Si è tenuto ieri il Consiglio dei Ministri che ha approvato il “decreto rilancio”, una manovra finanziaria che andrà poi ratificata dal Parlamento e che prevede stanziamenti per 55 miliardi in risposta alle difficoltà economiche legate alla crisi pandemica.

 

Un’altra manovra del popolo… cioè delle aziende

Ieri sera, come al solito in diretta Facebook direttamente sul profilo di Giuseppe Conte, il presidente del consiglio, insieme ai ministri Gualteri, Patuanelli, Speranza e Bellanova, ha esposto i contenuti del “decreto rilancio”, un decreto-legge da confermare poi in Parlamento che prevede fondi per un totale di 55 miliardi di euro al fine di contrastare la paralisi temporanea dell’economia nazionale. “Un testo complesso, pari a due manovre” esordisce Conte, visibilmente soddisfatto del risultato: il decreto si compone in effetti di oltre 250 articoli e, come peso economico, è ben superiore alla media manovra finanziaria a cui siamo abituati. Nonostante Conte eviti il parallelo esplicito, si sente profumo di “manovra del popolo” nell’aria.

Una manovra che contiene delle premesse” per il “rilancio” dell’economia italiana: una formulazione, quella del Conte che promette migliori sorti per il paese, che ieri sera si è caratterizzata per una certa prudenza, a fronte di precedenti proclami sensazionali che hanno generato mano a mano risentimento da parte di interi settori dei ceti medio-bassi che hanno constatato in prima persona come non stesse andando “tutto bene” e che la promessa di “zero licenziamenti” fosse una sparata del tutto sprezzante della vita di milioni di lavoratori.

Il presidente, ieri sera, ha limato una certa retorica “romantica” da padre della patria che abbraccia idealmente tutti i suoi figli e che li culla a forza di discorsi edificanti; o meglio, l’ha riversata in parte nella rivendicazione di un piano di misure che finalmente avrebbe cambiato la “fotografia dolorosa del paese”.

Ciò che Conte e gli altri ministri non potevano nascondere è il classismo che, naturalmente, contraddistingue queste misure: l’amoroso pensiero del presidente è stato rivolto in prima battuta agli imprenditori, non ai lavoratori: non riesce inizialmente ad andare più “in basso” della menzione dei lavoratori autonomi che, nella retorica di governo, sono un’unica massa di poveri, senza la benché minima distinzione di reddito e patrimonio fra di loro – una situazione del tutto distante dalla realtà.

Gli altri sono degni d’essere menzionati, ma solo in seconda battuta e come parti sociali passive che il governo benefica dall’alto aspettandosi gratitudine e piena sottomissione alle proprie politiche di segregazione sociale à la Confidustria.

L’esposizione dei ministri parte da un piano dato per scontato che non va nemmeno di sfuggita nominato: le associazioni padronali hanno vinto, Confindustria ha vinto. Le misure di sicurezza sui posti di lavoro sono applicate, se applicate, barbaramente e ad arbitrio dei padroni, e nessuna iniziativa significativa verrà dallo Stato per garantire che fabbriche e magazzini non tornino, o continuino, ad essere dei focolai di contagio del Coronavirus. Tutto il discorso sui settori non essenziali da chiudere o convertire ai fini dello sforzo sanitario è accantonato: la priorità è far sì che le aziende riprendano in massa a fare profitti, che il PIL del 2020 cali il meno possibile, e che tutto questo sia il più possibile a spese dei lavoratori e dello Stato – cioè delle tasse pagate in primis dai ceti bassi, dai lavoratori dipendenti che non possono permettersi l’evasione riservata alle classi sociali sopra di loro. Anzi, Conte ha annunciato entusiasta che le tasse, ben 4 miliardi, saranno abbassate alle aziende!! Con un occhio di riguardo al turismo, alla ristorazione e alle strutture culturali, sperando che il governo Conte possa garantire anche quest’anno una “estate italiana” dove la gente si muova e spenda nonostante il calo spaventoso di reddito per i ceti bassi: addirittura dovrebbe essere messo a disposizione un “bonus vacanza” di 500 euro a famiglia.

Mentre la massa di lavoratori e disoccupati che ha visto diminuire o cessare il proprio reddito, la propria unica fonte di sostentamento, deve continuare a tirare avanti come nulla fosse, con alcune misure tampone, ovviamente non per tutti: fondi in quantità inadeguata per babysitting (sul quale si continua a ignorare qualsiasi discorso di sicurezza per le famiglie) e centri estivi per bambini, 25,6 miliardi di euro tra cassa integrazione e bonus per i lavoratori autonomi (anche per notai e avvocati con mega-studi, perché non si dica che il governo fa distinzioni classiste!); in particolare, Conte ha tenuto a specificare che gli ammortizzatori sociali per i lavoratori vanno visti anche come “ammortizzatori economici” perché servono a preservare “l’efficienza produttiva delle imprese”. Cari lavoratori, ci dice Conte, capite bene: questi sono soldi che in sostanza vi date da soli perché i padroni non devono pagare la loro crisi. E così anche la misura di un reddito di emergenza tra i 400 e gli 800 euro al mese per due soli mesi per le famiglie con ISEE al di sotto dei 15.000 euro non è coperta da una patrimoniale né da qualsiasi altra misura di prelievo sull’immensa ricchezza del 10% più ricco della popolazione.

Gli sgravi per gli affitti e per le bollette ci sono… ancora una volta, per le sole aziende. A fronte della massa di persone che ha perso il lavoro o che comunque non è più nelle condizioni di pagare l’affitto, nemmeno l’ipotesi di una sospensione di pagamento del canone. Al contrario: a mo di presa in giro, Conte annuncia un superbonus per poter ristrutturare nei prossimi mesi la prossima casa con misure “green” pienamente coperte dallo Stato.


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Cassa integrazione, sanità, scuola, agricoltura: tanto rumore per nulla

A voler prendere per buoni i discorsi di ieri sera dei cinque ministri, questo decreto-legge sembrerebbe aprire una stagione di un protagonismo economico-finanziario “progressista”, di richiamo keynesiano, dello Stato italiano, per quanto con la dovuta e sana “cautela”. Tanto è che, nello spazio per le domande dei giornalisti, quando l’inviata del Sole 24 Ore chiede se il governo stia spingendo verso una nuova IRI (il principale ente di gestione delle attività economiche statali nella Prima Repubblica – una corazzata economica) facendo leva sulla Cassa Depositi e Prestiti, Conte e Gualteri sono ricorsi ai ripari per evitare che l’effetto della loro retorica avesse fin troppo successo, provocando una certa, rapida risposta contraria degli industriali.

Il nostro tessuto industriale è tra i più forti d’Europa per la diffusione delle piccole e medie imprese, poco capitalizzate – dice Conte, volendo rassicurare sulla inopportunità dello Stato di sostituirsi ai valorosi borghesi grandi e piccoli nostri compatrioti, e finendo per ribaltare la realtà, rivendicando come punto di forza quello che è diventato nel lungo periodo il tallone d’Achille dell’economia italiana, cioè la dispersione del capitale tra tante aziende che scontano ritardi organizzativi e tecnologici rispetto ai rivali delle altre grandi potenze economiche.

Conte si permette persino una battuta passando la parola al ministro Patuanelli dicendo “forse è lui a favore della collettivizzazione dei mezzi di produzione”: ovviamente no, e la spavalderia con cui si dicono cose del genere, ascoltate da milioni di persone, mostra la consapevolezza del governo della minaccia ancora remota, potenziale, che costituiscono le rivendicazioni anticapitaliste nel movimento operaio.

E dunque, a fronte di questo consenso confindustriale attento anche alle piccole imprese, più che ai lavoratori, quali misure “fondamentali” di welfare sono previste?

Conte rivendica che 4,6 milioni di lavoratori hanno beneficiato della cassa integrazione e del bonus autonomi, seppure con molti ritardi come è costretto ad ammettere lui stesso. Le migliaia di commenti che inondando la bacheca del premier durante la diretta ci raccontato un’altra storia, cioè quella reale: interi settori economici e zone greografiche stanno ancora spettando tutta o parte di questa enorme tranche di cassa integrazione, trovandosi in seria difficoltà a pagare affitti, bollette e altri spese inaggirabili per mantenere le proprie famiglie.

La scuola al centro dell’azione di governo” dice Conte: 1,45 miliardi per la scuola per “un rientro in piena sicurezza, per la digitalizzazione e per esami di maturità in presenza in sicurezza, per stabilizzare il corpo docente”; 16.000 nuovi posti per insegnanti a settembre, per un totale di 78.000 nuovi insegnanti di ruolo da assumere (va da sé che non è chiaro e preciso in quali tempi, mentre è ovvio che le attuali pessime condizioni salariali non si toccano). Con una battuta, si potrebbe replicare a Conte che un miliardo di euro è una goccia nel mare dei tagli precedenti sulla scuola pubblica, e che servirebbe solo per un intervento strutturale sul popolo universitario della Sapienza a Roma, mentre per l’università e la ricerca è previsto un altro miliardo e mezzo (scarso) con l’assunzione di 4.000 ricercatori “con la speranza che tanti nostri giovani trasferiti all’estero possano tornare e fare ricerca in Italia”, senza alcun accenno alle condizioni di lavoro estremamente precarie e spesso inadeguate sul piano della ricerca stessa, che portano appunto molti giovani a tentare questa carriera all’estero.

Similmente all’istruzione, alla sanità arrivano delle briciole che nemmeno in parte possono riparare ai tagli brutali e costanti degli ultimi vent’anni: i 3,5 miliardi annunciati da Speranza come una svolta epocale non sono neanche un decimo dei 37 miliardi tagliati nell’ultimo decennio. “uesti stessi tagli li ha votati spesso la stessa sinistra “democratica e progressista” di cui fa parte Speranza, che è tra i responsabili politici, al pari della destra, della situazione tragica della sanità italiana e del la sua impreparazione di fronte a uno scenario pandemico.

La ministra Bellanova, come e forse più degli altri ministri, ha messo in chiaro che le misure governative servono a ristabilire quanto prima e quanto più estesamente possibile l’attività italiana nel commercio internazionale, a partire dalla difesa delle “eccellenze”, dunque da una serie di attività agricole strategiche per la bilancia commerciale e per la proiezione internazionale del capitale italiana: dunque 1,15 miliardi per la filiera agricola, concentrati per i prodotti “di qualità alta” – l’Italia rialza la testa e si ricorda di essere una potenzia imperialista in grado di avere una presenza offensiva all’estero, quanto meno in certi settori, con esportazioni ad alto margine di profitto.

Ma il rilancio della potenza di fuoco delle aziende agroindustriali lascia spazio anche a un passo “storico” nell’emancipazione della classe lavoratrice e degli immigrati nel nostro paese, o almeno così ci assicura la ministra Bellanova, che non riesce a nascondere un momento teatrale di commozione – veramente disturbante a fronte del suo collocamento apertamente liberale e anti-operaio al fianco di Renzi – che non può che rimandarci a quella della al tempo ministra Fornero che, appunto, piangeva e si preparava a strangolare i lavoratori con la sua riforma delle pensioni.

La Bellanova annuncia 250 milioni di euro destinati al “fondo degli indigenti”, alle “nuove fragilità”: un modo per far pagare allo Stato beni alimentari che in ogni caso sarebbero andati buttati, con la possibilità di margini economici per i settori di volontariato coinvolto. Ma il piatto forte è quando annuncia che “gli invisibili saranno meno invisibili”, che il regime del caporalato e delle false cooperative non potranno più sfruttare come prima gli immigrati esposti al ricatto del rinnovo del permesso di soggiorno: “lo Stato è più forte della criminalità, lo Stato è più forte del caporalato”. In cosa consisterà questo “stato d’assedio contro il caporalato” non è dato sapere, e staremo a vedere come il governo intenda ribaltare decenni di politiche dalla parte degli agrari del centrosinistra (al governo c’è pur sempre il PD, non i bolscevichi russi) e stroncare una piaga che fino a oggi è stata ignorata o affrontata in modo del tutto estetico, salvando le apparenze dell’idilliaca produzione delle “eccellenze” agricole italiane, ed evitando di toccare un nodo sensibile che lega capitale agrario, mafia e tratta internazionale dei migranti.

Mussolini a suo tempo, attaccando in modo spettacolre una contraddizione sociale assolutamente irrisolvibile dalla società borghese e dal suo Stato, diede “pieni poteri” (come piace a Salvini) al “prefetto di ferro” Cesare Mori che pose effettivamente in stato d’assedio la Sicilia, con una vera e propria campagna militare contro le cosche di Cosa Nostra che, appunto, non poteva vincere contro le radici socio-economiche della borghesia mafiosa siciliana. Cosa intende fare l’ex-burocrate della CGIL Bellanova, a fronte di un intero regime economico basato sullo sfruttamento differenziato tra lavoratori di serie A, B, C… dove gli immigrati hanno meno diritti sindacali e politici proprio per essere sfruttati di più e meglio?

 

La loro soluzione alla loro crisi: e la nostra?

Conte, lo abbiamo scritto, è molto più preoccupato che le progressive riaperture scatenino una nuova ondata di focolai difficile da controllare, che il movimento operaio rilanci la sua lotta contro questa soluzione confindustriale della crisi, che è una crisi economica dei capitalisti accelerata dalla pandemia ma che già da tempo covava e correva verso una nuova recessione mondiale, ora palesemente in atto.

Nonostante il volto rassicurante da padre della patria al di sopra delle classi, quella del governo Conte è una politica che, seppure passo-passo e con contraddizione, vuole approfittare della quarantena per verificare quante delle libertà individuali e collettive possono essere abolite “temporaneamente” senza suscitare un’indignazione di massa ed eventualmente fenomeni di ribellione. Abbiamo già argomentato come, specie nel contesto di una crisi come questa, sia la classe lavoratrice a trovarsi in prima linea e ad avere la forza per porsi alla testa del rifiuto della militarizzazione della società e della quarantena organizzata con un livello di risposta sanitaria che per certi aspetti è medievale. Un programma alternativo a quello del governo e di Confindustria, che fa pagare a noi la loro crisi, può essere rivendicato e agitato dal movimento operaio, facendo nostre le esigenze della grande massa della popolazione che si sta impoverendo ancora di più. In questa direzione, come FIR e Voce delle Lotte, abbiamo partecipato alla discussione su un programma d’emergenza e rivendichiamo la più ampia unità d’azione possibile e un fronte unico della classe operaia per lottare insieme contro questa fase 2 di “rilancio” tutto a spese di lavoratori e lavoratrici.

 

Giacomo Turci

Nato a Cesena nel 1992. Ha studiato antropologia e geografia all'Università di Bologna. Direttore della Voce delle Lotte, risiede a e insegna geografia a Roma nelle scuole superiori.