Nel precedente articolo, avevamo scritto di come la Svezia, sebbene non ufficialmente, stia ufficiosamente e de facto adottando la strategia, priva di basi scientifiche, dell’immunità di gregge come risposta alla pandemia del Coronavirus.


Mentre Boris Johnson e Trump hanno avuto un ripensamento circa questa strada e ora si avviano verso misure più restrittive, la Svezia rimane tra i pochi Paesi al momento (assieme all’Olanda e al Brasile di Bolsonaro) ad affrontare il  virus a modo suo, evitando misure che turbino produzione e consumo e dando un taglio molto “particolare” alle informazioni scientifiche divulgate: ad esempio,  giocando sulla ambiguità della nozione di “tempo di incubazione” è stata fatta passare la notizia che durante il tempo di incubazione il virus non è contagioso o che gli asmatici e le donne incinte non sono soggetti particolarmente a rischio. Ma ciò che risulta ancora più incredibile è l’informazione governativa, palesemente falsa (ma creduta all’interno del Paese), secondo la quale i portatori asintomatici del virus non sarebbero contagiosi.

 

Parola d’ordine: salvare i profitti dei capitalisti ad ogni costo!

Per quanto riguarda le misure adottate, sebbene rimangano blande (il divieto di assembramento da 50 persone in su), ci sono delle novità: le scuole superiori sono state chiuse, ma quelle primarie rimangono aperte poiché “il virus non è pericoloso per i bambini” (è stato dichiarato, con una punta di imbarazzo, in un’intervista dell’epidemiologo di Stato Tegnell). Le visite alle case di cura per anziani sono state vietate, ma contraddittoriamente nessuna mascherina è stata fornita a infermieri e assistenti. La Volvo ha ridotto la produzione chiudendo i suoi stabilimenti il giovedì e venerdì, al momento (27/03) non ci risulta altre aziende abbiano fatto lo stesso.

I riders, come ha giustamente denunciato il delegato sindacale Lars Karlsson e tutti coloro che non hanno contratti precari (es. supplenti, addetti alle pulizie, etc…) non hanno per ora alcuna garanzia di copertura e rischiano di essere costretti a scegliere tra lavorare per campare, ma ammalarsi o rimanere a casa e rischiare di perdere il lavoro o, peggio, di non poter pagare l’affitto o il cibo per sostenersi (o entrambi). Ad alcuni è già successo. Conosciamo ad esempio Lucie, francese che vive a Stoccolma: lavorava come cameriera in un ristorante del centro nel weekend, ma da qualche settimana non è stata più chiamata. Aveva inoltre un altro lavoro come insegnante di francese in una scuola privata che, a quanto pare, nonostante l’emergenza, dati i mancati provvedimenti del governo, continua ad operare come sempre. Lucie, però, si è, a ragione, rifiutata di andare a lavoro per via del rischio Covid-19 ed è stata perciò sostituita da qualcun altro pronto a sacrificarsi per l’azienda.

Il governo ammette, a denti stretti, che il sistema sanitario non è pronto per reggere una situazione simile a quella dell’Italia o della Spagna. Questo fatto viene usato come giustificazione per la strategia dell’immunità di gregge: se ci ammaliamo tutti, in momenti diversi (forse) il sistema sanitario reggerà e saranno davvero solo i vecchi a morire. Questo sembra essere il vero messaggio fortemente impregnato di “realismo capitalista” e darwinismo sociale che, in maniera più o meno subliminale, il governo fa passare, una volta che uno ricomponga il puzzle delle varie fonti di informazione ufficiali.

A fronte della crudezza di questo realismo darwiniano sospinto da una filosofia dell’inevitabile, nessuno, o quasi nessuno, osa chiedere al governo come mai la sanità svedese sia arrivata a tal punto (la risposta è: anni di tagli). Al governo si potrebbe chiedere, ad esempio, come mai, come correttamente denunciato dalla testata Arbetaren, poco prima di questa emergenza, 50 infermieri all’ospedale Södersjukhuset e 600 a Karolinska Institutet (tra personale vario) abbiano ricevuto un avviso di licenziamento.

 

Il silenzio delle “sinistre”

La testata Arbetaren può quanto meno vantare il pregio di aver approfondito le ragioni della carenza di risorse nella sanità e di aver evitato, in parte, ciò che moltissimi e praticamente tutti i media (e non solo quelli borghesi) stanno facendo: accettare passivamente come un destino inevitabile la narrazione del governo socialdemocratico e di Folkhälsomyndigheten (l’autorità sanitaria). Ma sembra essere fino ad ora l’unica testata, in un Paese in cui la cultura del compromesso e la fiducia quasi religiosa nelle istituzioni borghesi-socialdemocratiche è così inimmaginabilmente radicata a tutti i livelli della società. Infatti, nessuna testata o movimento a “sinistra” del governo socialdemocratico (penso alla sinistra riformista di Vänsterpartiet, che é in parlamento con il 9%) ha espresso quello che sembra banale ripetere, e cioè che il governo tra salvare l’economia dei capitalisti e salvaguardare la vita delle persone ha scelto di stare con i capitalisti.

Il partito-sistema socialdemocrazia non ha la minima intenzione nemmeno di paventare l’idea di un blocco della produzione, le “sinistre” radicali sopra menzionate si limitano a speculare sulle future conseguenze economiche della crisi, senza però criticare le scelte presenti del governo, senza mobilitarsi e senza offrire una prospettiva di classe.

 

Nei quartieri popolari e periferici si muore di COVID19

Per ciò che concerne più strettamente la nostra classe, si è verificato un fatto meritevole di essere raccontato, in quanto specchio dell’essenza nuda e cruda di quanto sta accadendo: il 20% dei morti della zona di Stoccolma sono di origine somala e vengono da Järva, un quartiere proletario a maggioranza migrante. Il governo finge di prendere a cuore questo dato e afferma che è per mancanza di conoscenza della lingua svedese e quindi carenza di informazione circa la pericolosità del virus e gli atteggiamenti di distanziamento sociale da adottare, che la comunità somala è stata colpita più degli autoctoni (l’organo filogovernativo Dagens Nyheter gli fa da eco).

Questa versione si basa sullo stesso presupposto usato da SD, il partito razzista, l’unica differenza è  che alcuni dei suoi elettori traggono la conclusione che i somali hanno meritato quella fine. In questo vergognoso vuoto di rappresentanza e silenzio non un politico della cosiddetta “sinistra radicale” (Vänsterpartiet), bensì una ragazza somala che vive nel quartiere scrive su FB il seguente post (mia traduzione dallo svedese) che si sta diffondendo ed è, dall’inizio di questa crisi, l’unico segnale di rottura del silenzio a cui sia venuto in contro:

Le informazioni sono state già diffuse in somalo. […]. Molti somali a Järva vivono stipati a causa delle (mancate) politiche sociali. La maggioranza ha lavori che non può fare da casa, come autista o personale sanitario. Il problema non è che i somali non hanno recepito le informazioni diffuse dal governo sulla prevenzione. La distanza di sicurezza non può funzionare se uno vive costipato, non può permettersi la malattia dal lavoro oppure ha un lavoro che non può fare da casa. Il virus è arrivato in Svezia a causa di quei ricchi svedesi che l’hanno portato dalle località sciistiche in cui erano in vacanza e ha finito con l’uccidere i più poveri della società. Cose già viste. La politica uccide. La povertà uccide. Questi problemi non si risolveranno con qualche traduzione.

Ragia, l’autrice del post, scrive “politica” e “povertà”. Ma per “politica” intende la politica dei borghesi della socialdemocrazia, quella che favorisce i capitalisti, e per povertà intende la condizione necessaria affinché questo sistema, il capitalismo, si tenga in piedi: i ricchi che andando a sciare hanno contributo a importare il virus in Svezia sono gli stessi che per proteggersi dal virus avranno la possibilità di scappare nella casa estiva di campagna o sulla costa.

I “poveri” di cui lei porta la voce e che noi dobbiamo rappresentare sono invece quelli la cui miseria è necessaria affinché i ricchi (una minoranza) possano giovare dei benefici che il capitalismo gli porta che includono, nel caso di una pandemia, permettersi di non lavorare e di trasferirsi nella seconda o terza casa fuori città.

 

Matteo Iammarrone

 

Nato a Torremaggiore, in Puglia, nel 1995, si è laureato in filosofia all'Università di Bologna. Dopo un master all'Università di Gothenburg (in Svezia), ha ottenuto un dottorato nella stessa città dove tuttora vive, fa ricerca e scrive come corrispondente de La Voce delle lotte.