Riceviamo e pubblichiamo una lucida sintesi sull’escalation politico-militare tra USA e Iran, segnata dall’assassinio del generale Qassem Soleimani, che rilancia lo scontro tra potenze e genera una profonda tensione in una regione già scossa da crisi e sollevazioni popolari.


La morte del generale Qassem Soleimani, avvenuta nella notte tra 3 e 4 gennaio a Baghdad, è solo uno degli ultimi episodi che stanno rendendo sempre più difficile il travagliato rapporto tra Stati Uniti e Iran. L’uccisione del numero uno della sezione “al Quds”, l’unità di forza speciale del Corpo dei guardiani della rivoluzione islamica, noti anche come Pasdaran, ha già scatenato e continuerà a scatenare una serie di azioni di rappresaglia da parte di Teheran.

Soleimani, vicino alla guida suprema Ali Khamenei, la figura politica e religiosa più potente in Iran, incarnava il sentimento antiamericano della politica estera iraniana e il regime lo aveva reso una sorta di “leggenda”: il comandante che aveva sempre protetto il Paese soprattutto dalla minaccia del sedicente Stato Islamico. La sua morte non può passare inosservata, anche se, a differenza di ciò che affermano alcune analisi superficiali, non costituisce in sé l’innesco di una “terza guerra mondiale”, in uno scenario globale, peraltro, dove c’è una situazione di conflitti locali e regionali endemici.

È necessario analizzare l’episodio inserendolo all’interno di un contesto ben preciso che negli ultimi anni ha visto l’amministrazione Trump portare avanti una politica di cosiddetta “massima pressione” nei confronti dell’Iran a partire dalla decisione di Washington di retrocedere dall’accordo sul nucleare: un accordo che nel 2015, sotto l’amministrazione Obama, in cambio di una significativa riduzione della capacità di Teheran di arricchire l’uranio, aveva eliminato le sanzioni imposte al paese da USA e UE. Con la decisione di Trump di uscire dall’accordo e con la ripresa di vecchie sanzioni e l’introduzione di nuove, i rapporti tra i due paesi si sono inaspriti sempre di più traducendosi in una serie di dimostrazioni di forza come quella dell’attacco alle due petroliere, una giapponese e l’altra norvegese, al largo dell’Oman a giugno 2019, il successivo abbattimento di un drone americano nel sud dell’Iran e il bombardamento di due importanti stabilimenti petroliferi dell’Arabia Saudita a settembre 2019.

L’uccisione di Soleimani resta uno degli atti più ostili di Washington nei confronti dell’Iran, basti pensare al modo in cui la sua figura è stata raccontata nel corso degli anni: in patria Khamenei lo aveva definito “il martire vivente” e all’estero, nel 2012, John Maguire, un ex operativo della CIA, aveva parlato di Soleimani come del “singolo agente più potente di tutto il Medio Oriente”. Con la sua morte le risposte della Repubblica islamica non sono tardate ad arrivare: lo scorso mercoledì 22 missili balistici iraniani si sono battuti su due basi irachene che ospitano soldati statunitensi e della coalizione internazionale anti-ISIS e nel corso della giornata di ieri abbiamo assistito alla decisione del Supremo Consiglio di sicurezza nazionale dell’Iran di designare come organizzazione terroristica il Comando Centrale del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti e le sue forze affiliate nella regione.

La campagna di pressione statunitense non ha fatto altro che mettere in ginocchio l’economia di un paese che da anni si trova in una crisi economica gravissima. Una crisi che ha esasperato e continua ad esasperare il popolo iraniano: basti pensare alle numerose proteste che a novembre 2019 hanno portato migliaia di persone a scendere in piazza. Tali proteste, brutalmente represse con la forza, si sono scatenate in seguito alla decisione del governo di aumentare il costo del carburante ma ben presto si sono tradotte in una vera e propria opposizione nei confronti di un regime irrispettoso dei diritti umani.

Mentre assistiamo ad un’escalation di violenze e ad un braccio di ferro tra potenze che si contendono il controllo di una regione già in fiamme da tempo, ancora una volta siamo di fronte alla drammatica certezza che a pagarne le conseguenze saranno i civili: uomini, donne, studenti e studentesse, lavoratori e lavoratrici che vedono il prospettarsi di un futuro sempre più incerto, che si trovano a pagare il costo in vite umane dei progetti di egemonia sul Medio Oriente di una potenza regionale in difficoltà come l’Iran, e dei colpi di coda del vecchio attore principale della regione, gli USA, che non può né ritirarsi senza colpo ferire, né tornare ai “fasti” di superpotenza apparentemente inscalfibile, come ai tempi delle Guerre del Golfo.

Roberta

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