A un anno di distanza dall’exploit dei Gilet gialli, in Francia si riaccende la scintilla della lotta di classe. Lo sciopero del 5 dicembre, uno sciopero annunciato da tempo come l’inizio di una mobilitazione di massa destinata a far fare marcia indietro a Macron sulla riforma delle pensioni, è riuscito a paralizzare il paese con picchi di adesione elevatissimi nel pubblico e non solo – soprattutto in settori nevralgici come i trasporti e le raffinerie petrolifere – con un totale di un milione e mezzo di manifestanti, secondo la Conféderation Générale du Travail (CGT), principale sindacato francese.
Enormi manifestazioni a Parigi, a Marsiglia e a Tolosa dove decine di migliaia di persone sono scese in piazza, e cortei densi e partecipati in tutta la Francia, nonostante la paralisi dei trasporti non facilitasse le cose, per esigere il ritiro di una riforma di cui l’esecutivo non ha ancora precisato i dettagli, ma che prevedibilmente si propone ridurre la spesa sulle pensioni, su pretesto di risanarne il bilancio. Sebbene non sia ancora del tutto chiaro come dovrebbe funzionare il nuovo regime universale destinato a sostituire gli attuali 42 regimi pensionistici esistenti, al di là dello slogan «1 euro di contributi/1 euro di pensione», la riforma è stata presentata dal governo come una misura di giustizia contro i « privilegi corporativi» delle categorie protette che hanno diritto a pensioni anticipate e agevolate, una percentuale peraltro minoritaria, visto che oltre l’80% dei pensionati francesi dipende dal cosiddetto “regime generale”. Un’offensiva, l’ennesima, contro i diritti dei lavoratori da parte di Macron, declinata all’insegna dell’opposizione tra “privilegiati” e “penalizzati” e portata avanti a colpi di manovre divisive nei confronti dei sindacati (mancava all’appello una delle grandi confederazioni nazionali, la CFDT).
Lo sciopero del 5D ha dimostrato che per ora i lavoratori non sono caduti nella trappola e che l’unione ha prevalso nella consapevolezza che l’obiettivo della riforma a lungo termine è quello di posticipare l’età delle pensioni e ridurne i costi, ovvero più lavoro e meno spesa pubblica.
«Grève ou crève» si leggeva su striscioni, adesivi e pannelli attraverso i cortei, a indicare che l’alternativa è secca (scioperare o crepare) e non lascia scampo.
Si tratta allora di puntare tutto sullo sciopero, e di prolungarlo quanto necessario, evitando gli errori commessi dalle direzioni sindacali nel corso delle ultime mobilitazioni importanti – il movimento contro la Loi Travail nel 2016 e quello contro la riforma delle ferrovie nel 2018– in cui scioperi col contagocce, date annunciate con largo anticipo o frammentate tra le varie categorie professionali, hanno finito per indebolire e demoralizzare le proteste.
I ferrovieri lo sanno bene, visto che sono stati gli ultimi a fare le spese di strategie di lotta votate al fallimento. «Dobbiamo ancora fare i conti con Macron per la riforma della SNCF (le Ferrovie dello Stato francesi) e questa è l’occasione buona», tuona Anasse, delegato di SUD Rail, uno dei sindacati più combattivi del settore, in assemblea a Gare du Nord, la più grande stazione d’Europa, facendo appello all’autorganizzazione dei lavoratori. «Ma per fargliela pagare dobbiamo andare avanti con lo sciopero. E non ce lo devono impedire dall’alto. Lo sciopero è di chi sciopera e di nessun altro».
I ferrovieri, che hanno aderito in massa alla protesta del 5 dicembre, con un tasso medio nazionale del 70% e un picco dell’85% tra i macchinisti, continueranno a incrociare le braccia nei prossimi giorni. E come è stato sottolineato da Raymond Soubie, ex consigliere di Sarkozy, su Le monde, il dato più significativo è che la determinazione proviene dalla base, una base che stavolta sembra poco disposta a lasciarsi imporre il ritmo della lotta dalle direzioni sindacali.
Ma i ferrovieri non sono gli unici ad avere i conti in sospeso con Macron. Ci sono gli insegnanti – più del 50% in sciopero, con record del 75% a Parigi dove 600 scuole su 650 sono state chiuse – che si sono mobilitati nel corso del 2018 contro la riforma Blanquer dei licei e della maturità e per denunciare la degradazione delle condizioni di lavoro a causa dei tagli all’istruzione pubblica. Ci sono i pompieri, eroi del corteo parigino del 5 dicembre che hanno impedito le cariche della polizia vicino Place de la République, e che da alcuni mesi si battono per ottenere aumenti salariali e in difesa delle pensioni anticipate per i lavori usuranti. C’è il personale ospedaliero mobilitato dall’inizio del 2019 per chiedere l’ampliamento della spesa sanitaria. Ci sono gli studenti che protestano contro la precarietà e esigono sussidi che garantiscano il diritto allo studio. E ancora i lavoratori del petrolchimico (chiuse 7 raffinerie su 8), degli aeroporti, dell’energia elettrica, della funzione pubblica e del settore privato (con 2000 preavvisi di sciopero) e ovviamente i Gilet Jaunes, reduci da un lungo inedito movimento sociale che è riuscito in poco tempo a far fare marcia indietro al governo sulla tassa sul carburante e a paralizzarlo sulla strada delle riforme, scatenando nei mesi una risposta repressiva disproporzionata da parte di un esecutivo impreparato e impaurito.
Molti sono gli elementi di déjà vu e non tutti lasciano ben sperare. Oggi come nel 1995, quando il governo Juppé fu costretto a retrocedere, è la riforma delle pensioni a far divampare le proteste, ma la stessa scintilla nel 2010 con Sarkozy ha avuto esiti ben diversi. Di giornate di sciopero, del resto, la Francia ne ha conosciute tante nel corso degli ultimi anni e molte non hanno sortito l’effetto sperato.
D’altra parte tante sono le novità di questa congiuntura: alcune vengono da lontano – la crisi di un regime discreditato dai propri errori e indebolito da un livello di contestazione che si è mantenuto costantemente elevato fin dall’inizio del quinquennato di Macron sommata all’effetto Gilets Jaunes che ha restituito alle classi popolari il gusto della lotta – e altre risalgono alle ultime settimane – in particolare le grandi manifestazioni di novembre contro l’islamofobia e le violenze sessiste che lasciavano presagire il potenziale della mobilitazione a venire.
Se, come sostiene Cécile Cornudet, editorialista di Les Echos, il giornale della Confindustria francese, quel che il governo teme maggiormente è la radicalizzazione della protesta fuori dal controllo dei ranghi delle direzioni sindacali – l’effetto Gilets Jaunes – l’autorganizzazione dei lavoratori e delle lavoratrici sarà decisiva rispetto alla prosecuzione del movimento.
Per ora, diversi settori mobilitati hanno deciso di andare avanti con lo sciopero – ridiscutendo e votando di giorno in giorno nelle assemblee generali la possibilità di continuare – e di riunirsi in coordinamenti intercategoriali per favorire il controllo del movimento dal basso.
Il livello di partecipazione allo sciopero, dopo questo fine settimana, determinerà probabilmente le sorti di questa battaglia. E lunedì si deciderà se la Francia si prepara allo sciopero generale contro Macron, come c’è da augurarsi.
Jane Mitchell
Corrispondente da Parigi
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