“Tempo rubato” di Simone Fana parla di quel tempo che viene costantemente sottratto dalla nostra vita personale per essere dedicato al lavoro. Le proposte concrete che il testo offre per pensare in termini rivoluzionari la questione della diminuzione del tempo di lavoro e del cambiamento dell’economia lo rendono attualissimo oggi, ma ancora di più per il futuro e la lotta di classe che verrà.
«Considera che il tempo è denaro». Una formula già sentita troppe volte, ma che in realtà è molto di più di un semplice luogo comune, tant’è che Max Weber, padre della sociologia moderna, la riporta nel suo L’etica protestante e lo spirito del capitalismo come una delle verità più profonde della nostra società, rivelatrice della sua più intima natura; del suo spirito, per l’appunto.
Non molto diversa è l’intuizione che sta alla base della teoria del valore di Karl Marx, il quale faceva corrispondere il valore di una merce con il tempo di lavoro socialmente necessario a produrla. Per Marx, tuttavia, a trainare l’economia capitalista era un tipo particolare di valore, il plusvalore. Molto schematicamente, il plusvalore nasce da un surplus di tempo di lavoro, detto anche pluslavoro, rispetto a quello che servirebbe per riprodurre i beni e i servizi connessi ai bisogni dei lavoratori stessi. In questo tempo, l’operaio produce esclusivamente per il guadagno del capitalista, avendo già reintegrato il valore del proprio salario. L’analisi di Marx quindi arriva ad un punto di contatto tra lavoro, tempo e salario.
Dalla sintesi marxiana di questi tre elementi parte anche Tempo rubato, libro di Simone Fana uscito nel 2018 per Imprimatur. Del resto, cos’è il plusvalore se non un furto di tempo? La premessa dell’opera è quella di individuare le condizioni di possibilità di una rivoluzione economica, politica e sociale che possa ribaltare gli equilibri tra tempo di lavoro e tempo di vita in favore di quest’ultimo. Particolarmente pregnanti, nella loro semplicità, sono le osservazioni sul salario da cui Fana muove i suoi passi. Osserva l’autore che accanto alla somma di denaro ricevuto in compenso per una prestazione lavorativa (salario nominale), c’è anche la quantità di beni e servizi che quella somma può acquistare (salario reale o potere d’acquist0); è chiaro come quest’ultimo aspetto non esprima altro che la gestione del tempo libero dal lavoro, ovvero la vita privata degli individui. Emerge quindi uno stretto rapporto di connessione e interdipendenza tra tempo di lavoro e tempo di vita, rapporto che, sostiene Fana, bisogna riportare con forza al centro del dibattito pubblico.
E proprio questa sembra essere la tendenza di questi ultimi tempi; dalla premier finlandese dettasi favorevole ad una riduzione della settimana lavorativa a quattro giorni da sei ore, alla proposta dei Labour inglesi nella scorsa campagna elettorale, fino ai metalmeccanici del Waden-Wüttemberg che due anni fa sono riusciti ad ottenere un accordo per 28 ore settimanali. La riduzione dell’orario di lavoro quindi sta tornando ad affermarsi come tema di grande urgenza, anche perché si sta sempre di più diffondendo la convinzione che non si tratti più di una mera utopia, ma di una prospettiva immediatamente realizzabile. Non a caso, l’excursus storico che apre il libro parte proprio dai cicli delle lotte operaie degli anni ‘60 e ‘70 che avevano posto al centro delle loro rivendicazioni la diminuzione del tempo di lavoro, l’aumento dei salari, l’alleggerimento dei ritmi e, in alcuni casi, anche il controllo diretto dei lavoratori sulle fabbriche.
Con occhio attento e analitico, Fana individua le ragioni per cui quel tipo di lotta era emerso proprio ai tempi del boom economico. La spinta per la ricostruzione nel dopoguerra aveva infatti portato al massiccio sviluppo dell’industria di scala ad alta concentrazione di capitale fisso e ad una conseguente espansione della classe operaia. L’introduzione del metodo fordista e i numerosi investimenti nell’innovazione tecnologica avevano accelerato i processi di accumulazione della ricchezza, processi da cui però i lavoratori si sentivano sempre più estromessi, anche a causa dei pesantissimi ritmi di lavoro cui erano sottoposti. Nelle fabbriche nacque quindi una nuova soggettività operaia particolarmente conflittuale che trovò nel rifiuto del lavoro l’asse portante della propria identità.
Fana poi traccia una linea di paragone con la situazione odierna in Italia, nel tentativo di capire perché da noi il dibattito faccia fatica a decollare. Oggi la situazione sembra essersi ribaltata rispetto a sessant’anni fa; l’industria pesante è stata in parte smantellata, in favore della piccola-medio impresa a bassa concentrazione di capitale e del settore dei servizi, in particolare quello legato al turismo . Il risultato è un tessuto economico poco produttivo – e quindi poco competitivo –, con aziende che non investono, non innovano e, in molti casi, evadono il fisco. I profitti si cercano soprattutto nello sfruttamento del lavoro vivo, attraverso contratti a termine o in nero, apprendistati gratuiti, somministrazione di manodopera per mezzo di agenzie interinali ecc. Le numerose privatizzazioni hanno inoltre tolto allo Stato quel ruolo-guida che aveva avuto nel dopoguerra in alcuni settori strategici dell’industria.
Di particolare interesse sono le osservazioni dell’autore riguardo alla gestione politica di questi problemi. Scrive Fana che i tentativi di ovviare alla scarsa propensione per la crescita hanno finora riguardato in modo unilaterale il versante dell’offerta del lavoro, con sgravi fiscali alle imprese e con la liberalizzazione di contratti più flessibili. È necessario invece un forte intervento sul versante della domanda aggregata, fattore determinato dalla propensione marginale al consumo e dal livello degli investimenti. L’assunto è che solo uno stimolo salariale e un ampliamento del tempo di vita potrebbero portare gli individui a consumare di più e gli imprenditori ad investire di conseguenza, date le maggiori possibilità di profitto offerte da un mercato più attivo. Questo cambio di paradigma dovrebbe ovviamente passare per un radicale ripensamento del ruolo dello Stato; non più elemento neutro o presenza ingombrante, ma attore decisivo nella mediazione tra imprese, sindacati e lavoratori.
Fana auspica che la direzione statale possa imporre un minimo salariale e un controllo trasversale sugli orari di lavoro, ma giustamente non ritiene questa prospettiva sufficiente per la risoluzione della questione centrale del libro, quella del furto di tempo. La sua proposta per una riduzione generalizzata dell’orario di lavoro a parità di salario infatti non è compatibilista, ma conflittuale, ovvero rimanda alla carica di tutta quella forza trasformativa che la classe operaia è in grado di esercitare sugli assetti di potere nei luoghi di lavoro e nella società. Salario e tempo di lavoro devono essere slegati dagli indici di produttività, andando così ad “insidiare il potere delle imprese di manovrare i fattori di produzione (capitale fisso e variabile) in relazione al ciclo economico”.
Un dato fondamentale che emerge da Tempo rubato è questo: è anche la società capitalista in sé, e non solo la classe lavoratrice, a porsi il problema del salario e della riduzione del tempo di lavoro. Questo significa che la riduzione degli orari può declinarsi in una frammentazione dell’intero processo lavorativo, con contratti a chiamata, prestazioni saltuarie e precariato; allo stesso modo, l’automazione, potenzialmente un fenomeno che alleggerisce il peso del lavoro e che rende più accessibili i beni di consumo, può provocare disoccupazione di massa o diventare lo strumento ideale per una più efficace estrazione di plusvalore. In sintesi, se lasciate in balia della direzione borghese, queste istanze non fanno altro che dare un nuovo volto agli assetti economici preesistenti. Da qui la necessità di imprimere il segno dell’interesse operaio sulle tendenze oggettive, in aperto contrasto con la vigente logica del profitto.
Quello che è forse il lato forte del libro porta quasi paradossalmente al suo lato più debole, anche se forse sarebbe più appropriato parlare di una divergenza in termini di valutazione storica. Fana infatti si riferisce in diverse occasioni al periodo 1945-75 usando l’espressione “trentennio glorioso”, in contrapposizione alla controrivoluzione neoliberista affermatasi nei decenni successivi. Questa scelta, a nostro parere, stona con la realtà dei fatti, di cui Fana nei primi capitoli riporta comunque un resoconto impeccabile; ci riesce infatti difficile considerare “gloriosa” un’epoca in cui il tasso di sfruttamento spiccò alle stelle e in cui la repressione poliziesca fu più cruenta che mai. Certo, per quanto riguarda l’Italia, la grande stagione delle lotte portò ad un generale ammodernamento del paese, con più diritti in ambito lavorativo e civile, ma è chiaro che, rispetto a quelle che erano le rivendicazioni veramente rivoluzionarie, non si può che parlare di una sconfitta. I movimenti operai e studenteschi degli anni ‘60 e ‘70 infatti volevano molto di più di un semplice passo in avanti nel progresso della società borghese. Volevano tutto.
Marco Duò
Vive in Veneto. Lavora come precario nel mondo della scuola.