenere il suo prodotto necessario. Il servo può, in certe circostanze, persino spartire il suo plusprodotto con il signore feudale. Infine, quando la crescita della produttività ha raggiunto il punto in cui il plusprodotto può essere non solo incamerato dagli sfruttatori ma usato anche come un mezzo di controllo e di impiego di altri lavoratori, allora il plusprodotto si trasforma da una forma di consumo, collettivo o individuale, a una forma di accumulazione e quindi di controllo sull’individuo. La forza è utilizzata per estorcere quel prodotto finché il plusprodotto crea il suo proprio controllo attraverso il valore.
La storia dell’emergere della forma del plusprodotto come categoria e la sua evoluzione nella forma del plusvalore dev’essere ancora scritta. Questo articolo vuole solo affermare che le differenti forme che il lavoro umano ha assunto in tale saga sono passate attraverso periodi di nascita, maturità e declino.
Ciò implica che c’è un’evoluzione delle categorie. Per la nascita del capitalismo dovette esserci il capitale, e per esserci il capitale dovette esserci il denaro e, per il denaro, la merce. La forma di merce ha significato solamente quando è generalizzata, e può essere generalizzata quando la forza-lavoro stessa diventa una merce. Abbiamo sopra prodotto un abbozzo molto schematico dell’evoluzione della forza-lavoro come merce.
L’evoluzione delle categorie non è lineare e non c’è un semplice parallelo con la storia dell’umanità o dello sviluppo dei modi di produzione. Ci furono particolari nodi nella storia dove il denaro e la produzione di merce erano in evoluzione, come nell’antica Roma, ma furono rigettati indietro. Il capitale cominciò a evolvere in Italia nel tredicesimo secolo ma non completò il suo percorso in quel paese. Il denaro e il capitale mercantile si svilupparono parecchio nella Spagna del sedicesimo secolo; ma la Spagna non progredì oltre. Non possiamo discutere qui la fase embrionale del capitalismo; il punto è semplicemente illustrare il fatto che un esame di una qualsiasi fase del capitalismo deve analizzare l’evoluzione delle categorie dell’economia politica, così come le leggi del modo di produzione e la natura delle relazioni di classe. Il fatto che tutti e tre siano intimamente legati non significa che non possano essere esaminati separatamente.

 

Ulteriori commenti sulla metodologia

Ci sono leggi speciali della crescita e del declino? Ci sono particolari leggi di transizione? Cosa succede alle categorie in declino? Si può argomentare filosoficamente la questione e riportare citazioni di Aristotele ed Hegel, ma non è questo lo scopo di questo articolo. Provo piuttosto a inserirmi nel processo di scoperta delle leggi stesse, quando esistono. Possono essere fatte alcune osservazioni generali. Perciò è chiaro che nell’emergere di una nuova formazione sociale, può esserci una serie di diverse forme proprie di quel periodo, che sono sostituite nelle fasi successive di quella formazione socio-economica. Possono anche esserci forme del nuovo modo di produzione che si rivelano abortite. Ideologie e dottrine in un periodo possono essere proprie di quel periodo e non della forma matura, anche se esse sopravvivono in un modo o in un altro.
Ogni tentativo di generalizzazione dell’intera storia di una formazione socio-economica produce affermazioni banali o sbagliate. Alla generalizzazione va contrapposta l’astrazione, dove l’osservatore seleziona le variabili cruciali mentre evolvono, di modo da capire l’ente e le sue leggi. Le generalizzazioni solitamente si rivolgono alle dinamiche medie o ricorrenti. L’astrazione è in grado di fare distinzione tra le diverse fasi del capitalismo e di selezionare la variabile cruciale che emerge, matura e declina lungo la sua storia. È necessario scoprire la forza che alimenta questo cambiamento. Tale forza va scoprendosi nel processo di formulazione delle leggi coinvolte, così come le leggi stesse, come sosterrò più avanti, esprimono il processo di movimento delle contraddizioni trainanti all’interno del modo di produzione stesso.

 

Leggi e loro evoluzione nella vita di un modo di produzione: lavoro astratto

È chiaro che ogni legge embrionale, come la legge del valore, può esistere soltanto in una forma parziale. Così, finché esiste il capitale mercantile, esso conta sull’acquisto a basso prezzo e sulla vendita a caro prezzo, non sul tempo di lavoro speso.
Tuttavia, esso è una forma di capitale e quindi di valore. Tuttavia, lo sviluppo del mercato all’ingrosso e al dettaglio è essenziale per lo sviluppo del capitalismo. Così ci occupiamo di parte della legge del valore, che in sé non può portare allo sviluppo più pieno del valore-capitale. Similmente, la produzione artigianale per il mercato, l’uso del lavoro schiavile nei campi di cotono degli USA del sud o il lavoro servile per la produzione industriale nell’impero russo costituiscono tutti forme embrionali della legge del valore.
Il lavoro astratto [o lavoro astrattamente umano, ndt] è l’essenza del valore e in sua assenza il valore non può svilupparsi né completamente né in parte. Ma il lavoro astratto non può in sé essere pienamente sviluppato in assenza della produzione meccanizzata.
Oggi ci sono molti punti di vista sulla natura del lavoro astratto: specificherò qui il mio, insieme alla mia concezione del valore. Il lavoro astratto, per come lo concepisco, è la base stessa del capitalismo. Da esso deriva la forma qualitativa e quindi alienata del lavoro sotto il il capitalismo, così come l’unità della classe operaia e quindi il concetto stesso di classe operaia, e lo sfruttamento quantitativo del lavoratore. La riduzione del lavoratore a un lavoratore astratto è un processo sociale tramite il quale il lavoro acquisisce un ruolo quantitativo nella realizzazione di un prodotto concreto. Il tempo impiegato dal lavoratore nella produzione della merce è una variabile cruciale per il [singolo] capitalista e quindi per il capitalismo. È questa la forma sociale particolare di lavoro sotto il capitalismo. È sia fisica sia sociale. È reale e immaginata. Per ridurre i lavoratori al loro tempo di lavoro, è necessario costringerli a lavorare in tempi simili per lavori che richiedono abilità simili rispetto all’economia [generale]. Ciò richiede una forza-lavoro fluida e flessibile, che è tale solo quando è possibile esercitare un controllo pieno sul tempo di lavoro che può essere affermato pienamente. Ciò richiede sia un controllo manuale efficiente sia il controllo tramite l’incessante operazione della macchina.
Da questo punto di vista il lavoratore astratto esiste, per così dire. L’esatta natura del lavoratore astratto in un dato momento è socialmente determinata, ma tale determinazione sociale produce un risultato fisico attraverso l’imposizione di un lavoro umano omogeneo nell’economia.
Quindi, per tornare al declino, ne consegue che l’evoluzione del valore è anche l’evoluzione del lavoro astratto, anche se i loro percorsi non sono identici. Se c’è un declino del valore, dev’esserci anche un declino nel lavoro astratto, con tutte le conseguenze del caso.

 

Evoluzione delle fasi del capitalismo

Se prendiamo per buono che il capitalismo è passato attraverso fasi di nascita, sviluppo e declino, dobbiamo chiederci quale sia la natura di ciascuna di queste fasi. Concentrandomi sul declino, non risponderò alla domanda per quanto riguarda le altre fasi, ma punterò direttamente all’evoluzione delle fasi declinanti. Se ogni entità evolve, così deve succedere per la fase declinante di tale entità. In altre parole, il declino nasce, fiorisce e poi declina. Ciò implica, in qualche modo sorprendentemente, che si possa avere una forma declinante di una forma declinante. Prima di finire in un gioco di scatole cinesi, devo stabilire le condizioni sia per il declino sia per la forma declinante di una forma declinante.
La legge fondamentale che guida il sistema è ciò che è in declino, ma dobbiamo scoprire le forze che la spingono al declino. Il problema ultimo, del perché tutto nell’universo passa attraverso questa evoluzione al declino, è una questione filosofica o fisica e non si può qui discuterla, ma la domanda da porsi è specifica. La legge del valore è la legge centrale del capitalismo. Dunque, qual è la causa del declino del valore? La risposta è parimenti specifica. La natura sempre più socializzata della produzione (o del lavoro) spinge la società ad organizzare il lavoro e la produzione, più che a lasciare l’economia al mercato. Mano a mano che la produzione si integra nelle sue parti, essa ha bisogno d’essere organizzata e ‘pianificata’. Ciò, di volta in volta, richiede una prospettiva temporale sempre più dilatata. Sul piano del lavoro, l’integrazione significa che il lavoro è sempre più potente per la vicinanza fisica e la solidarietà sociale che sviluppa.
Così, da una parte la società ha bisogno di un grado di organizzazione crescente e della cosiddetta pianificazione. Ciò porta al monopolio, alla nazionalizzazione e a livelli più alti di burocratizzazione. Tutti questi sono solo aspetti del decisionismo diretto che prende le redini togliendole al mercato. A causa del potere crescente o potenziale della classe operaia, tale decisionismo diventa sempre più centralizzato. Così, il mercato è gradualmente sostituito da forme burocratiche.
È vero che il termine ‘i mercati’, così come lo usano economisti o politici, come Magaret Thatcher, nella frase ‘non si può fregare i mercati’ implica un assetto impersonale di forze, ma alcuni pensatori non feticisti o operatori di borsa credono veramente che oggi il mercato sia impersonale. Perciò il governo britannico fu forzato a svalutare la sterlina quando George Soros giocò in borsa contro di essa guadagnando un miliardo di sterline con quella manovra. Il primo ministro della Malesia biasimò Soros per poi attaccare gli ebrei. Chiaramente gli attacchi del primo ministro della Malesia non possono che essere deplorati, ma il punto è che egli vide la cosa in termini di un piccolo numero di individui che speculavano contro una certa valuta. Quindi gli individui ordinari non giocano alcun ruolo in casi come questo, dove quelli che controllo i più grandi fondi d’investimento, come Soros e poche dozzine di individui, prendono le decisioni.
In cosa consistono queste forme burocratiche? Esse sono semplicemente tentativi d’imitazione del mercato in condizioni dove non c’è mercato o esiste soltanto in una forma limitata. Dunque, esse sono un’espressione del moderno conflitto tra mercato e pianificazione, un conflitto temporaneamente risolto attraverso un mercato non-mercato. Ciò è una forma gerarchica di gestione basata su uno concetto di gestione pseudo-mercatistico, basato su un profitto immaginario dove non c’è profitto [reale]. Tali forme burocratiche creano un esercito di manager alle dipendenze della borghesia, le cui istruzioni però sono necessariamente confuse per via di questo conflitto tra mercato e pianificazione. Il risultato è una forma organizzata la cui razionalità è sempre confusa e attraversata da contraddizioni. Da qui, nel periodo del declino, la borghesia non può avere consistenza politica e deve accettare praticamente ciò che è in offerta. Razionalmente, la borghesia dovrebbe lavorare a soluzione nelle quali i lavoratori sono addestrati, istruiti e incorporati nel processo decisionale per aumentare la produttività e ridurre il conflitto. Ma possono fare così solo in maniera sporadica e parziale, per due ragioni. Primo, tale soluzione potrebbe portare i lavoratori a chiedere un controllo maggiore, avendo già un potere considerevole. Siccome ciò significherebbe una perdita di controllo per la borghesia, essa è riluttante a inoltrarsi su questo percorso. Secondo, tenendo conto del pericolo di ogni azione, i manager non sanno quale politica adottare.

 

Dialettica e declino

Tutto ciò è solo una ripetizione del concetto per cui il capitalismo è in declino quando diventa sempre più difficile mediare tra i poli di una contraddizione. La mediazione tra le forme viene a mancare velocemente e i poli della contraddizione evolvono vero l’opposizione assoluta. Dunque, la burocrazia è la mediazione tra il valore d’uso e il valore di scambio, resa necessaria dal momento che tutte le altre forme di mediazione sono collassate. In termini di economia politica, si potrebbe affermare che il capitale finanziario è diventato una nuova e necessaria forma di mediazione di tale contraddizione. Nella sua forma di imperialismo, ha avuto successo nel mantenere in vita il capitalismo per un certo periodo. La guerra, la Guerra Fredda in particolare sono altri esempi di forme di mediazione che mantengono la struttura del capitalismo. Nei tre casi citati è chiaro che si tratta di forme estreme con una vita limitata. Si tratterà nuovamente del capitale finanziario più avanti nel testo.
Cosa succede, in ogni caso, se non c’è mediazione possibile tra i poli di una contraddizione? Ne consegue la disintegrazione. Questo tema è affrontato più avanti.

 

Note

  1. Vedi in particolare gli articoli: Finance Capital and the Transitional Epoch, Critique, 16 (1984), pp. 23-42; Towards a Theory of Finance Capital, Critique, 17 (1986), pp. 1-17; Is Capitalism Declining?, Critique, 23 (1991), pp. 153-158; The Nature of an Epoch of Declining Capitalism, Critique, 26 (1994), pp. 69-93.
    2. L’opera di Paul Kennedy fu largamente acclamata al tempo ed eclissata ingiustamente verso la fine della Guerra Fredda: P. Kennedy, The Rise and Fall of the Great Powers (Lexington, MA: Lexington Books, D.C. Heath and Co., 1987). Quando la potenza capitalista finanziaria dominante è in declino senza essere sostituita da un’altra potenza allo stesso livello, si può dubitare dello stato di salute del capitalismo stesso.
    3. Hilferding, Finance Capital (London: Routledge and Kegan Paul, 1985). Vedi l’ultimo paragrafo, pag. 225: ‘As capital itself at the highest stage of its development becomes finance capital so the magnate of capital, the finance capitalist, increasingly concentrates his control over the whole national capital by means of his domination of bank capital.’ [“Così come il capitale stesso nella fase suprema del suo sviluppo diventa capitale finanziario, così il magnate del capitale, il capitalista finanziario, concentra progressivamente il controllo su tutto il capitale nazionale per mezzo del proprio dominio sul capitale bancario”] Non viene usato il termine ‘decline’ [declino], ma una fase suprema implica una fase finale. L’idea che un sistema sociale possa terminare essendo ‘spento’ come con un interruttore della luce è evidentemente qui scartata. Non c’è una grande differenza tra fase suprema e fase declinante nella sua analisi.
    4. A mio giudizio, la formulazione di Trotsky del concetto di ‘rivoluzione permanente’ implica un declino del capitalismo nella misura in cui egli afferma che la borghesia è diventata troppo debole per assolvere ai propri compiti. Successivamente, nel 1935, fu più esplicito: ‘la storia pone questo compito direttamente a noi. Se il proletariato è, per una ragione o per l’altra, incapace di sconfiggere la borghesia e di prendere il potere, se è per esempio paralizzato dai suoi stessi partiti e sindacati, la continua decadenza dell’economia e della civiltà proseguirà, le calamità si accumuleranno, la disperazione e la prostrazione travolgeranno le masse, e il capitalismo decrepito, marcio, in decomposizione strangolerà le persone con una forza crescente e le porterà con sé nell’abisso di una nuova guerra’, L. Trotsky. Whither France? Once Again, Whither France? Parte I, 28 marzo 1935.
    5. 18 giugno 1875: Marx scrivendo a Lavrov parla della riduzione dell’intervallo di tempo tra le crisi: Karl Marx and Frederick Engels, Letters on Capital (London: New Park Publications), p. 179. Dice: ‘The shortening of the-periods between great crises is truly remarkable. […] It is particularly satisfying to find it shows such manifest signs of a descending movement; that is a bad omen for the longevity of the capitalist world’ [“l’accorciamento dei periodi fra le grandi crisi è veramente notevole. […] È particolarmente soddisfacente notare che esso mostra segni così manifesti di un movimento discendente; che è un cattivo segno per la longevità del mondo capitalista”]. La citazione classica viene da Karl Marx, Capital, Vol. I (Moscow: Foreign Languages Publishing House, 1961), p. 19, nella postfazione alla seconda edizione tedesca: “Whilst Marx sets himself the task of following and explaining from this point of view the economic system established by the sway of capital, he is only formulating, in a strictly scientific manner, the aim that every accurate investigation into economic life must have. The scientific value of such an inquiry lies in the disclosing of the special laws that regulate the origin, existence, development, death of a given social organism and its replacement by another and higher one. And it is this value that, in point of fact, Marx’s book has.” While the writer pictures what he takes to be actually my method, in this striking and [as far as concerns my own application of it] generous way, what else is he picturing but the dialectic method?’ [“Marx, avendo come scopo l’indagine e la spiegazione dell’ordinamento economico capitalistico Visto da tale prospettiva, non fa che formulare con rigore scientifico il fine che deve avere ogni indagine esatta della vita economica. Il valore scientifico di questa indagine sta nella spiegazione delle leggi specifiche che regolano nascita, esistenza, sviluppo, morte di un determinato organismo sociale e la sua sostituzione con un altro, superiore. E proprio questo valore ha in effetti il libro di Marx». Cos’altro se non il metodo dialettico ha rappresentato l’autore, nell’esporre quel che egli chiama il mio vero metodo, in maniera così precisa e così benevola per quanto riguarda la mia applicazione di esso?”]. Marx, nei Grundrisse, porta anche un vivido argomento sulla trascendenza economica del sistema: ‘Yet these regularly occurring catastrophes lead to their repetition on a higher scale, and finally to its violent overthrow [“queste catastrofi che si verificano regolarmente portano alla propria ripetizione su una scala più larga, e infine al proprio rovesciamento violento”] (London: Allen Lane, Pelican, 1973, p. 750). Egli non discute il declino ma afferma che il sistema va incontro a un periodo di crisi ricorrenti che portano al suo superamento. Sto affermando, in parallelo, che il periodo di declino è diventato un periodo esteso e che tale è un periodo nel quale è diventato più difficile per il capitalismo avere a che fare con le proprie contraddizioni.
    6 Adam Smith può essere considerato responsabile, come padre dell’economia moderna. ‘He made ”the prospensity to exchange … as one of the principal motives of human conduct … Adam Smith was guilty of making the characteristics of the society of his own day valid for all time”’ [“Egli fece della propensione allo scambio uno dei principali motori della condotta umana … Adam Smith fu colpevole dell’estensione delle caratteristiche della propria società come valide a ogni età”]. Eric Roll, The History of Economic Thought (London: Faber, 1961); pp. 154-155.

 

Hillel Ticktin

 

Nato a Cesena nel 1992. Ha studiato antropologia e geografia all'Università di Bologna. Direttore della Voce delle Lotte, risiede a e insegna geografia a Roma nelle scuole superiori.