Lo scorso marzo il governo danese ha presentato un pacchetto di misure speciali con lo scopo di “affrontare il problema dei quartieri dove vivono le famiglie migranti”. Veri e propri ghetti alle periferie della città che, secondo i giornali, sarebbero protagonisti di episodi di violenza, cresciuti negli ultimi anni tanto da determinare un cambiamento importante nella percezione della sicurezza da parte dei danesi e della loro coscienza in materia di immigrazione e accoglienza.
Il pacchetto presentato è costituito da 22 proposte esplicitamente discriminatorie. Alcune sono già state votate dal Parlamento, altre aspettano di essere approvate il prossimo autunno. Una delle più controverse riguarda le lezioni obbligatorie di “danesità” (valori danesi e lingua danese per un minimo di trenta ore a settimana) per i figli dei migranti. In caso contrario i genitori potrebbero perdere alcuni benefit statali. Per i danesi “di sangue puro” (non è questo il termine usato, ma il senso sembra essere quello) decidere se mandare i propri figli a lezione di danesità rimane invece una scelta facoltativa e priva di conseguenze o minacce.
Tra le misure non ancora approvate ci sarebbero invece quattro anni di carcere per i genitori che organizzano per i loro figli visite troppo frequenti ai Paesi di origine (viste dal governo come “momenti di rieducazione”) e il raddoppio della pena per crimini commessi in uno dei 25 distretti classificati come “quartieri-ghetto”.
Tali provvedimenti godono nella società danese di un consenso che sarebbe stato impensabile fino a qualche anno fa. L’approvazione è anche da parte del Partito Socialdemocratico (il PD danese), tradizionalmente pro-migranti, ma in questa fase particolarmente attento a riconquistare i voti persi per aver ignorato o minimizzato ciò che viene percepito come “il problema dei migranti” (un dilemma che affanna tutta la “sinistra” europea e mondiale).
In altre parole, la post-socialdemocrazia in crisi annega nella sua stessa miseria. L’utopia di riformare il capitalismo, l’assenza di coraggio o la cattiva fede per l’aver abbandonato da decenni una risposta di classe non le lasciano altra scelta che piegarsi all’accettazione di narrazioni a dir poco sinistre, che passano anche attraverso il linguaggio. “Integrazione” cede il posto ad “assimilazione” e la parola “ghetto” perde ogni connotazione storica. Al contempo misure così esplicitamente discriminatorie divengono accettabili in situazioni dove ogni altra alternativa non è contemplata, ma solo quella della forza, della punizione, della real politik. Non va inoltre dimenticato che nei Paesi scandinavi il fatto che esistano residui di welfare più abbondanti che altrove potrebbe pericolosamente complicare il quadro del conflitto migranti-nativi, perché lo stato sociale anziché essere difeso ed esteso contro chi dall’alto lo sta distruggendo, viene difeso come privilegio sotto specifiche condizioni e usato come arma di ricatto contro chi, venuto da un altro Paese, vorrebbe “impossessarsene”. La socialdemocrazia, ironia della Storia, si trasforma presto in qualcosa che assomiglia di simile al nazional-socialismo, dove il welfare non è difeso contro chi dall’alto vorrebbe comprimerlo, ma contro chi da un’altro Paese vorrebbe “impossessarsene”. Il governo danese, socialdemocratici inclusi, difende così queste misure coercitive e vergognose persino per una basilare democrazia borghese, giustificandole come un insieme di richieste “sensate” ai “nuovi arrivati” che non sono di per sé uguali a tutti agli altri e quindi non godono di diritti universali, ma devono dimostrare di sapersi adattare a un’idea di “danesità” per altro tutta decisa nei piani alti. Al di là delle specificità regionali (scandinave) e nazionali(danesi) di questa vicenda, non è sorprendente che si verifichi proprio ora in una situazione internazionale di complessivo regresso, imbarbarimento e normalizzazione delle discriminazioni e delle diseguaglianze, in nome di misure necessarie contro un’emergenza senza soluzioni. Simili misure però, non solo puniscono ingiustamente alcuni gruppi etnici e religiosi, ma anziché combattere la povertà e il disagio sociale che ne deriva, si limitano a criminalizzarla.
Matteo Iammarrone
Nato a Torremaggiore, in Puglia, nel 1995, si è laureato in filosofia all'Università di Bologna. Dopo un master all'Università di Gothenburg (in Svezia), ha ottenuto un dottorato nella stessa città dove tuttora vive, fa ricerca e scrive come corrispondente de La Voce delle lotte.