Per decenni, il possibile attacco alle installazioni petrolifere saudite è stata una delle principali ipotesi di alto rischio geopolitico – in particolare durante le guerre del Golfo. Ci sono stati tentativi falliti, come l’attentato suicida tentato da Al-Qaeda nel 2006. Ma questa volta, la temuta ipotesi è diventata realtà. Non esiste ancora una storia consensuale tra Arabia Saudita e Stati Uniti sulle esplosioni, sebbene abbia tutti gli ingredienti delle guerre asimmetriche: ottenere il massimo impatto possibile con mezzi non sofisticati ed economici. Per questo motivo, molti analisti ritengono che questi attacchi abbiano il potenziale per diventare un “11 settembre del mercato petrolifero”.

È ancora troppo presto per misurare gli effetti sull’economia, che senza dubbio si aggiunge alla lista di eventi -come le guerre commerciali – che aumentano le probabilità di scenari recessivi. La portata dipenderà dal fatto che l’impatto economico e geopolitico possa essere contenuto con mezzi più o meno ordinari o se, al contrario, l’incidente porterà ad un’escalation che potrebbe portare ad una nuova guerra nel Golfo Persico.

La monarchia saudita ha trasmesso un messaggio rassicurante, promettendo di ripristinare i livelli di produzione entro la fine di settembre, ma il danno è già fatto e ha un aspetto irreversibile: aver esposto l’insospettabile vulnerabilità di un’infrastruttura di valore strategico.

Ancora più grave: la vulnerabilità dell’Arabia Saudita mette oggettivamente in discussione il ruolo di poliziotto internazionale degli Stati Uniti, che è il principale fornitore di armi e sistemi antimissili al regno saudita. Ecco perché sta assumendo la dimensione di un problema di sicurezza nazionale per l’imperialismo americano, anche al di là del Medio Oriente.

L’azione è stata rivendicata dagli Huthi, la fazione filo-iraniana della sanguinosa guerra civile nello Yemen, contrapposta alle milizie sostenute dall’Arabia Saudita e dagli Stati Uniti. Ma nessuno gli crede veramente.

Come spesso accade con queste azioni, le teorie del complotto abbondano. Si va da coloro che dicono che dietro il bombardamento c’è la “ala dura” della teocrazia iraniana, a coloro che speculano con una congiura di falchi americani e israeliani, attivi militanti del regime change, ad avere un casus belli che giustifica un’offensiva militare contro l’Iran.

I grandi organi mediatici – attraverso i quali parlano le diverse ali dell’establishment americano – hanno imposto la narrazione di “buon senso” che in un modo o nell’altro il regime iraniano sarebbe dietro gli attacchi, anche se non riescono a presentare alcuna prova o spiegare chiaramente quali entrate otterrebbe.

Il governo degli Stati Uniti sta prendendo tempo per dare la sua versione dei fatti e pensare strategicamente come rispondere. La repressione degli impulsi twittari di Trump è forse un indicatore della portata della crisi.

Sia la Casa Bianca che Riad sono alla ricerca di “prove” che permettano all’Iran di essere ritenuto direttamente responsabile e servano a legittimare un’eventuale risposta. Il viaggio del Segretario di Stato americano Mike Pompeo in Arabia Saudita e negli Emirati Arabi Uniti è stato in funzione di questo obiettivo. Non è un caso che l’abbia già definito un “atto di guerra” da parte dell’Iran.

Tuttavia, Washington non ha parlato con una sola voce. Pompeo è uscito rapidamente per accusare l’Iran, cosa che Trump non ha fatto finora. Le divergenze sulla politica dell’Iran sono pubblicamente ventilate. Senza andare oltre, l’Iran è stato uno dei motivi addotti dal Presidente per liberarsi del suo consigliere per la sicurezza nazionale, John Bolton.

Queste differenze sono strategiche. Trump usa una bellicosa retorica e sanzioni con l’obiettivo di raggiungere un nuovo accordo con maggiori concessioni da parte del regime iraniano. Quindi ha flirtato con l’idea di incontrare il presidente Hasan Rohani. Falchi come Bolton non si accontentano di minacciare, ma spingono la linea del guerriero. E in questo si sintonizzano molto bene con alleati come il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu.

Come parte della sua stretta per negoziare la strategia, Trump ha mantenuto una relativa ambiguità, che si presta a pericolosi errori di calcolo. Il presidente oscilla tra la minaccia di ordinare “l’ultima opzione” per punire l’Iran e il lamento di ciò che significherebbe per gli Stati Uniti essere coinvolti in una nuova guerra in Medio Oriente. La nomina di Robert C. O’Brien come suo quarto consigliere per la sicurezza nazionale mantiene l’equilibrio con i falchi, ma non implica necessariamente che egli abbia deciso un’azione militare sul territorio iraniano, che rimane l’opzione meno probabile.

L’Iran, da parte sua, continua a negare con forza di essere responsabile di questi attacchi. La sua posizione, come chiaramente espresso dall’Ayatollah Ali Khamenei, il leader supremo della Repubblica Islamica, continua ad essere quella di resistere alla pressione americana da una posizione sintetizzata nella seguente formula: “niente guerra e niente negoziazioni”.

La verità è che, indipendentemente da chi ha premuto il detonatore, l’incidente ha lasciato il governo degli Stati Uniti con un dilemma difficile da risolvere. Se Trump non risponde, lascerebbe passare senza conseguenze un attacco ad uno dei centri di gravità dell’economia internazionale. Un cattivo precedente che potrebbe invitare ad adottare come metodo questo tipo di attacchi asimmetrici. Ma se lo fa con una risposta al di fuori del rapporto di forze, corre il rischio di scatenare una guerra regionale che potrebbe trascinare gli Stati Uniti in un nuovo incubo militare quando non è ancora in grado di concludere i suoi interventi in Iraq e Afghanistan. Un’altra guerra impopolare in Medio Oriente è ciò di cui Trump ha meno bisogno ora che la campagna per la sua rielezione è già stata lanciata.

Lo scenario più probabile è che gli Stati Uniti optino per politiche più severe ma alternative ad un attacco militare. Ad esempio, rafforzare il soffocamento economico e l’isolamento diplomatico dell’Iran. Oppure aumentare la presenza militare nelle vicinanze dello Stretto di Hormuz. In realtà, Trump ha già annunciato che approfondirà unilateralmente le sanzioni economiche.

Nell’ambito di questa politica, Washington potrebbe utilizzare l’attacco alla compagnia petrolifera saudita per spingere le potenze europee ad abbandonare definitivamente l’accordo nucleare con l’Iran. Ma è dubbio che ci riuscirà, perché l’Europa ha un altro orientamento e cerca di essere l’artefice di una exit strategy anche se ciò non dovesse garantirle i mezzi per affrontare Trump apertamente. In questo senso è stato formulato il piano del presidente francese Emmanuel Macron, che ha offerto una linea di credito di 15 miliardi di dollari al regime iraniano per mitigare l’effetto delle sanzioni e quindi allentare il conflitto.

Rispetto a ciascun possibile scenario, Trump ha un serio problema di credibilità internazionale, approfondito dalla sua predilezione per l’unilateralismo e dalla manifesta ostilità che ha dimostrato nei confronti di alleati storici come la Germania. Per non parlare della monarchia saudita guidata dal principe Salman, che ha inviato una task force per l’esecuzione e lo smembramento del giornalista Jamal Khashoggi, un oppositore sorto dalla cerchia ristretta della famiglia reale che era andato in esilio in nientemeno che negli Stati Uniti e stava scrivendo per il Washington Post.

Al di là della congiuntura, l’attacco ha dimostrato che lo status quo teso che ha prevalso nell’ultimo anno e mezzo da quando gli Stati Uniti si sono ritirati dall’accordo nucleare con l’Iran si sta esaurendo.

Quello che sembra fallire è la semi-strategia con cui Trump ha sostituito il modello “multilaterale” di Obama, che consisteva nel ricomporre un asse regionale con l’Arabia Saudita e Israele, ed esercitare “massima pressione” sull’Iran con un sistema di sanzioni economiche. L’obiettivo era duplice. A livello nazionale, l’obiettivo era quello di placare i falchi pro-israeliani. A livello di politica estera, è stato un tentativo di soffocamento economico per costringere la teocrazia a rinunciare alle sue aspirazioni egemoniche e a limitare l’ambito della sua sfera di influenza, che oggi si estende al Libano, alla Siria, all’Iraq e allo Yemen. In altre parole, risolvere la sfida regionale posta dall’Iran agli Stati Uniti e ai suoi alleati senza pagare il costo di fare generose concessioni o di andare in guerra.

La “estrema pressione” per ora non ha portato alla capitolazione del regime iraniano, che al contrario, sembra aver raddoppiato la sua scommessa, ha cominciato a rompere i limiti imposti dall’accordo nucleare, e a rispondere in modo difensivo trattenendo le petroliere nello Stretto di Hormuz, ritenendosi svincolata dall’impegno, data la non conformità del principale promotore dell’accordo. L’Iran specula sulla riluttanza di Trump a intraprendere una nuova guerra. Per ora, la realtà gli ha dato ragione, anche se questo può cambiare.

È in questo contesto di crescenti tensioni che vanno letti i risultati delle recenti elezioni nello Stato di Israele. Si è confermato lo scenario di un pareggio catastrofico tra l’attuale primo ministro, l’ultra-destro Benjamin Natanyahu, e il militare che ora guida il partito di destra Blu e Bianco, Benni Gantz, senza che nessuno avesse voti sufficienti in parlamento per formare un nuovo governo. Il quadro si completa con l’avanzata dell’ultra-destro laico Avigdor Lieberman e il rafforzamento del blocco arabo che questa volta si è presentato in forma unificata e ha guadagnato il terzo posto. La divisione è profonda e non più soltanto economica, nemmeno tra “colombe” e “falchi”, poiché entrambi sono profondamente colonialisti e anti-palestinesi. Netanyahu ha preso una svolta fondendo religione e politica per consolidare la sua alleanza con i partiti di destra religiosa. E secondo la matematica delle maggioranze parlamentari, ciò che rimarrebbe per Gantz come opzione per formare un governo è indurre in tentazione il blocco arabo. Lieberman si oppone a entrambe le alleanze e si sta adoperando per un governo di unità nazionale tra il Likud, Blu e Bianco e il suo partito, ma senza Netanyahu [che ha intanto ricevuto l’incarico per la formazione di un governo, ndr].

Il problema di “Bibi” è che non è in gioco solo la sua carriera politica, ma anche la sua libertà personale. Fuori dal governo potrebbe finire in prigione per i molti casi di corruzione che si trova ad affrontare.

Netanyahu si è presentato come l’unico amico di Trump e l’unico capace di negoziare con gli Stati Uniti una soluzione favorevole agli interessi dello Stato di Israele.

Ma il presidente americano ha già fiutato la sua debolezza e gli ha tolto il suo supporto nel bel mezzo della campagna. Non ha appoggiato l’annessione dei territori della Cisgiordania, che Netanyahu ha suggerito fosse parte del piano di Trump per il conflitto, e una volta conosciuti i risultati ha aperto l’ombrello dicendo che l’alleato è Israele e non un eventuale governo.

Ci aspettano lunghe settimane di trame, in cui non si può escludere che Netanyahu radicalizzerà le sue posizioni bellicose contro l’Iran, versando benzina sul fuoco.

In questo contesto fluido, le tensioni accumulate possono raggiungere un punto di ebollizione e qualsiasi incidente o errore di calcolo può innescare un conflitto che supererà di gran lunga i confini del Medio Oriente.

Claudia Cinatti

Traduzione da La Izquierda Diario

Dirigente del PTS argentino. Scrive sulla rivista online Ideas de Izquierda e nella sezione Internazionale di La Izquierda Diario.