Che la libera competizione tra libere aziende sia una gara virtuosa a chi offre i migliori servizi e le migliori merci, tutto a vantaggio dei consumatori, ce lo sentiamo raccontare fin da bambini, più o meno insieme alla storia di Babbo Natale. Non appena abbandoniamo la categoria impalpabile di “consumatori” e parliamo più concretamente di lavoratori ci accorgiamo, in effetti, che questo assioma scricchiola.

 

 

Ikea non ha certo bisogno di presentazioni. Negli ultimi due decenni il colosso svedese ha saputo non solo realizzare dei profitti giganteschi, ma anche costruirsi l’immagine di multinazionale buona, rispettosa dell’ambiente e dei dipendenti, a misura di consumatore. Contro questa popolarità, alimentata dal mito del capitalismo buono made in Scandinavia, a poco sono valsi gli attacchi ai lavoratori, lo sfruttamento e gli scioperi degli ultimi anni (qualcuno forse si ricorderà di Marica Ricutti, la lavoratrice licenziata madre di un figlio disabile). Ora, però, l’evoluzione della società e del mercato sta mettendo seriamente in discussione il modello su cui Ikea ha fatto la sua fortuna. In particolare l’enorme crescita del commercio on-line, che ormai è arrivato a coprire il 10% degli acquisti al dettaglio a livello mondiale, sta accompagnando un netto ridimensionamento dei centri commerciali, tanto che nel 2018 per la prima volta le chiusure di centri commerciali hanno superato le nuove aperture (10 contro 9).

In questo scenario si colloca il piano di ristrutturazione promosso da Jesper Brodin, nuovo amministratore delegato della società. L’idea è quella di ridurre progressivamente la vendita nei grandi centri commerciali, collocati per lo più ai perimetri delle grandi città, in favore di negozi più piccoli situati in zone centrali e specializzati in un determinato ambito di merci. Si prevedono ben 30 aperture e uno dei primi progetti pilota, dedicato esclusivamente alle cucine, sarà a Roma. Tutto questo si accompagna ad una volontà di sperimentare nuove modalità, da acquisti personalizzati ed interattivi on-line fino al noleggio di mobili.

Parliamo ora del versante occupazionale. Il nuovo piano opera un taglio significativo del personale: ben 7500 su 160 mila dipendenti, quasi 1 su 20. È vero, Ikea prevede 11500 assunzioni per rafforzare l’area digitale ma questo, in un’epoca di arretramento dei diritti del lavoro, promette assai male. Di aziende che licenziano e fanno nuove assunzioni con contratti peggiori e spesso non a tempo indeterminato ne vediamo fin troppe.

Cosa tutto questo vorrà dire per i circa 6000 lavoratori italiani è ancora presto per dirlo, ma la volontà di un ricambio del personale è palpabile. Mentre si aprono selezioni per responsabili di primo e secondo livello, da cui si lasciano fuori quei dipendenti che svolgevano questi incarichi in precedenza. Parliamo di lavoratori spesso sulla cinquantina con una lunga esperienza in Ikea. Riferisce Franco Ciccolini della Fisacat CISL Lazio che ad alcune lavoratrici sono state rivolte parole poco rassicuranti, come “qui per te non c’è più posto, dicci quanto vuoi per andartene”. L’impressione è che si tratti, insomma, di pressioni per indurre i lavoratori a cambiare aria e lo stesso dicasi per i demansionamenti e i trasferimenti a centinaia di chilometri di lavoratori non più giovani e con famiglia. Colpite per ora sono le figure apicali di primo e secondo livello, ovvero non certo manager ma responsabili di cassa, di macro aree ed uffici.

Questo accade a Roma, ma si tratta di un modello che Ikea ha tutta l’intenzione di generalizzare. La competizione, appunto si fa in primis tagliando i costi, ovvero i contratti più impegnativi per i datori di lavoro. Ridurre i costi vuol dire ridurre i salari, aumentare il precariato, limitare i diritti di chi lavora: questo impone la sempre crescente difficoltà nel valorizzare il capitale, prodotta appunto dalla sfrenata competizione di un modello economico che è modulato non sui bisogni della popolazione ma sul profitto di pochi.

Se Ikea intende ricalibrarsi alle nuove direzioni del mercato ciò deve avvenire senza che non un singolo contratto venga toccato, non un singolo lavoratore trasferito, demansionato o licenziato. Quando il padrone piange è il momento in cui non bisogna fare un solo passo indietro, perché vuol dire che si sta preparando a colpire.

 

Bauschan

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