Lo scorso 19 settembre il Parlamento europeo di Strasburgo ha approvato una risoluzione chiamata “Importanza della memoria storica europea per il futuro dell’Europa”. Approvata con 535 voti a favore, 66 contro e 52 astenuti, la risoluzione esplicita una sostanziale equiparazione fra nazifascismo e comunismo; nel testo si legge che “ottanta anni fa, il 23 agosto 1939, l’Unione Sovietica comunista e la Germania nazista firmarono il trattato di non aggressione, noto come patto Molotov-Ribbentrop, e i suoi protocolli segreti, dividendo l’Europa e i territori di Stati indipendenti tra i due regimi totalitari e raggruppandoli in sfere di interesse, il che ha spianato la strada allo scoppio della Seconda guerra mondiale” e ancora “ricorda che i regimi nazisti e comunisti hanno commesso omicidi di massa, genocidi e deportazioni, causando, nel corso del XX secolo, perdite di vite umane e di libertà di una portata inaudita nella storia dell’umanità” quindi “invita tutti gli Stati membri dell’UE a formulare una valutazione chiara e fondata su principi riguardo ai crimini e agli atti di aggressione perpetrati dai regimi totalitari comunisti e dal regime nazista”.

Questi sono i passaggi chiave di uno scritto autoassolutorio per la borghesia europea che impone all’immaginario comune, sotto diverse forme, un unico punto di vista.
Sarebbe ingenuo aspettarsi qualcosa di diverso
dai più strenui difensori del sistema capitalista ma proprio quell’ingenuità emerge palese dalle varie sinistre di (vaga) ispirazione comunista, quelle che oggi “cadono dal pero” e si scagliano contro la disonestà intellettuale dell’Unione Europea, magari dopo aver teorizzato un’unione dei popoli da realizzare attraverso quell’istituzione.
In realtà il problema,
dal punto di vista dei comunisti e della classe lavoratrice, è a monte: fu la degenerazione della Terza Internazionale, capeggiata da Stalin e dai suoi accoliti, e la progressiva liquidazione fisica di coloro i quali erano rimasti fedeli agli ideali dell’Ottobre a rendere possibile il colpo di coda della borghesia internazionale che riuscì a reprimere parecchi movimenti rivoluzionari; le successive politiche di collaborazione di classe (stagione dei fronti popolari, entrata dell’URSS nella Società delle Nazioni ecc.) chiusero definitivamente il cerchio.
Paradossale come nei territori dei Paesi Baltici e in Ucraina (parte integrante dell’Unione Sovietica) fossero attive organizzazioni filo-fasciste: molti dei loro aderenti erano ufficiali di polizia che, dopo l’offensiva e l’occupazione nazista del ‘41, si distinsero nel rastrellamento e lo sterminio di ebrei, zingari e oppositori politici (vedi, per approfondire, Il libro nero).
Nel secondo dopoguerra il Partito Comunista Italiano era parte integrante dello Stato e per guadagnare la “fiducia” del padronato si curò, per mano del suo capo indiscusso Palmiro Togliatti, di amnistiare i fascisti e di rimettere al proprio posto i questori boia e i vari esponenti della coercizione che solo poco tempo prima erano impegnati a trucidare i partigiani.
Un processo di normalizzazione voluto e mai rinnegato che poco si differenzia da quello attuato nei decenni precedenti dalla burocrazia sovietica.
Un mese dopo il golpe di Pinochet in Cile, l’allora segretario
generale del PCI Enrico Berlinguer si esprimeva in questi termini su Rinascita:

Sarebbe del tutto illusorio pensare che, anche se i partiti e le forze di sinistra riuscissero a raggiungere il 51 per cento dei voti e della rappresentanza parlamentare, questo fatto garantirebbe la sopravvivenza e l’opera di un governo che fosse l’espressione di tale 51 per cento. Ecco perché noi parliamo non di una ‘alternativa di sinistra’ ma di una ‘alternativa democratica’, e cioè della prospettiva politica di una collaborazione e di una intesa delle forze popolari d’ispirazione comunista e socialista con le forze popolari di ispirazione cattolica, oltre che con formazioni di altro orientamento democratico. La gravità dei problemi del paese, le minacce sempre incombenti di avventure reazionarie e la necessità di aprire finalmente alla nazione una sicura via di sviluppo economico, di rinnovamento sociale e di progresso democratico rendono sempre più urgente e maturo che si giunga a quello che può essere definito il nuovo grande ‘compromesso storico’ tra le forze che raccolgono e rappresentano la grande maggioranza del popolo italiano.

Una dichiarazione che sgombera il campo delle suggestioni, ancor prima della dissoluzione del blocco dell’Est, ai vertici del partito comunista più grande d’Occidente si ragionava su come entrare nei governi di unità nazionale. Le “formazioni di altro orientamento democratico” evocate da Berlinguer sono le stesse che in larga misura compongono il Parlamento europeo.
Gli sviluppi successivi che portarono alla formazione dei DS e del PRC rappresentavano la continuità riformista, pur con d
issimili sfumature, e l’assenza di un serio dibattito interno ha contribuito a mantenere vive le leggende sul trentennio staliniano oltre che le declamazioni sulla Resistenza e sul “grande” PCI.
I primi a riscrivere la Storia furono proprio i “comunisti”, ad ergere monumenti di Marx Engels e Lenin con l’obiettivo di fossilizzare le loro idee rendendole innocue, un mero riflesso del passato; grazie a sempre più raffinati esercizi di retorica sono riusciti a chiedere il voto degli operai salvo poi governare contro di loro; nel nome dell’unità della sinistra noti esponenti d’area sono stati aperti sostenitori di governi borghesi ed una volta caduti in disgrazia questi stessi esponenti si sono riscoperti bolscevichi integerrimi pronti ad immolarsi per la causa socialista.
No non è un problema di risoluzioni più o meno radicali: i portavoce dei capitalisti ribadiscono il proprio anticomunismo (non potrebbe essere altrimenti!) e affermano di non aver bisogno delle bande fasciste per reprimere coloro i quali mettono in discussione l’ordine costituito; il vero problema ce l’ha chi ancora oggi rivendica lo stalinismo, chi ancora oggi cerca possibili compromessi attraverso astrusi riformismi, tutti quelli che hanno accantonato deformato o ripudiato il marxismo non possono lamentarsi in alcun modo né ora né mai degli attacchi al comunismo che arrivano dagli Stati e dalle istituzioni borghesi “democratiche”.
Inutile, quindi esibire, bandiere rosse con la falce e il martello oppure immortalarsi dinnanzi ai mezzi busti e alle statue di un Marx o di un Lenin, se a questo si accompagna non la lotta per vivificare e mantenere attuale il marxismo come politica rivoluzionaria e il comunismo come obiettivo storico reale, né astratto né perso in un futuro lontano, per la classe lavoratrice e l’umanità intera.

Il nostalgismo tutto basato sulla vita e gli atti rivoluzionari ed eroici del passato, e sulla loro distorsione mitologica, è tanto patetico quanto insensato per i militanti politici di oggi, e non costituisce molto più che l’ammissione di una debolezza di fondo, di un disarmo politico.

 

Roger Savadogo

Nato a Venezia nel 1988, vive a Brescia. Operaio, è studioso e appassionato di sottoculture giovanili, ultras e skinhead in particolare.