Questo 11 novembre si terrà a Roma un referendum consultivo che chiederà alla cittadinanza romana se è favorevole mettere a gara il servizio pubblico dei trasporti, attualmente gestito da ATAC. Se da un lato il sì è sostenuto dai Radicali e dal comitato Mobilitiamo Roma, promotori del referendum, contrari sono la sindaca Raggi ed il Movimento Cinque Stelle, mentre Lega e FI si attardano nel prendere una posizione e il PD è diviso al suo interno.

Per comprendere il senso di questo referendum bisogna tracciare un quadro della situazione dei trasporti a Roma e della storia recente dell’ATAC. Quest’ultima, come è noto, ha un debito di 1 miliardo e 650 mila euro ed è proprio sull’origine di questo enorme debito che dobbiamo riflettere. Una prima anomalia di quest’azienda municipalizzata è la sproporzione tra il numero complessivo di dipendenti, che ammonta a 12000 circa, ed i soli 5500 autisti (1). È in particolare durante l’amministrazione di Alemanno che il personale amministrativo si ingigantì, accogliendo tra le sue fila anche persone variamente legate al mondo politico e sindacale. Particolarmente oneroso per l’azienda sono inoltre gli stipendi di manager e dirigenti: 70 di questi ultimi, almeno fino al 2015, potevano guadagnare come 1000 autisti, con stipendi fino ai 250 mila euro al mese.

Parliamo di diverse decine di milioni di euro l’anno: non poco, se consideriamo che i proventi della vendita dei biglietti si aggiravano attorno ai 260 milioni di euro. Molto di più in effetti, circa 800 milioni l’anno, arriva ad ATAC dai fondi pubblici. È proprio su questo fronte che politiche di tagli a livello nazionale e regionale hanno contribuito a formare l’enorme debito che ora ci portiamo sulle spalle. 700 milioni, ad esempio, sono i mancati versamenti da parte della Regione Lazio che l’ATAC denuncia, stando a Michele Frullo (USB).

Possiamo parlare, insomma, di una generale volontà di distruggere un servizio pubblico con tagli e politiche clientelari. Dobbiamo interrogarci sul motivo: onorare il pareggio di bilancio in Costituzione? Usare i trasposti pubblici com un feudo per fare regalie ad amici ed alleati politici? Noi pensiamo che, oltre a tutto questo, ci sia una precisa volontà di distruggere un servizio pubblico per poi poter contare sull’appoggio dell’utenza nel momento in cui si passerà a privatizzarlo.

Questo appoggio chi ambisce alla privatizzazione l’ha costruito sapientemente, dirottando il malumore della popolazione contro le uniche figure dell’azienda con cui possono avere un contatto: gli autisti. L’autista è assenteista, scontroso e sciopera solo per farsi il ponte. Se però guardiamo la realtà dei trasporti a Roma un po’ più da vicino, scopriamo ad esempio che la mancanza di corse è dovuta in gran parte al sotto organico (secondo alcuni sarebbero 1000 gli autisti in più necessari a coprire opportunamente il servizio) e, ancor di più, alla mancata manutenzione dei mezzi guasti. Se da un lato negli ultimi anni la percentuale di guasti è aumentata a dismisura (2), dall’altro gran parte delle riparazioni si risolve in foglio con su scritto ‘MM’, mancanza materiali, apposto alle vetture da riparare. Riparazioni assenti o fittizie, dunque, costringono autisti in servizio a rimanere nei depositi, come testimonia la vicenda di Christian Rosso, un autista che 3 anni fa per aver documentato e denunciato questo stato di cose fu oggetto di pressioni e provvedimenti disciplinari da parte dell’azienda.

Veniamo ora agli scioperi. Il primo punto che bisogna chiarire con forza è che gli autisti di scioperare ne hanno tutto il diritto, visti gli attacchi che hanno subito nel corso degli anni. Possiamo citare, ad esempio, l’aumento della produttività dell’ultimo piano industriale che si risolve, per gli autisti, in un innalzamento del tempo di guida sul complessivo dell’orario di lavoro. Ricordiamo che il lavoro svolto dall’autista è, secondo l’attuale legislazione, un lavoro continuativo poiché richiede un livello di concentrazione ininterrotta per ogni corsa che si effettua e dunque sottopone ad un livello di stress particolare. Ridurre ulteriormente i tempi di pausa, già esigui dopo l’accordo peggiorativo del 2015, vuol dire mettere a repentaglio la salute psicofisica dei lavoratori e la sicurezza del servizio. Con queste premesse si comprende anche la pericolosità degli attacchi al salario accessorio in favore di premi di produzione legati ai chilometri percorsi, che possono spingere gli autisti ad uscire con mezzi non sicuri o in condizioni di stress troppo elevate.

Bisogna inoltre precisare che in alcuni casi i famigerati irresponsabili scioperi tanto sbandierati da media ed istituzioni non erano altro che il rifiuto, previsto dalla legge, di fare gli straordinari. Oltre a ciò non si deve dimenticare che autisti e macchinisti lavorano tutta la settimana, quindi il famoso sciopero per farsi il ponte potrebbe esistere, per lo più, per il corposo personale amministrativo dell’azienda.

Ma veniamo ora al punto spinoso della questione: questo stato di cose potrebbe migliorare con la messa in gara dell’ATAC? Davanti a questa domanda potremmo limitarci a ripetere l’ovvio: un privato, e specie un privato ricompensato dalla pubblica amministrazione sulla base dei chilometri trascorsi, potrebbe investire tanto sulle corse più redditizie e depotenziare il servizio proprio nelle aree più isolate e socialmente delicate. O, ancora, una privatizzazione (perché questo vuol dire, in soldoni, “liberalizzare”) porterebbe a licenziamenti più facili ed a più facili arretramenti in termini di diritti sul lavoro. Per fortuna i più scettici, anziché fidarsi delle nostre speculazioni, posso già toccare con mano le virtù e i vizi del trasporto pubblico a Roma. La Roma TPL, infatti, è un privato attivo da quasi 20 anni nella capitale e attualmente gestisce il 20% delle corse di superficie. Sorvolando sulla farsa dei compensi pubblici sulla base dei chilometri percorsi (un autobus in centro farà molti meno chilometri di uno che collega periferie isolate!), nelle zone coperte da quest’azienda privata il servizio rimane comunque insufficiente e scadente, senza contare le numerose proteste di autisti che non si vedono corrispondere lo stipendio per mesi.

È chiaro che né l’utenza né i dipendenti ATAC hanno molto da guadagnare dalla prospettiva della privatizzazione. Se negli ultimi anni Comune, Regione e governi hanno guardato noncuranti un servizio sempre più allo sfascio è perché questo rappresentava per loro una tappa fondamentale per aprire, al momento opportuno, la prospettiva di una messa in gara dell’azienda. Con i mancati contributi pubblici, gli stipendi da capogiro di manager ed il proliferare del personale amministrativo le istituzioni hanno anche agevolato questa deriva, per poi dirottare la rabbia sociale su quei lavoratori che, ormai, si ritrovano a doversi difendere dal fuoco incrociato dell’azienda e dell’utenza inferocita. In questo senso vanno intesi i video in cui l’ex sindaco Marino vomitava infamie sui social contro i macchinisti che scioperavano, cercando di farci credere che il problema dei trasporti pubblici a Roma era dovuto per lo più ad atti irresponsabili di singoli dipendenti. Lo stesso Marino, intanto, apriva all’ingresso dei privati e tutto ci lascia pensare che, se il suo mandato fosse arrivato fino alla fine, si sarebbe concretamente mosso in tal senso.

Con questo, ovviamente, non si vuole difendere lo status quo né fare un’apologia del pubblico in quanto tale. Un servizio pubblico è un servizio in mano ad istituzioni borghesi che sono diretta espressione della classe dominante, non all’utenza e a chi vi lavora. Se, come abbiamo mostrato, la causa dei problemi degli utenti e dei lavoratori ATAC è la stessa, la strada verso un servizio di qualità richiede che questi uniscano le loro istanze in un unico percorso di lotta.

 

Bauschan

 

Note

(1) Dato del 2015.

(2) Secondo le stime la percentuale di guasti sarebbe passata dall’8% nel 2007 al 32% nel 2016.

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