Proponiamo la prima di due parti della traduzione di una conversazione tra Andrea D’Atri e Gastón Remy, intellettuali argentini rivoluzionari, e Corsino Vela, autore di Capitalismo terminal. Potete leggere qui la seconda parte.


Corsino Vela è l’autore del libro Capitalismo terminal, un libro molto interessante e aperto da tanti punti di vista. Non solo perché spiega concretamente como si manifesta la contraddizione strutturale del capitale intorno all’esempio dell’ultima crisi del 2008, ma anche perché permette di riflettere sui modi nei quali ogni crisi riformula gli elementi di vulnerabilità del capitalismo. Un libro che ci invita anche alla critica politica radicale a coloro che combattiamo per un marxismo strategico, contro tanti adattamenti delle “sinistre populiste” a gestire le crisi capitaliste senza nessun altro orizzonte che l’amministrazione della “democrazia dei consumatori”.

Anche se non condividiamo la totalità di quel che dice nel suo libro, che merita un lungo dibattito – che non è l’obiettivo di questa intervista -, proponiamo questo dialogo con Corsino Vela alle nostre lettrici e lettori con il proposito di incentivarli a leggere il suo libro che, come ci diceva il suo autore, “non pretende impartire nessuna dottrina ma vuole essere un incentivo ad andare aldilà del proprio scritto”. Capitalismo terminal parla dell’ultima grande crisi del capitalismo, però propone alcune tracce per comprendere la attualità, plasmata dalla pandemia del coronavirus, su cui parliamo a distanza, con Corsino, in tempo di quarantena.

Sebbene ci sarebbe piaciuto intervistarti prima della crisi sanitaria provocata dalla pandemia, ora è quasi inevitable riferirci ad essa. Cigno nero, teorie cospirative o letture che segnalano che la reazione è esagerata: è certo che tutto il dibattito ha alle sue spalle una situazione economica, accompagnata da pronostici su una possibile recessione preannunciata dall’anno scorso, e che minaccia di trasformarsi in una grande depressione. Qual’è la tua visione della crisi, anche se ci siamo ancora in mezzo e dunque qualsiasi pronostico sia incerto?

È ovviamente presto per avventurarci in una lettura su quale sarà l’uscita da questo episodio storico e soprattutto, come sarà questa uscita, anche se stiamo già vivendo le sue conseguenze immediate. Indipendentemente dall’ipotesi intorno all’origine concreta del Coronavirus, quel che sempre emerge fuori di ogni dubbio è che, così come accadde nel caso delle pandemie precedenti (Aviaria e SARS), questo virus è legato a cause strutturali del modo di produzione e distribuzione capitalista. Le grandi fattorie d’allevamento di bestiame e l’agricoltura industriale invasiva, la deforestazione, ecc., unite al processo di urbanizzazione e concentrazione della forza di lavoro, oltre all’industria della mobilità (turismo) che favorisce la propagazione del coronavirus: tutto ciò fa da sfondo alla situazione attuale. Per i gestori degli stati e le associazioni imprenditoriali le soluzioni plausibili sono sempre le stesse, ovvero ritornare alla crescita economica, con tutto quel che suppone il fatto di continuare con la fuga in avanti per quanto riguarda il super-sfruttamento del pianeta e della forza di lavoro, l’impoverimento generalizzato a scala planetaria e l’aumento della nocività caratteristica propria della società industriale.

Da varie voci della ricerca virologica si annuncia che le pandemie sono il futuro. Si può dire quindi che la pandemia è l’espressione della nocività che corrisponde alla fase di dominazione reale e alla scala planetaria del capitale.

Visto da un altro punto di vista, il coronavirus è l’innesco e l’acceleratore di uno stato di crisi latente che si è estesa durante il decennio passato. Le misure monetarie per affrontare la crisi del 2008 non sono state un palliativo per occultare le cause strutturali della crisi e alimentare la minaccia di una nuova e imminente implosione finanziaria. Bisogna tener di conto che queste misure non riuscirono a ristabilire le quote d’accumulazione del capitale per un rilancio economico globale e che, nel migliore dei casi, le quote di crescita dei paesi erano ridotte: incluso nel caso della Cina, la fabbrica mondiale, la tendenza era al ribasso.

La minaccia di una nuova recessione si è fatta realtà con il coronavirus come catalizzatore. Precisamente, le decisioni scomposte dei governi nazionali, tentando di minimizzare le perdite, hanno a che vedere con la paralisi dell’attività economica come disperata risorsa per tentare di ridurre la propagazione del virus. Le pressioni imprenditoriali per evitare le misure più drastiche di confino e chiusura delle attività non essenziali sono ben significative e hanno finito col provocare la paralisi delle aziende per via dell’astensione dal lavoro e degli scioperi dei lavoratori, come misura preventiva per la loro salute.

Va da sé che tutto ciò aumenta la possibilità di una grande depressione che è sempre più presente nella misura in cui si allungano i tempi del confino della popolazione e l’interruzione delle attività economiche.

Quel che è chiaro è che non siamo semplicemente davanti a un grave e imprevedibile problema sanitario; quel che emerge è la bancarotta del modello di società industriale, ovvero, del modello di riproduzione sociale capitalista. Perché il fatto è che la situazione è fuori controllo, anche per i gestori stessi della crisi. Ed evidentemente la classe dominante politico-finanziaria mondiale e locale mantiene gli strumenti di controllo su di noi, sulle popolazioni proletarizzate, attraverso i suoi apparati polizieschi e militari. Proprio per questo motivo non è in grado di risolvere niente, perchè di fatto non si tratta di un problema d’ordine pubblico, che è solo una delle manifestazioni del fallimento strutturale del sistema di organizzazione sociale che domina il mondo.

Se per molti anche le spese milionarie degli Stati (spese persino maggiori di quelle fatte durante la crisi del 2008 per salvare i grandi capitali e alle banche) sono limitate rispetto ai peggiori scenari economici prevedibili, credi che possano generare qualche contrappeso al naufragio generale?

Le risposte degli Stati (dal Brasile agli Stati Uniti, fino all’Unione Europea) alle conseguenze immediate del sobbalzo economico provocato dalla pandemia del Coronavirus consistono nell’improvvisare misure di contenimento sociale di fronte all’accelerato numero di disoccupati e la conseguenza più immediata, ovvero la diminuzione della domanda. L’Unione Europea per esempio, aldilà dei conflitti interni, ha annunciato la mobilitazione di linee di credito speciali per le aziende e i governi nazionali per un valore di centinaia di miliardi di euro, insieme a stanziamenti di bilancio destinati alla valanga di disoccupazione che si sta producendo. In qualche modo, quest’insieme di misure finanziarie è una continuazione della politica seguita dai paesi capitalisti avanzati nell’ultimo decennio e che si materializza in quel che chiamo pace sociale sovvenzionata, con la specificità che adesso le politiche di contenimento sociale si danno in una drastica situazione d’emergenza e con una crisi di portata e estensione molto più ampia di quella del 2008.

Dall’altra parte, le conseguenze di questo tipo di misure, che sono della stessa natura di quelle utilizzate per affrontare la crisi del 2008, sono prevedibili e fonte di nuovi disequilibri dovuti all’aumento del deficit pubblico e all’indebitamento delle aziende e delle famiglie. Non dobbiamo dimenticare che questo ballo di cifre multimilionarie ha come obiettivo il riscatto dell’economia capitalista e dunque si tratta di crediti i cui beneficiari circostanziati (lavoratori e disoccupati) dovranno restituire in una maniera o in un’altra.

Strutturalmente, le previsioni del tracollo sociale sono tali che nei paesi a capitalismo avanzato va prendendo corpo l’idea di un reddito universale, fino ad ora patrimonio di certi settori minoritari della sinistra del capitale. Incluso lo scervellato presidente degli Stati Uniti ha insinuato la possibilità di stabilire un reddito universale di mille dollari, etc…

Lasciando da parte quello che può esservi di propaganda e di intrattenimento mediatico, quel che è certo è che il cosiddetto reddito universale ha differenti sfumature per quel che riguarda la sua assegnazione e il suo raggio d’azione (condizionamenti e restrizioni) a seconda del colore politico di chi lo propone. Però non ci dobbiamo ingannare: non siamo davanti a una redistribuzione universale della ricchezza che allude a qualche idea di socialismo ma, nel migliore dei casi, alla distribuzione di un’eccedenza finanziaria ottenuta dalle tasche dei contribuenti e gestita in accordo con la contabilità capitalista.

Per questo il reddito universale è una misura problematica che non chiarisce come far pagare le tasse alle grandi fortune e alle aziende transnazionali necessarie per finanziaria. Ecco perché alla fin fine, questa misura si appoggerà sulla tassazione del lavoro e sull’aumento del deficit pubblico.

Il che porterà a un indebitamento dei paesi subordinati nella catena dell’accumulazione di capitale transnazionale. Insomma, una pioggia di miliardi di dollari/euro destinati dai governi alla gestione della crisi economica innescata dalla pandemia del coronavirus potrà attenuare la destabilizzazione in un momento iniziale con il costo di posporre i suoi effetti a brevissimo termine, quando si presenterà una situazione sociale e economica molto peggiore di quella precedente allo sviluppo della pandemia.

Pensare che lo stimolo della domanda da parte dei governi con investimenti pubblici e il denaro accessibile attraverso un reddito universale o i crediti a basso interesse possa rilanciare l’economia e ristabilire la quota di accumulazione di capitale ai livelli adeguati per inaugurare un nuovo ciclo espansivo, è una vera e propria fantasticheria da parte di coloro che la notte sono andati a dormire neoliberali e si sono svegliati il giorno dopo convertiti in neokeynesiani.

Nel tuo libro spieghi come i meccanismi per ricondurre verso l’alto l’accumulazione del capitale e il tasso di guadagno si sono esauriti già dagli inizi del XXI secolo.

Come pensi che questo si rapporterà alle prospettive della lotta di classe e politica, in mezzo alla crisi del Coronavirus? Quali sono le prospettive che vedicome possibili di fronte all’esaurimento delle forme politiche della “democrazia dei consumatori“?

Tra i vari aspetti che suggerisce la congiuntura prodottasi dalla pandemia c’è che la Storia sembra più aperta e incerta che mai, come succede quando un modo di civilizzazione inizia a sgretolarsi.

Ma ci sono segnali e circostanze che possono indicarci alcune tendenze a breve termine. Non c’è dubbio che, una volta superata la parentesi della pandemia, saremo esposti a una ristrutturazione del sistema capitalista a livello mondiale che di fatto già è iniziata anche se, come dicevo prima, su delle premesse che già conoscevamo dalle risposte alla crisi del 2008. I movimenti speculativi del capitale finanziario continuano dopo una breve sospensione della borsa, e le concentrazioni aziendali prendono vigore.

Dall’altra parte i governi, attraverso la propaganda mediatica, già annunciano che il recupero economico sarà difficile ed esige sacrifici che, detto in un altro modo, significa che provocherà un considerevole deterioramento delle condizioni di vita materiali di ampi settori della classe lavoratrice. Le misure di pace sociale sovvenzionata alle quali facevo riferimento prima sono orientate specialmente a arginare le reazioni rivendicative dei lavoratori e dei disoccupati, così come la gestione nei limiti tollerabili dell’insieme della popolazione impoverita (pensionati, malati, senza tetto, etc…).

La riattivazione della lotta di classe dipenderà, inoltre, dal livello di penetrazione tra la classe lavoratrice del nuovo patto sociale che i governi che rappresentano gli interessi del capitale industriale e finanziario di ogni paese inizieranno a predicare per far fronte alla recessione economica. Concretamente, in Spagna si è già cominciato a invocare una riedizione dei Patti della Moncloa [patti economico-costituzionali del 1977 tra i partiti legali spagnoli del tempo che tagliarono fuori il movimento operaio in un momento di crisi economica, ndt]; ovvero, la formazione di un consenso o fronte nazionale che comprenda tutti i partiti parlamentari e, per questa occasione, includa anche i sindacati. Con differenti sfumature e formule proprie di ogni paese, ancora una volta siamo davanti alla riattivazione del nazionalismo e del presunto interesse comune tra le élite capitaliste e la classe lavoratrice per la ricostruzione dell’economia nazionale.

Che questa falsità possa fare breccia dipenderà dalle contropartite materiali che può offrire ogni fazione nazionale della borghesia mondiale alle proprie rispettive classi lavoratrici; qualcosa che, come sappiamo, diventa specialmente problematica senza avere delle prospettive di un’espansione capitalista a lungo termine.

Dobbiamo anche segnalare che la situazione attuale ha messo in evidenza la condizione completamente inerme della società capitalista la cui reazione, davanti a quel che si presenta come un cataclisma, non è altra che quella di mettersi in mano ai rispettivi governi. È una rinuncia pratica all’autonomia e un piegarsi sotto le direttrici dello stato di una società che, abituata alla delega delle sue funzioni ai professionisti della politica, è stata privata delle risorse e dei mezzi materiali per gestire il proprio intervento davanti all’eventualità di un qualsiasi disastro, sia naturale che provocato. Una società incapace di reagire in una circostanza nella quale i gestori del capitale, oltre che corrotti, dimostrano la loro incompetenza nel momento di difenderci, di garantire la sicurezza alla società che amministrano.

Si fa sempre più evidente che dobbiamo prendere le redini della nostra vita perché la delega nelle istituzioni dello stato non garantisce niente, né lavoro, né la promessa di salute, né la sicurezza né la salute. Nelle attuali condizioni di sviluppo capitalista, la democrazia dei consumatori vacilla perché la classe dominante non può offrire contropartite del grado e della portata necessaria per la riproduzione sociale. In questo senso, è una opportunità di intervento e riappropriazione dei mezzi e delle risorse, pero soprattutto per avanzare nella critica pratica del modo di riproduzione attuale mediante la messa in discussione delle sue categorie e delle sue condizioni d’esistenza.

È già un luogo comune affermare che niente ritornerà ad essere uguale a prima, che non ritornerà lo stato sociale, né il sistema sanitario universale, etc. Le proposte della classe dominante sono così incongruenti che pretendono riprodurre le stesse dinamiche anteriori alla pandemia, che di fatto ci hanno portato alla situazione attuale. Per questo è anche un’occasione per chiederci se è questa sanità, questo stato sociale, ecc. che vogliamo; se la maniera per garantire il sostentamento delle nostre necessità è quella che detta l’economia di mercato attraverso il consumo crescente delle merci. È, come minimo, un’occasione per mettere in questione le pratiche e le categorie interiorizzate nella nostra condizione proletarizzata, in quanto soggetti al capitale.

Per quel che riguarda la forma politica del capitale nell’attualità, possiamo comprovare come la forma della democrazia ereditata dalla rivoluzione borghese si è andata svuotando di contenuto attraverso la progressiva erosione delle libertà formali e dei diritti individuali verso una specie di autoritarismo democratico. In questo senso, la pandemia è un campo di sperimentazione per nuove forme di gestione di massa da parte di applicazioni tecnologiche di vigilanza, così come si fa in Cina e Corea del Sud, per l’identificazione facciale e il controllo delle persone attraverso la telefonia cellulare. Questa liquidazione della democrazia formale risponde chiaramente a una strategia della classe dominante per portare a fine il controllo preventivo e punitivo di coloro che non rispettano l’ordine stabilito nella misura in cui le possibilità di mantenere le aspettative della società dei consumatori sono sempre più limitate.

Corsino Vela è lo pseudonimo di un militante operaio nato in Asturia nel 1953 che risiede attualmente in Catalogna. La sua militanza politica iniziò alla fine degli anni ‘70 nel processo di costituzione del sindacato Confederación Nacional del Trabajo (CNT). È autore dei libri, tutti pubblicati in spagnolo, La sociedad implosiva (Muturreko Burutazioak, 2015), Capitalismo terminal (Traficantes de Sueños, 2018) e del libro collettivo No le deseo un estado a nadie (Pepitas de Calabaza, 2018).

Nata nel 1967 a Buenos Aires, dove tuttora vive. Laureata in Piscologia alla UBA, specializzata in Studi sulla Donna, ha lavorato come ricercatrice, docente e nel campo della comunicazione. È dirigente del Partido de los Trabajadores Socialistas (PTS). Militante di lungo corso del movimento delle donne, nel 2003 ha fondato la corrente Pan y Rosas in Argentina, che ha una presenza anche in Cile, Brasile, Messico, Bolivia, Uruguay, Perù, Costa Rica, Venezuela, Germania, Spagna, Francia, Italia.
Ha tenuto conferenze e seminari in America Latina ed Europa.
Autrice di "Pan y Rosas", pubblicato e tradotto in più paesi e lingue. Ha curato il volume "Luchadoras. Historias de mujeres que hicieron historia" (2006), pubblicato in Argentina, Brasile, Venezuela e Spagna (2006).