Il giornale borghese La Stampa qualche giorno fa ha riportato l’ennesimo fatto di cronaca che possiamo ricollegare all’uso dei social network a fini di controllo aziendale. La Suprema Corte di Bologna ha rigettato il ricorso di una donna che era stata licenziata dal suo datore di lavoro per uno “sfogo” su Fb. Il post è stato ritenuto diffamatorio, sebbene la lavoratrice non menzioni l nome dell’azienda. Tra le ragioni sollevate dalla Corte contro il respingimento del ricorso si legge “la potenziale capacità del mezzo di raggiungere un numero indeterminato di persone, posto che per il rapporto interpersonale, proprio per il mezzo utilizzato, assume un profilo allargato, ad un gruppo indeterminato di aderenti al fine di una costante socializzazione”.

L’apparente libertà di parola -e di “sfogo”- concessa da Facebook (ad un prezzo sempre più alto) si ritorce contro gli stessi utenti -in molti sensi e per molti aspetti della vita-, e si presta ad essere, nelle mani dei padroni e delle loro appendici istituzionali, strumento di controllo sociale (e aziendale). La scusa della potenza del mezzo in questo, ed altri casi, ha giocato un ruolo fondamentale. Se quello sfogo fosse stato fatto in un bar o durante un assemblea sarebbe (forse) stato meno facile per il padrone o per la Corte giustificare il licenziamento, ma la potenza del mezzo, incrementando la capillarità del controllo, fornisce anche migliori scuse per attaccare i lavoratori scomodi. Non conosciamo ovviamente i dettagli del caso specifico (non sappiamo ad esempio se la donna fosse una lavoratrice combattiva, e quindi “scomoda” o no), ma la dinamica, e le preoccupanti potenzialità che la vicenda mostra, rimane. La legge, rappresentata in questo caso dalla corte, sancisce ancora una volta come la realtà virtuale non sia una zona franca, ma parte integrante della realtà “reale”, la realtà che coincide con la società, le norme e gli interessi borghesi. Di più, il valore di quanto scritto, postato (pensato), e quindi il valore di quella “realtà virtuale”, finisce addirittura per pesare più di quello della parte di realtà fuori dallo schermo, facendo appello agli “speciali poteri” di diffusione dei messaggi della prima.

A dispetto di queste riflessioni, resta il fatto che quella donna non ha più un lavoro per uno sfogo su Fb. Ciò che conta è il fatto che il post, a dire della Corte e del datore di lavoro, abbia leso la preziosa immagine dell’azienda, non le ragioni dietro quella rabbia, non il fatto che quella lavoratrice abbia perso il lavoro.

Fonte: lastampa.it/cassazione-dipendente-denigra-lazienda-su-facebook-licenziamento-legittimo
Articolo di Matteo Iammarrone

Redattore della Voce delle Lotte, nato a Napoli nel 1996. Laureato in Infermieristica presso l'Università "La Sapienza" di Roma, lavora come infermiere.