La riforma delle pensioni è l’ultima grande battaglia che si appresta a giocare il governo francese. Prevista per il 2019, era stata annunciata nel programma presidenziale di Macron. La ripresa delle concertazioni questa settimana ci permette di analizzare meglio l’orientamento di questa riforma.


Per questa settimana è programmato il secondo ciclo di concertazioni coi sindacati per determinare il contenuto della futura riforma delle pensioni che sarà varata dal governo nel 2019. L’obiettivo all’ordine del giorno è di armonizzare un sistema giudicato da alcuni analisti come troppo eterogeneo, visto che esistono in Francia 42 regimi pensionistici differenti. Fino ad oggi i lavoratori francesi hanno versato i propri contributi in tre distinte casse previdenziali.

Per eliminare le disparità – e quindi spesso i privilegi di alcuni settori – Macron vuole istituire un sistema pensionistico per punti. In altre parole, quando un lavoratore contribuisce con 1€, questo contributo gli garantirà lo stesso numero di punti, indipendentemente dal settore in cui lavora. Questi punti saranno quindi utilizzati come base di calcolo al momento del pensionamento per determinare l’importo della pensione del lavoratore.

Questa revisione del sistema pensionistico ha come prima conseguenza il fatto che per determinare l’importo della pensione mensile saranno presi in considerazione tutti i versamenti. Nel sistema attuale invece contano solo i 25 anni con maggiori contributi versati nell’ arco dell’intera vita lavorativa. Questo nuovo modo di calcolo può essere drammatico per i lavoratori che hanno vissuto periodi di precarietà durante la loro vita professionale. Poche distinzioni sono state fatte invece riguardo ai lavori usuranti: 1 € di stipendio non è equivalente [in termini di usura fisica per il lavoro, ndt] in tutti i settori.

Un’altra questione lasciata in sospeso è rappresentata dall’età legale minima necessaria per la pensione, argomento oggetto di ampi dibattiti. L’età minima non dovrebbe aumentare e rimanere fissata a 62 anni come avviene adesso. Tuttavia, l’obiettivo della riforma è quello di incoraggiare le persone a continuare a lavorare il più possibile. A questo scopo, la conversione dei punti accumulati durante la vita lavorativa avverrà tramite un coefficiente che aumenterà in base all’età della pensione. In altre parole, sarà possibile andare in pensione a 62 anni, ma con una significativa penalizzazione per quanto riguarda l’importo dell’assegno mensile. Questa presunta armonizzazione segna da ultimo la fine dei regimi speciali introdotti dal 1995 con la riforma Juppé.

Questo sistema a punti non è un’invenzione originale del governo francese, ma si ispira a ciò che è stato fatto per due decenni in diversi paesi dell’Europa del nord, e specialmente in Svezia, modello che Macron non manca mai di citare come esempio da seguire. In Svezia, il sistema a punti è stato introdotto negli anni ’90. Grazie a questa e ad altre riforme, e guardando come modello di riferimento alla Danimarca, la Svezia è diventata paladina della “flexsecurity”, un modello caratterizzato da un mercato del lavoro estremamente flessibile, in cui i lavoratori devono essere in grado di passare da una posizione lavorativa all’altra molto rapidamente e indipendentemente dalle proprie competenze. Si tratta dunque di un modello di mercato del lavoro in cui è fortemente auspicabile una “armonizzazione” tra tutti i diversi settori, indipendentemente dalle loro specificità.

Va notato però che quello svedese è ben lungi dall’essere il modello radioso descritto da Macron. In effetti, non meno di 300.000 pensionati svedesi vivono al di sotto della soglia di povertà, ricevendo meno di 1.165 euro al mese. In termini percentuali questa situazione riguarda il 16,8% degli over 65 e il 24,35% degli over-75. Secondo “Le Monde”, sono pensionati precari, “grandi perdenti di un sistema pensionistico adottato nel 1994 e che oggi serve come ispirazione per la Francia, con il suo sistema universalistico, i suoi conti fittizi (conti individuali accumulando i punti di contribuzione) e con le pensioni indicizzate all’aspettativa di vita“. “Le pensioni di anzianità ammontano in media al 53% del loro stipendio finale, rispetto al 60% del 2000“. Possiamo vedere quindi che il modello svedese, lungi dal migliorare il sistema pensionistico, impoverisce enormemente i pensionati. Esso è improntato alla capitalizzazione e si basa su una visione individualistica delle pensioni. Siamo ben lontani dal modello francese che, nonostante i suoi limiti, si basa su un sistema di distribuzione. “Le Monde” cita Anders Thore, esperto dell’organizzazione dei pensionati “Pro”, che afferma che “il problema del sistema svedese è che richiede ad ogni lavoratore di fare le scelte giuste per tutta la vita“.

Con tutta evidenza, quando un modello attacca le fasce sociali più vulnerabili, le donne sono tra le principali vittime del sistema. Neppure le donne svedesi sfuggono al dominio del patriarcato. “Molte hanno optato per il part-time e sono penalizzate da stipendi mediamente inferiori del 12% rispetto agli uomini, e ricevono 600 euro in meno rispetto ai pensionati uomini“, rivela “Le Monde”.

Naturalmente poi, l’aspettativa di vita non aumenta in maniera omogenea per tutti i lavoratori, basti pensare ai lavori usuranti.

Come sottolinea Thoré infatti, “l’aspettativa di vita non aumenta per tutti“, quindi è fuori questione che il risultato di questo sistema è l’aumento degli anni di vita lavorativa indipendentemente dal lavoro svolto, cosa che si appresta a fare anche Macron con la sua standardizzazione delle pensioni. Lungi dall’essere una soluzione, il modello svedese distruggerà la conquiste sociali dei francesi in termini di pensionamento.

Traduzione di Ylenia Gironella da Révolution Permanente

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