I progetti accordati tra Kuala Lumpur e Pechino prevedevano la costruzione di due gasdotti e della ferrovia East Coast RailLink (ECRL), per connettere il porto di Klang, nello stretto di Malacca, con la città di Pengkalan Kubor, vicino al confine tra Malasia e Thailandia. Il primo ministro malesiano, che ha assunto il carico lo scorso maggio, ha annunciato la cancellazione, dicendo che risarcimenti e altri dettagli saranno discussi in un secondo momento. Oltre a ciò, mentre la Cina sperava in un’acquiescenza della Malesia per quanto riguarda le dispute del Mar Cinese Meridionale simile a quella del precedente governo, Mahathir ha dichiarato che queste acque d’importanza strategica debbano essere accessibili a tutte le nazioni e “non essere controllate da nessuna nazione, né dagli Stati Uniti né dalla Cina”. Ha lanciato un chiaro segnale alla Cina: la Malesia difenderà vigorosamente i suoi diritti nel Mar Cinese Meridionale.

Il “Malesia first” e la revisione dei legami con la Cina

Negli ultimi anni, la Malesia ha incontrato particolari difficoltà nell’attrarre investimenti occidentali, giapponesi e di Singapore. Dal 2009, sotto il governo di Najib Razak, Pechino ha riempito rapidamente il vuoto. La Repubblica Popolare Cinese è diventata il primo partner commerciale della Malesia, ed oggi è il maggiore investitore straniero. I due paesi hanno anche rafforzato la cooperazione in campo militare, con visite dell’armata cinese ai porti della Malesia. Xi Jinping non è stato avaro di elogi per Kuala Lumpur, descrivendo nel 2016 i legami tra i due paesi come “tanto vicini quanto labbra e denti”, mentre il primo ministro Najib ha definito la Cina come “vera amica” e “socio strategico”.

Con l’insediamento del nuovo governo malesiano, però, sono finiti i giorni nei quali la Malesia srotolava il tappeto rosso di fronte alla Cina. Mentre è indubitabile che i legami tra Kuala Lumpur e Cina abbiano dato una grande spinta all’economia, i costi stanno cominciando ad accumularsi. L’aumento degli investimenti cinesi dal 2013 -particolarmente in progetti di costruzione e trasporto- ha portato con sé un’affluenza di lavoratori e imprese cinesi che stanno spiazzando la concorrenza locale. Molti di questi progetti sono finanziati a volte dai prestiti cinesi garantiti dal governo malese, al posto di investimenti stranieri diretti.

Con una specie di “Malesia first”, Mahathir sta trattando per recuperare le migliaia di milioni di dollari (4500, secondo il Dipartimenti di Giustizia degli USA) presumibilmente sottratti dal fondo di investimenti in sviluppo Malaysia Development Berard (1MDB) creato dal suo predecessore, inclusi 700 milioni presenti sul suo conto personale; oltre a ciò, Mahathir è al lavoro per annullare il debito pubblico ereditato dal precedente governo, che secondo la nuova amministrazione sarà del 65% del PIL.

Inoltre, il nuovo primo ministro sta cercando nuove relazioni in campo internazionali, senza però rompere con Pechino. Non a caso il primo paese estero da lui visitato è stato il Giappone (che ha visitato due volte nei primi cento giorni di governo) e ha fatto uno sforzo per ottenere più investimenti giapponesi nei settori tecnologici e dell’automotive malesiani, oltre a richieste di prestiti agevolati. Tutto nell’ottica che le sue maggiori preoccupazioni sono interne, data la frammentazione geografica e la composizione etnica, con il risultato di avere poco interesse nel mettersi in mezzo allo scontro tra grandi potenze.

 

La posizione strategica della Malesia e il “dilemma di Malacca”

Per la Cina, la posizione strategica della Malesia, tra il Mar Cinese Meridionale e lo stretto di Malacca, è una risorsa considerevole.

Lo stretto di Malacca, lungo 800 km, è uno dei “colli di bottiglia” più importanti del mondo e separa l’oceano Indiano dal Mar Cinese Meridionale. Il 40% del commercio mondiale, oltre all’80% del petrolio e all’11% del gas naturale importati dalla Cina, passa attraverso questo stretto. Il libero flusso di navi porta-container attraverso le sue acque è garantito dalla marina degli USA, che fa del controllo dei mari uno dei pilastri della sua proiezione imperiale.

Mentre uno degli obiettivi della via della seta marittima (MSR, sigla inglese) è espandere i flussi commerciali e creare opportunità commerciali per le imprese cinesi, l’altro obiettivo principale della MSR è proprio migliorare la sicurezza nazionale.

Nel 2003, il presidente Hu Jintao ha usato l’espressione “dilemma di Malacca” per riferirsi alla dipendenza della Cina verso lo stretto di Malacca per i flussi commerciali e per le sue importazioni di energia. Gli strateghi cinesi sono sempre stati preoccupati per la vulnerabilità di questo stretto posto tra Malesia, Indonesia e Singapore. Un blocco navale statunitense potrebbe paralizzare la sua economia. Le possibili conseguenze delle dispute circa la sovranità territoriale sul Mar Cinese Meridionale non fanno altro che aumentare la sensazione di vulnerabilità del gigante asiatico.

Il rafforzamento delle relazioni sino-malesi e i progetti infrastrutturali cinesi permetterebbero a Pechino di ridurre il passaggio di merci vicino a Singapore. Questa città-stato ha una stretta relazione a livello militare con gli USA, ospitando il gruppo di appoggio logistico della Flotta del Pacifico occidentale. Ma anche se la Cina riuscisse a sviluppare questi progetti infrastrutturali, non eliminerà le possibili minacce degli USA sui suoi flussi commerciali. Il fatto è che Washington possiede una capacità navale che le permette di attuare facilmente un embargo nello stretto, mentre il traffico delle merci è così grande non poter essere assorbito dai soli porti della Malesia.

Di fatto, la Cina sta cercando vie alternative che evitino lo stretto di Malacca. Ha costruito oleodotti e gasdotti che attraversano il Myanmar, il che le permette di importare forniture di energia direttamente dal golfo del Bengala. Si parla anche di costruire oleodotti che attraversano il Pakistan, dal porto di Gwadar, nel Mar Arabico. Ma la linea ferroviaria, dal budget di 17 miliardi di euro, era il progetto cinese più ambizioso, nell’ottica di espandere la “Nuova via della seta” verso il sud-est asiatico. La ferrovia avrebbe dovuto unire il sud della Thailandia, il porto di Kuantan (nella costa orientale della Malesia) per giungere al porto di Klang (vicino a Kuala Lumpur), tagliando il paese da est a ovest. La sua cancellazione ha causato a Pechino un danno strategico e d’immagine considerevole.

 

Una prova cruciale per le ambizioni geopolitiche della Cina

In qualunque caso, i passi percorsi finora da Mahathir interrompono la luna di miele che la Cina ha sfruttato nel sud-est asiatico negli anni scorsi. Specialmente da quando il presidente filippino Rodrigo Duterte, arrivato al potere nel 2016, ha annunciato a sorpresa a Pechino la “separazione” con il partner a stelle e strisce e il suo avvicinamento alla Cina. Duterte ha chiuso un occhio quando la Corte Penale Internazionale (ICC, sigla inglese) ha dato ragione a Manila nelle sue dispute con Pechino circa la sovranità sulle isole Spratly, rivendicate anche dalle Filippine. La Malesia, indebitata a causa del 1MDB, ha seguito i passi delle Filippine. Anche paesi come Cambogia o Myanmar, rimproverati dall’occidente per le proprie politiche internet, hanno abbracciato gli investimenti di Pechino.

Le contraddizioni dell’ambizioso progetto cinese si accumulano e la relazione diseguale stabilita da Pechino è sempre più messa in discussione. Rispetto alla Malesia, come spiega Françoise Nicolas, esperto del sud-est asiatico al Institut français des relations internationales,

Mahathir non vuole rompere con la Cina. Sa che le economie dei due paesi sono integrate tra loro e appoggia i progetti in Malesia di Jack Ma, capo di Alibaba, il gigante dell’internet cinese. Però il suo predecessore, Najib Razak, si è di fatto gettato nella bocca del lupo. Questi progetti erano politicamente, economicamente e ambientalmente problematici. Le condizioni creditizie concesse dalla Cina sono lontane dall’essere favorevoli per la Malesia, e sono le imprese cinesi ad aver tratto benefici dagli investimenti, a scapito delle imprese locali, incluse quelle dei malesiani di origine cinese.

Lo stesso Mahathir, poco dopo la sua elezione, ha citato l’esperienza cinese di rinegoziazione di “trattati diseguali” -una serie di patti umilianti firmati dalla dinastia Qing, allorché aveva puntati contro di sé i cannoni delle potenze occidentali nel secolo XIX e inizio del XX – come la ragione per cui ha sospeso i progetti in questione.

Però il caso malesiano non è isolato. Secondo James Kynge del Financial Times:

Stanno proliferando le occasioni nelle quali gli schemi infrastrutturali cinesi all’estero stanno pubblicamente incontrando problemi, cosa che rovina la reputazione della Nuova via della seta… Un nuovo studio fatto dal TWT Advisory Group, agenzia di consulenza con sede a Washington, mostra che già il 14%, o 234 su 1674, dei progetti infrastrutturali con investimenti cinesi annunciati in 66 paesi attraversati dalla Nuova via della seta, dal 2013 fino ad oggi, sono colpiti di disturbi. La maggioranza dei problemi incontrati (opposizione pubblica ai progetti, obiezioni alle politiche verso la manodopera, ritardi di esecuzione, preoccupazioni rispetto alla sicurezza nazionale) derivano da un’amministrazione con molte mancanze.

In questo contesto, la consegna, da parte del governo dello Sri Lanka, in affitto del porto strategico di Hambantota alla Cina per un periodo di 99 anni in cambio di 1,1 miliardi di dollari è stata forse un punto di svolta. I malesiani si erano allarmati per questo precedente e accusavano il precedente governo di voler vendere il paese nella stessa maniera. Sempre più il progetto faraonico cinese risulta essere un regalo avvelenato per i paesi da esso riguardati, come dice l’esperto francese citato sopra:

La Thailandia ha recentemente rifiutato le condizioni finanziarie di Pechino per la costruzione di una linea ferroviaria. In Vietnam, la reticenza dinnanzi ai cinesi è molto forte; in Pakistan, gli investimenti cinesi sono colossali, però in aree dove la situazione è molto tesa. Anche nel Laos, politicamente molto vicino alla Cina, le relazioni con Pechino sono messe in discussione tra gli uomini di potere.

La battuta d’arresto inflitta dalla Malesia va a testare la flessibilità di Pechino. Il suo impatto sta generando e continuerà a generare nuovi èmuli nella regione. Però la volontà dei vari paesi riguardati dalla Nuova via della seta, di rendere più eque le tese relazioni bilaterali, si scontra con i piani di espansione del capitale statale cinese. Così:

Nell’Indonesia democratica, il progetto ferroviario Jakarta-Bandung di 5,5 miliardi di dollari, che venne lanciato come prima esportazione di successo della tecnologia ferroviaria ad alta velocità cinese, è ristagnato a causa dei problemi di acquisto delle terre e preoccupazioni circa la convenienza economica. Luhut Pandjaitan, un ministro indonesiano che condusse le trattative con Pechino sui grandi progetti d’investimento, disse che tuttavia ci sono ‘alcuni problemi’, però continua a sperare che i due governi possano arrivare a un accordo su come ‘ridurre i costi’ del collegamento ferroviario. Nella stessa maniera del governo indonesiano, Mahathir ha detto di dare il benvenuto agli investimenti e alla tecnologia cinesi, però vuole assicurarsi che i progetti saranno redditizi, trasparenti e che portino benefici reali alle imprese e ai lavoratori locali. Ciò risulterà difficile per le molte imprese statali cinesi che operano nei paesi in via di sviluppo, in quanto essi portano con sé migliaia dei propri lavoratori, operano senza controllo pubblico e dipendono da prestiti agevolati da parte dello Stato cinese per finanziare progetti che altrimenti non sarebbero economicamente realizzabili”

assicura Ben Bland in una nota pubblicata sul Financial Times lo scorso 24 giugno di quest’anno.

In ogni caso l’avvertimento diretto a Pechino dalla Malesia è molto serio. I paesi che stanno cadendo uno a uno in una sorta di “trappola di debito” che ne minaccia la sovranità si estendono dallo Sri Lanka al Pakistan, passando per le Maldive e il Montenegro. Allo stesso tempo, però, sta crescendo la coscienza dei rischi che comportano i progetti infrastrutturali finanziati dalla Cina. Se le ambizioni geopolitiche di Pechino sono avanzate in Sri Lanka a discapito del suo partner storico, l’India, è chiaro, come dimostra il caso della Malesia, che forzare i paesi a una dipendenza eccessivamente umiliante comporta altrettanti rischi politici ed economici per il creditore: non tutti i paesi cederanno alle richieste finanziarie di Pechino. Soprattutto se, come conseguenza della mancanza di potenza tipica dei paesi imperialisti, uno degli obiettivi strategici della “diplomazia delle infrastrutture” di Pechino è farsi amici in tutto il cosiddetto “mondo in via di sviluppo”, distinguendosi dalla brutalità del FMI e dal Washington consensus. Per fare ciò è necessario guadagnarsi una reputazione come socio affidabile: se le imprese cinesi lasceranno dietro di sé una cucciolata di “elefanti bianchi”, il danno politico sarà grave.

La realtà è che la Cina ha bisogno delle piccole potenze regionali come la Malesia, così come queste hanno bisogno della Cina. Come segnala l’analista del Financial Times citato sopra:

Pechino ha bisogno di emulare la flessibilità e l’incanto del sig. Ma per garantire che la Malesia non passi dall’essere un faro luminoso della Nuova via della seta all’essere un cupo presagio dei pericoli di investimenti cinesi insostenibili.

Le sanzioni e le minacce degli USA di Trump e di altre potenze potenze imperialiste non saranno gli unici fattori a mettere alla prova le grandiose ambizioni geopolitiche di Pechino.

 

Juan Chingo
Traduzione da
La Izquierda Diario

Membro della redazione di Révolution Permanente, giornale online francese. Autore di numerosi articoli e saggi sui problemi dell'economia internazionale, della geopolitica e delle lotte sociali dal punto di vista della teoria marxista. È coautore con Emmanuel Barot del saggio "La classe ouvrière en France: Mythes & réalités. Pour une cartographie objective et subjective des forces prolétariennes contemporaines" (2014) ed autore del saggio sui Gilet Gialli "Gilets jaunes. Le soulèvement" (2019).