La propaganda politica e di settori dei grandi media, legati a un interesse materiale della classe dominante a ristrutturare il legame tra istruzione e lavoro in Italia, è riuscita da decenni a far entrare nell’immaginario collettivo la categoria degli universitari come idealtipo del giovane fannullone: nell’attacco ideologico di sociologi, economisti, politici e intellettuali vari, le colpe della lunga fase di stagnazione, del calo demografico e di altri mali ricadono perlopiù sulla gioventù e in particolare su chi osa ancora iscriversi all’università. molto spesso correlato da sociologi, economisti e politici di turno alla lunga fase di stagnazione e crisi vissuta dalla società italiana, dal calo demografico alla recessione economica.

I laureati italiani sono tuttora definiti dalla voce della Confindustria come selettivi (ci ricordiamo il choosy della Fornero), inutili rispetto al mercato del lavoro ed incapaci di adattarsi alle esigenze dello stesso, secondo il canone che evidenzia uno “skill mismatch”, ovvero una mancata corrispondenza tra la richiesta di occupazione e le competenze acquisite dagli studenti tramite il percorso di studio intrapreso.

Il bersaglio della polemica sono specificamente i laureati in discipline umanistiche e scienze sociali, che gran parte della borghesia italiana ritiene ancora poco “mercificabili” nonostante l’inversione di tendenza data da alcuni settori, soprattutto coinvolti nella sfera delle pubbliche relazioni (social media managing, advertising), che comprendono pienamente il potenziale enorme dell’investimento nelle “campagne social” come orientamento dell’opinione pubblica.

Allo stesso tempo i nostri industriali lamentano però una potenziale forza-lavoro sovraqualificata in ambito tecnico-scientifico rispetto alle loro necessità: il sistema economico italiano, dominato infatti dalle venerate piccole e medie imprese (PMI), non è in grado di assorbire la quantità eccedente di lavoratori super-specializzati, costretti pertanto ad emigrare all’estero qualora ambiscano ad una carriera concorde alle competenze fornite.

Tralasciando i luoghi comuni paradossalmente diversificati di una realtà sociale composita come quella della nostra borghesia, anche il Sole24Ore è costretto ad ammettere che questa discrepanza è principalmente dovuta alle PMI, caratterizzate da circuiti a basso valore aggiunto, gradiente tecnologico infimo (cioè quanta tecnologia contiene il processo produttivo) ed un investimento di ricerca pressoché nullo (quando non finanziato da enti statali o altre realtà connesse): il problema non è rappresentato certamente da una presunta avversità dei lavoratori qualificati a lavori “umili”; la questione è invece nella struttura del sistema produttivo nazionale incapace di tener testa alla realtà della globalizzazione, dove il “capitalismo di nicchia” italiano viene abilmente surclassato dal toyotismo asiatico.

Il risvolto tragicomico dello scenario è ben rappresentato dalle rilevazioni Eurostat: dopo la prima fase di crisi dell’eurozona (2008-2014) la media europea di neolaureati occupati (considerati a partire da un anno dal conseguimento a non più di 3) è dell’85,5%; le punte di diamante date per scontate sono Belgio, Olanda, Germania, Malta, tuttavia accompagnate o addirittura superate da Repubblica Ceca, Estonia, Ungheria e altri dell’Europa orientale, che nell’immaginario dei paesi occidentali più ricchi rimangono ancora come paesi arretrati a 360°.

Nella maggior parte dei paesi la percentuale si attesta comunque sopra l’ 0%, specie per le economie trainanti nell’Unione; l’Italia, quarto paese per PIL malgrado la recessione, si trova nelle ultime posizioni con il 62,8 %, precedendo soltanto la Grecia e la Macedonia.

Inoltre, in controtendenza rispetto ai “virtuosi” menzionati sopra, che hanno percepito un recupero o anche un miglioramento, in Italia la media complessiva di occupazione dei diplomati e laureati è circa del 56%, cioè tuttora inferiore al dato precedente del 2008, del 60%.

Questi dati, sebbene aggravati dalla crisi, sono una costante da ben prima del 2008 e fisiologici di un sistema-paese che non investe e non ha mai investito adeguatamente nel rinnovamento del proprio sistema scolastico e nella formazione del personale specializzato, in proporzione all’esponenziale crescita economica di cui è stato protagonista negli ultimi sessant’anni.

I tassi di impiego dei laureati e diplomati (tra i 20 e i 34 anni) che non stanno proseguendo gli studi né facendo corsi di perfezionamento e aggiornamento.

A ciò si deve aggiungere un’ulteriore rilevazione che tenga conto di un dato specifico: il gap di occupazione italiana fra neodiplomati e neolaureati è minimo rispetto agli altri paesi in testa alla classifica- circa del 9%.

Oggettivamente il potere contrattuale di una laurea si riduce di molto, in questa fase, nei settori dove è necessaria una forza-lavoro a basso costo o non super-specializzata per un periodo di tempo strettamente determinato, per non menzionare i settori emergenti dell’industria just-in-time.

Se già vi è una forte tendenza alla retorica della “necessità della pratica al posto della teoria” a disincentivare un diplomato di estrazione sociale proletaria ad intraprendere il percorso universitario, il continuo aumento delle tasse – già fra le più alte in Europa e non progressive per “le grandi fortune” – il sottofinanziamento da parte delle casse statali e l’imposizione del numero chiuso in ogni settore degli studi hanno giovato alla restrizione dell’accessibilità alla formazione universitaria.

La spesa complessiva nell’istruzione dei governi in Europa.

Confronto 2008-2018 dei tassi di impiego dei laureati e diplomati (tra i 20 e i 34 anni) che non stanno proseguendo gli studi né facendo corsi di perfezionamento e aggiornamento.

Con grande sollievo dei governi impazienti di far pagare l’ennesimo taglio all’istruzione, le riforme procedono spedite e sempre in continuità verso l’erosione di qualsiasi investimento strutturale e formativo; il dirottamento dei fondi verso fonti economicamente redditizie, dall’EXPO al Salone del Mobile, permettono una rapida aziendalizzazione delle università pubbliche, di pari passo con la privatizzazione dei settori del trasporto, fondamentali sia per lavoratori che per studenti.

L’Italia è ciclicamente caratterizzata da una generazione di giovani le cui illusioni di realizzazione vengono infrante dallo stesso meccanismo che le alimenta in maniera più o meno rapida e feroce – da ultimo, i discorsi del premier Conte su un “nuovo umanesimo”. La questione che si pone, anche oggi, è come rompere il meccanismo, cioè come ripensare e ristrutturare l’istruzione delle nuove generazioni coniugando lo sviluppo e la libera espressione del potenziale di ogni individuo coi bisogni della società nel suo complesso. Il modello attuale di scuola autoritaria, parte della triade sociale conservatrice con chiesa e famiglia, è per sua stessa natura impermeabile a una vera emancipazione per gli studenti, perché deve sottostare alle esigenze della classe dominante, e fungere da campo d’addestramento per la dittatura dei padroni che il lavoratore ex-studente subisce sul posto di lavoro. Ecco perché la riorganizzazione dell’economia su basi veramente democratiche e razionali, garantite dal controllo dei lavoratori, è interesse degli studenti, e perché una scuola diversa, che prepari a essere liberi produttori, e non schiavi salariati, è interesse dei lavoratori.

Alessandro Riva

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