Agnelli, Angelucci, Berlusconi, Cairo, Caltagirone, Conferenza Episcopale Italiana, Confindustria, De Benedetti, Maria Luisa Monti: l’informazione ”mainstream” in Italia è interamente controllata da questi nove nomi, a cui va aggiunto chiunque gestisca la Rai in qualsiasi momento (il quale è una figura che essenzialmente prende ordini dal governo di turno, in questa fase, il governo razzista giallo-verde). Questo dato oggettivo di partenza la dice lunga circa lo stato dell’arte dell’informazione (in Italia e non solo). In un contesto in cui i confini esistono solo per i migranti, ma gli scambi di merci così come la compravendita di informazioni (il nuovo ”oro nero”) sono invece completamente transnazionali, i privati e gli enti qui menzionati  esercitano il controllo dell’informazione nel Bel Paese servendosi di amicizie e affiliazioni in tutto il mondo (basti pensare che la famiglia Agnelli che detiene ”La Stampa” possiede anche il 43% dell’Economist).

Ricostruisce questa situazione il CNMS, una Onlus che si occupa di monitorare la libertà di stampa e lo stato dell’informazione in Italia. Ci sarebbero già sufficienti motivi di indignazione se questo pugno di potenti esercitasse un potere così pervasivo rimanendo nell’alveo della legalità borghese e stando dunque alle regole del gioco. Ma non è così. Come scrive il report: ”I loro nomi saltano spesso fuori, una volta uno, una volta l’altro, in storie di magagne, truffe, magna-magna, inquinamento, guerre, malasanità: proprio quelle storie che cercano di comprendere le persone che si svegliano, andando a cercare informazioni on-line». Dal punto di vista dei “padroni della notizia”, aggiunge “Coscienze in Rete”, «è sacrosanto che le uniche informazioni che debbano avere il “bollino blu” siano le loro. Come ci permettiamo, noi, di volerci fare gli affari loro?». Molto utile, quindi, dare un’occhiata allo studio del Cnms, dove si scopre che l’unico giornale italiano auto-prodotto dai giornalisti, in cooperativa, è “Il Manifesto”, che però distribuisce appena 11.000 copie al giorno. Largamente indipendente è il “Fatto Quotidiano”, nono in graduatoria con 45.000 copie in edicola: accanto ad Antonio Padellaro e Cinzia Monteverdi, titolari del 16% delle azioni, figurano – con analoga partecipazione azionaria – la società Edima Srl, «società di vari industriali marchigiani, fra cui il calzaturiero Enrico Paniccià», e l’editrice Chiarelettere, partecipata al 49% dal grande Gruppo Editoriale Mauri Spagnol. Tra i soci minori, alla fondazione, comparivano: Francesco Aliberti (12%), Bruno Tinti (8%), Marco Travaglio (5%), Peter Gomez (3,2%) e Marco Lillo (2,5%).

”Ma i grandi numeri li fanno i grandi quotidiani: il più venduto è il Corriere della Sera (322.000 copie al giorno), appartenente a Rcs Group, per il 60% nelle mani di Urbano Cairo, patron de ”La7” e già collaboratore di Berlusconi in Finvest, coinvolto nell’inchiesta mani pulite. […]”. Repubblica, fondata da Eugenio Scalfari, è il secondo quotidiano d’Italia, controllato dal gruppo L’Espresso (di proprietà di Carlo De Benedetti) che a sua volta controlla una miriade di periodici locali (Il Mattino di Napoli, Il Piccolo di Trieste, Il Tirreno…) e radio (Radio Deejay, Radio Capital) e informazione sul web (Huffington Post).

Inoltre ”va segnalato che il 30 luglio 2016 il Gruppo L’Espresso ha concluso un accordo con FCA (Fiat Chrysler Automobiles, guidata da ora da Michael Manley), per condividere la proprietà del quotidiano “La Stampa”. Secondo l’accordo, “La Stampa” verrà trasferita al Gruppo L’Espresso, ma nel contempo verrà ampliato il capitale del gruppo per permettere ai vecchi proprietari della testata torinese di entrare nella compagine azionaria del Gruppo L’Espresso”.

Al terzo posto invece si piazza il Sole 24 Ore, di proprietà di Confindustria per il 67.5%.

(Per una lista esaustiva e per maggiori dettagli sugli altri giornali e gruppi proprietari, vedi qui

In “tempi non sospetti” (diciamo fino all’inizio di questo millennio), si sarebbe potuto reagire cercando nella rete una via di fuga dal controllo monopolistico ”mainstream” esercitato da questi signori. La rete, invece, non è più da tempo paladina di quella ”libera informazione” che alcuni pionieri e hacker appassionati le avevano inizialmente attribuito quanto meno come potenziale. Il potere capitalistico infatti tende ad occupare ogni ”terreno possibile” e sta perciò largamente investendo nel virtuale (che è un incubo sempre più reale). I signori sulla lista, infatti, non sono solo proprietari di quotidiani cartacei, ma ovviamente anche delle loro versioni online (queste seconde riteniamo abbiano intrinsecamente un maggiore potenziale di pervasività per la loro abilità senza precedenti di raggiungerci ovunque, a qualsiasi ora e con frequenza). Inoltre, come salta fuori da alcune inchieste, sta diventando sempre più comune investire (nel senso stretto del termine, cioè investire capitale) per nella produzione di fake-news e ”post-verità”, in Italia e nel mondo. Le fake-news allora non sono più, come avveniva prima, il prodotto di qualche blogger complottista disadattato, ma stanno diventando una vera e propria strategia di manipolazione sistematica a fini commerciali e/o elettorali-propagandistici.

Il capitalismo, oggi più che mai (e cioè con queste tecnologie a sua disposizione), non può garantire il pluralismo che i suoi difensori più ingenui e ottimisti cercano di sbandierare, perché tende per sua natura, sul terreno economico (e quindi, conseguentemente anche su quello dell’informazione), a diventare monopolistico e a sacrificare tutto, dalla salute dei lavoratori al futuro ecologico del pianeta fino allo statuto epistemologico di un fatto, nel nome di un profitto immediato oppure di lungo termine. Si pensi, a tal proposito, al caso RussiaGate, nel quale Facebook è stato accusato di aver venduto informazioni al fine di influenzare le elezioni americane, ma anche alla più recente inchiesta del New York Times che accusa Facebook di aver pagato la società Definers Public Affairs per screditare oppositori, e in particolare l’associazione Freedom from Facebook, facendola passare per un gruppo di estremisti anti-semiti al soldo di George Soros (un target privilegiato di ogni teoria cospirazionista di destra). Facebook avrebbe inoltre pagato la società per denigrare alcuni suoi competitors (come Google) e distogliere l’attenzione dalle critiche al social network. Il fine sarebbe stato quello di ripulire la propria immagine dopo i numerosi scandali, ma soprattutto quello di ingraziarsi la politica americana, in virtù di una mutata consapevolezza: ”dopo aver sostenuto per anni il dogma secondo cui l’autoregolamentazione era l’unico modo per avere un diretto controllo sul settore, ora lobbisti e dirigenti di queste società stanno diffondendo alle autorità e alle istituzioni politiche un messaggio diverso: le regole per il settore digitale sono una buona cosa, a patto che le stesse società possano giocare un ruolo cruciale nella definizione di quelle stesse regole.

Ciò che è cambiato, rispetto al passato, è che le grandi compagnie digitali ora cercano di fare lobby dall’interno, preso atto dell’impossibilità di tenere la politica al di fuori dei propri affari.”

Per quanto possiamo prendere atto di questo cambiamento, sappiamo che non è un cambiamento essenziale. Facebook e altre grandi compagnie pensavano di poter far a meno della politica, ora hanno capito che devono investire qualche energia nel colonizzare anche quella ed evitare conflitti all’interno dello stesso campo, quello borghese, che non è il nostro. Noi infatti non ci lasciamo impressionare da queste manovre e continuiamo a sostenere che i padroni, reali e virtuali, vadano espropriati anche per il bene della verità e dell’informazione, altrimenti inficiata dal profitto.

 

Matteo Iammarrone

Nato a Torremaggiore, in Puglia, nel 1995, si è laureato in filosofia all'Università di Bologna. Dopo un master all'Università di Gothenburg (in Svezia), ha ottenuto un dottorato nella stessa città dove tuttora vive, fa ricerca e scrive come corrispondente de La Voce delle lotte.