Parasite, un film distante dai modelli mainstream di successo, è diventato un successo di pubblico e di critica, essendo il primo film sudcoreano ad essere nominato all’Oscar. La chiave è che mostra senza soluzione di continuità il rapporto parassitario dei ricchi con la classe operaia.


L’ultimo film del regista coreano Bong Joon-Ho, Parasite (Gisaengchung) non ha lasciato nessuno indifferente. Vincitore della Palma d’Oro al Festival di Cannes questa settimana, quando l’Accademia ha presentato le nomination all’Oscar, Parasite ha sorpreso con ben sei nomination: miglior regia, film straniero, sceneggiatura originale, film internazionale, montaggio e production design. Basterebbe il peso di questa lista potrebbe per definire cosa sia un buon film, ma chiunque l’abbia visto penserà sicuramente che questa definizione non esprime ciò che è Parasite.

Nei luoghi in cui è uscito, è stato un successo: in Spagna, appena un mese dopo la sua uscita in ottobre, aveva già incassato più di un milione di euro al botteghino grazie ai suoi 250.000 spettatori [in Italia ha incassato quasi due milioni di euro in due mesi, ndt]. Se non conoscessimo tutti questi dati e leggessimo solo la sua sinossi, vedessimo il suo trailer e sapessimo che è un film coreano, non penseremmo a uno di quei film di successo ma piuttosto in uno di quei buoni film proiettati in pochi cinema e con un successo limitato di spettatori. Cosa c’è di così speciale in Parasite? Perché la gente è così affascinata da questo strano film sudcoreano? Probabilmente bisogna guardare il modo in cui ritrae l’oppressione di classe.

Cominciamo dal titolo. Parasite parla di ciò che noi intendiamo per parassita, di quel discorso che, come direbbe Owen Jones, cerca di demonizzare la classe operaia e criminalizza coloro che cercano solo di sopravvivere nella loro vita quotidiana. Ma lo fa utilizzando le tattiche più sofisticate che l’intelligenza della “cultura di strada” ha da offrire. Parla di come il sistema in cui viviamo spinge una parte significativa di noi in condizioni materiali talmente pessime che raggiungiamo posizioni in cui non abbiamo altra scelta se non quella di infrangere la legge, la morale e il diritto, o di morire di fame. Tuttavia, la definizione esatta di parassita non è questa: è un organismo che vive a spese di un altro. Non è una questione di moralità, di buone o cattive intenzioni, ma di posizione nella società. È semplice, ma se non lo definiamo correttamente possiamo confonderci quando si tratta di identificare un vero parassita. Il film sfida lo spettatore a pensare a chi sia realmente il parassita nel rapporto tra poveri e ricchi.


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Il film mostra due famiglie: i Parkers, la famiglia di un uomo d’affari di successo pieno di buone intenzioni, e i Kim, una famiglia di lavoratori, laboriosi e intelligenti, ma che sono marchiati come parassiti perché costretti ad approfittare degli altri per trovare lavoro. Attraverso il rapporto tra le due famiglie, Bong Joon-ho comincia a mostrare le enormi disuguaglianze sociali tra coloro che rimangono permanentemente sull’orlo del precipizio e coloro che possono permettersi di preoccuparsi solamente dei propri interessi spirituali.

Le buone intenzioni trovano le loro contraddizioni anche in un mondo segnato da disuguaglianze sociali. Questo è ciò su cui si basa Bong Joon-Ho per mostrarci i veri parassiti della società. Tutto questo attraverso meccanismi complessi: il modo in cui ne trae le conclusioni è piuttosto contorto. Il suo modo di identificare i parassiti del capitalismo e l’arte con cui questa idea viene spogliata garantisce il successo del film. Il filo stesso, il simbolismo, i giochi di umorismo, la realtà, la franchezza e un po’ di terrore fanno sì che un buon tema si trasformi in maestria nell’arte cinematografica.

La polarizzazione sociale e la disuguaglianza su cui si basa il sistema e che Bong Joon-Ho vuole mostrarci è permanentemente mascherata attraverso diversi meccanismi. Nelle città anche l’urbanistica stessa aiuta, per cui è difficile che la vita dei capitalisti si intersechi con quella dei lavoratori. Vivono in altri quartieri, vanno in altre scuole, si godono altri tipi di vacanze, si spostano in città in altri modi, fanno shopping in altri supermercati o hanno qualcuno che fa la spesa per loro e hanno i loro hobby a parte. Tutto questo nasconde queste disuguaglianze e allo stesso tempo aiuta ad approfondirle. Nel mondo capitalista, quindi, i sentieri di famiglie come i Kim e i Parker difficilmente si incrociano. L’unico caso si verifica in materia di rapporti di lavoro tra una classe e l’altra, ad esempio in ambito domestico, come quando qualcuno viene assunto come tutore, autista o collaboratore domestico. Poi ci sono momenti in cui le due classi si avvicinano abbastanza per sentire una spinta reciproca. In questo film le due classi vengono trascinate in una situazione in cui il minimo slittamento della posizione di classe può portare a un conflitto. Questa tensione è l’essenza del film e si esprime in uno dei dialoghi tra il signor e la signora Parker. Lui le racconta del nuovo autista di famiglia: “Mi piace, ma a volte sembra sul punto di superare il limite”.

Questa idea è stata espressa dal direttore in un’intervista:

Nella società capitalista di oggi ci sono ranghi e caste invisibili all’occhio. Le nascondiamo e le teniamo nascoste, lontano dagli occhi, e liquidiamo superficialmente le gerarchie di classe come una reliquia del passato, ma la realtà è che ci sono linee di classe che non possono essere oltrepassate. Credo che questo film mostri le inevitabili crepe che appaiono quando due classi sociali si strusciano l’una contro l’altra in una società sempre più polarizzata.

Parasite cattura il rapporto parassitario tra capitalisti e lavoratori. In qualche modo, attraverso questa tensione che si genera tra le due classi quando si incrociano, predice anche la lotta di classe.

Clara Mallo

Traduzione da izquierdadiario.es

Nata a Saragozza nel 1989. Studiosa di storia dell'arte con Master in Cultura Contemporanea: Letteratura, Istituzioni Artistiche e Comunicazione Culturale dell'Università Complutense di Madrid.
Scrive di cultura e società su La Izquierda Diario.