Quello della sharing economy è un concetto piuttosto ampio e a volte ambiguo, come vedremo nel caso di Workaway. L’idea è quella che il capitalismo come risposta all’ultima grande crisi sia cambiato e abbia partorito in sé tendenze di consumo e forme di scambio “più consapevoli” e “dal basso”, basate ad esempio sul riuso, piuttosto che sull’acquisto e sull’accesso ai beni piuttosto che alla proprietà di questi ultimi. A lanciare e a sviluppare queste forme sono state piattaforme digitali e app come Uber, Airbnb, Couchsurfing, Workaway, Blablacar. Ognuno di questi casi andrebbe analizzato singolarmente, perché ci sono differenze importanti. Tuttavia, e qui veniamo alla prima grande perplessità, un comune denominatore di questi percorsi è che in fin dei conti dietro ciascuna di queste piattaforme c’è (quasi sempre) un azienda che fa profitto (chiedendo una quota di iscrizione al sito e/o prendendo una percentuale sui singoli servizi). Di più, in molti casi, al colosso che fa profitti si affiancano privati che trasformati in piccoli imprenditori, e in qualche caso, nemmeno troppo piccoli. Pensiamo allo sciopero dei tassisti contro Uber: niente di nuovo sul fronte occidentale, solo un “normale” scontro di interessi economici contrapposti: un caso esemplare di come la sharing economy non rappresenti una vera solida radicale alternativa al sistema, ma al contrario non possa per definizione sottrarsi ad essere parte dello scontro di interessi intercapitalistici. 

Couchsurfing, al contrario, sembrerebbe un caso a sé data la gratuità del servizio (utenti da tutto il mondo ospitano a casa propria altri utenti, e ciascuno può ospitare, se ne ha la possibilità, o essere ospitato). Sebbene vadano riconosciute le sue potenzialità nel creare e sostenere relazioni sociali gratuite e sostanzialmente scevre dalla logica di profitto, non va dimenticato che nel 2011 Couchsurfing è ufficialmente diventata una for-profit-corporation (che spinge i propri utenti a pagare delle quote, diventando utenti “verificati” e perciò più “affidabili” e dunque con maggiori probabilità di ricevere ospitalità). Alla lista delle perplessità andrebbe aggiunta quella relativa della gestione dei dati: i dati personali sono oggi preziosi come il petrolio e, anche laddove nessuna somma di denaro è direttamente richiesta agli utenti, i loro dati personali sono molto spesso il prezzo da pagare per l’uso del servizio, dati che, in un modo o nell’altro, vengono“monetizzati”. (Vedi Facebook).

L’intenzione di questo pezzo, però, non è tanto offrire una risposta netta a come collocarci rispetto alla sharing economy, ma piuttosto introdurre i lettori alle trappole e alle ambiguità che queste applicazioni nascondono.

Un esempio veramente significativo è, per quanto mi riguarda, quello di Workaway. Esso è, sulla base della mia esperienza con queste piattaforme, quanto di più vicino possa esserci al crudo rapporto di sfruttamento padrone-operaio. 

Workaway.com è un popolare sito web utilizzato soprattutto da giovani che amano viaggiare e migliorare le lingue. Porta con sé la promessa e lo scintillio moderno di lavoretti flessibili in contesti sorridenti, amichevoli, internazionali, multilingue e cosmopoliti. La verità è che, come il sito stesso ufficialmente prevede, molti di questi lavori sono non pagati (i “volontari” ricevono in cambio alloggio e cibo), e non esiste alcun contratto che regoli le mansioni richieste negli annunci né le condizioni in cui vengono svolte, ma solo un accordo verbale tra il volontario e l’inserzionista. Questo significa che, se in qualche caso, il giovane volontario capita a fare il baby-sitter tre ore al giorno nella casa di una ricca famiglia al centro di Parigi mangiando caviale tutte le settimane, in molti altri casi può succedere di finire a dormire in una bettola, dover lavorare sette al giorno ottenendo in cambio un po’ di cibo scadente. Per di più, alcuni inserzionisti tengono (intenzionalmente) nascoste sul sito regole che il volontario scoprirà solo una volta arrivato sul posto. Per molti di questi volontari non è facile abbandonare il lavoro perché magari si trovano lontani da casa. Per di più alcuni padroni sono meschinamente bravi nell’esercitare una certa pressione psicologica. Si potrebbe controbattere che il sistema di feedback dovrebbe proteggere da questi sistematici abusi, la verità è che uno dei problemi della rete è creare un sistema di feedback realmente affidabile e in cui ciascuno si senta realmente libero di scrivere la verità della sua esperienza: spesso questi “padroni” che usano workaway per sfruttare forza lavoro gratuita non ricevono feedback negativi perché i volontari sono sotto il ricatto di ricevere feedback negativi a loro volta oppure per pigrizia o ancora perché i volontari, diseducati alla lotta e inconsapevoli dei diritti che gli spettano, tendono a rimuovere dalle memoria l’esperienza di sfruttamento cercando di ricordare solo quel poco che hanno ricevuto (cibo, ospitalità etc…) in cambio delle loro braccia. Il fatto che il posto di lavoro in queste esperienze coincida con il proprio alloggio e che spesso questo sia condiviso con il padrone-inserzionista, come è facile immaginare, non aiuta di certo a prevenire situazioni di sfruttamento, ma anzi è parte di quella moderna e propagandata flessibilità che sta abolendo la giornata lavorativa fissa per sostituirla con l’ambiguità delle ore flessibili, in cui il tempo del lavoro coinciderà perfettamente col tempo della vita.

Articolo di Matteo Iammarrone.

Nato a Torremaggiore, in Puglia, nel 1995, si è laureato in filosofia all'Università di Bologna. Dopo un master all'Università di Gothenburg (in Svezia), ha ottenuto un dottorato nella stessa città dove tuttora vive, fa ricerca e scrive come corrispondente de La Voce delle lotte.