“Grey Gardens” è un documentario scritto e diretto dai fratelli Albert e David Maysles, approdato nelle sale americane nel 1975. La pellicola segue le tipiche giornate di Edith Ewing Bouvier Beale ed Edith Bouvier Beale, madre e figlia recluse in un’aristocratica e fatiscente magione negli Hamptons. Il film divenne ben presto un cult, attirando migliaia e migliaia di spettatori, cosa abbastanza inusuale per un documentario. In questo articolo analizzeremo il fenomeno Gray Gardens su vari livelli, per gradi.

 

Il mistero di Grey Gardens

In un freddo inverno del 1971, a seguito di svariate lamentale, alcuni dirigenti del dipartimento alla salute pubblica della contea di Suffolk imposero alle due inquiline della proprietà nota come “Grey Gardens” di potare le piante totalmente infestate del loro giardino e di pulire l’intera abitazione, non avendo fino ad allora rispettato le leggi riguardanti le condizioni sanitarie. Le voci riguardanti la bizzarra coppia arrivarono fino alle orecchie della stampa. Risale al 1972 l’articolo apparso sul New York Magazine firmato dalla giornalista Gail Sheehy, che seguì l’intera inchiesta, documentando le condizioni di vita precarie in cui vivevano le due donne. Grey Gardens era priva di acqua corrente e riscaldamento, alcune pareti erano state rosicchiate da roditori e procioni, il pavimento era pieno di scatolette aperte di cibo per gatti. Tuttavia fu un altro fattore a catturare l’attenzione della stampa internazionale.

 

Edith e Jackie

Si scoprì che le due Edith erano parenti dell’ex first lady Jackie Kennedy. La madre, amorevolemente soprannominata “Big Edie”, era la sorella di John Vernou Bouvier III, padre di Lee e Jacquiline. Questo rendeva le due Edith rispettivamente zia e cugina di Jackie. In quel fatidico 1972, Lee Radzwill (sorella di Jackie) contattò i fratelli Maysles per girare un documentario sulla sua infanzia e sulla sua famiglia. La tempistica fu provvidenziale, perché permise ai due registi di rivelare il grande segreto di questa regale famiglia americana. L’abitazione di Grey Gardens era nascosta, completamente ricoperta dalle piante rampicanti e dagli animali che vi vagavano liberi. Al suo interno vivevano nascoste da quasi trent’anni Big e Little Edie. I fratelli rimasero folgorati da queste due donne, dal loro modo di vivere, dalla loro follia, nata da quel forzato (o voluto) isolamento.

 

Lo spazio

Il documentario ha inizio con un fermo immagine sulla porta d’ingresso di Grey Gardens, ripresa dall’interno. I registi ci accolgono dolcemente in questa casa di follia, per poi spezzare la narrazione con articoli di giornale dedicati alla bizzarra vicenda. Le porte, come in un dramma da camera di Ibsen, hanno un ruolo fondamentale, esattamente come la percezione del tempo. Little Edie si trasferì nella casa di Grey Gardens nel 1952 per aiutare la mamma, proprietaria e abitante della casa già dalla metà degli anni trenta, rimasta sola. Da allora nessuna delle due donne ha più lasciato la proprietà. Big Edie è forse vittima di agorafobia: teme il mondo esterno, di fatti ritiene il proprio microcosmo come unica realtà possibile e sicura. Little Edie, a differenza della madre, odia gli Hamtpon e vorrebbe tornare nei cabaret di New York che, a suo dire, l’avrebbero presto portata sui prestigiosi palchi di Broadway. La domanda che sorge in ogni spettatore è: perché Little Edie non lascia mai Grey Gardens? Durante l’intero lungometraggio la 56enne minaccia più volte di andar via, di voler ricominciare da capo a New York. Tuttavia un effettivo distacco non avviene mai.

 

Il tempo

Una delle prime frasi pronunciate da Little Edie riguarda proprio la percezione del tempo: “È molto difficile mantenere la linea tra il passato e il presente”: in un universo in cui le giornate sono tutte uguali, la percezione del tempo svanisce ed Edie ne è ben consapevole. Il suo modo per combattere questo fenomeno è concentrarsi fortemente sulla sua idea precisa di futuro che, paradossalmente, altro non è che il passato stesso. Little Edie racconta di come tornerà sulle scene molto presto, ci mostra le sue doti canore, i suoi passi di danza quasi ignorando il suo corpo non più giovane, il viso logorato dal tempo, gli occhi gonfi e la testa senza più capelli, magistralmente coperta con un foulard. La cabarettista vede nel documentario stesso un suo possibile riscatto, ignorando le condizioni in cui vive il suo presente. Big Edie, al contrario, pare essere a proprio agio in questo non-tempo. Parla del passato riconoscendolo come tale e come qualcosa che non potrà tornare. Ci racconta dei suoi successi come cantante, del marito e della relazione con il suo collaboratore\compositore. Passa le giornate ascoltando i vecchi dischi da lei incisi, ma non sembra mai rimpiangere quei tempi. Grey Gardens è tutto ciò di cui ha bisogno.

 

Gli archetipi femminili e la sana follia

Le due Edith della pellicola ci portano ad interrogarci sul concetto di follia. Una delle maggiori critiche a quest’opera fu quella di violazione della privacy e di sfruttamento di persone incapaci di intendere e di volere. Le protagoniste paiono più volte essere completamente pazze, ma, allo stesso tempo, non confermano mai questa teoria. Little Edie con i suoi ragionamenti sul tempo, la sue doti artistiche nella scelta dell’outfit da indossare (molti fotografi di moda si isprireranno ai diversi look sfoggiati dalla donna) sembra essere in possesso di tutte le sue facoltà mentali. Big Edie, invece, potrebbe essere vista semplicemente come una donna di altri tempi che, non avendo più un uomo accanto, decide di isolarsi in una prigione da lei scelta, quasi come le mogli dei meridionali espatriati in passato per anni e anni per lavorare, chiamate vedove bianche per essere rimaste “al paese” e dunque vivendo di fatto come vedove. La figura maschile, per quanto assente fisicamente, è una grande presenza nello scandire del tempo. Big Edie appartenuta prima a suo padre, poi al proprio marito e, infine al proprio amante, è una di quelle donne che vede l’essere mantenuta da un uomo come unico modo di vivere e di usufruire di un briciolo di libertà. Little Edie, al contrario, ci narra con orgoglio di come abbia rifiutato i migliori rampolli dell’alta società americana, perché non innamorata di loro e perché non ancora indipendente (economicamente e socialmente) come donna. Non solo, Little Edie mostra una grande capacità critica e storica. Ci parla dei suoi studi, del suo punto di vista sulla Prima Guerra mondiale e sui vari accordi di pace firmati alla fine del conflitto, in particolare si concentra sul Trattato di Versailles. In definitiva “Grey Gardens” sembra consegnarci due archetipi di donne della modernità: una donna comunemente detta “all’antica” ed una donna che tenta di raggiungere l’emancipazione. Queste due figure restano intrappolate in una magione decadente, perché contro di loro c’era un potere superiore, un potere politico e sociale che le ha letteralmente sotterrato sotto una tomba di piante rampicanti malate. I fratelli Maysles hanno potato quelle piante malvagie e hanno dato voce ai due archetipi rannicchiati lì sotto, e che ci riportano alla mente le figure contrapposte di Blanche e Stella in Un tram chiamato desiderio e di Jasmine e Ginger in Blue Jasmine (omaggio di Woody Allen al primo), simboleggianti il dualismo tra le “donne di famiglia” la cui realizzazione nella vita non deve andare oltre il mettere su famiglia insieme a mariti che le sottomettono, e le “donne eccentriche” che o hanno fallito nel compito sociale impersonato dalle prime, o si sono rifiutate di adeguarsi a esso.

Per quanto concerne il dilemma etico che aleggia attorno a questa pellicola, uno spettatore attento noterà che non c’è nessun abuso di potere da parte dei registi e che le donne non sono pilotate o portate a parlare di determinati argomenti (come i retroscena della famiglia di Jackie) o a fare determinate mosse. La telecamera dei registi è solo un terzo inquilino di Grey Gardens che si limita ad osservare e partecipare alla vita di due donne imprigionate dalla loro stessa società e che da sé producono dialoghi naturalmente “cinematografici”, come questo:

Little Edith:- France had just fallen to Hitler. [La Francia è appena caduta ai piedi di Hitler]
Big Edith: – But you never fall for a man. [Ma tu non cadi mai ai piedi di un uomo]

 

Sabrina Monno

 

Qui il documentario liberamente disponibile su Youtube.

 

 

 

Nata a Bari nel febbraio del 1996, laureata presso la facoltà DAMS di Bologna e studentessa presso Accademia Nazionale del Cinema, corso regia-sceneggiatura. Lavora prevalentemente in teatro, curando reading di lettura e sceneggiature.