Dopo 12 giorni dall’inizio della fase due il governo Conte si trova alle strette. Non potendo più giustificare che la vita delle persone sia messa a rischio solo per i profitti della borghesia, con la retorica di “far ripartire l’economia”, obbligando di punto in bianco centinaia di migliaia di lavoratori a tornare a lavoro rischiando di acuire il contagio, Conte dà il via libera agli spostamenti liberi all’interno delle regioni; senza togliere, però, la possibilità di essere sanzionati fino anche a 3.000 euro.


Le premesse traballanti della “vera fase due”

Il 4 maggio è stata avviata la fase due del governo Conte che decretava la riapertura di tutte le grandi industrie che, però, nella realtà avevano in molti casi (specie in Veneto) riaperto la produzione affidandosi al decreto che permetteva ai posti di lavoro che lo richiedevano di riaprire dopo due mesi in caso di “silenzioso assenso” da parte della prefettura di competenza. Ingranaggio che ha oggettivamente dettato l’agenda politica di riapertura del governo che, inoltre, con questo meccanismo ha assecondato felicemente gli interessi degli imprenditori.
Una politica che non è stata affatto favorita da una diminuzione netta dei contagiati e dei morti, infatti, come si può leggere anche dal bollettino della protezione civile aggiornato ai primi giorni di riapertura della fase due (5 maggio), quando i contagi non si erano affatto arrestati:

In Italia, dall’inizio dell’epidemia di Coronavirus,almeno 213.013 persone hanno contratto il virus Sars-CoV-2(1.075 in più rispetto a ieri, per una crescita dello 0.5%; ieri +1.221). Di queste, 29.315 sono decedute (+236, +0.8%; ieri +195) e 85.231 (+2.352, +2.8%; ieri +1.225) sono state dimesse. Attualmente i soggetti positivi dei quali si ha certezza sono 98.467 (il conto sale a 213.013 — come detto sopra — se nel computo ci sono anche i morti e i guariti, conteggiando cioè tutte le persone che sono state trovate positive al virus dall’inizio dell’epidemia). I dati sono stati forniti dalla Protezione civile.

 

Se si pensa alla dinamica innescatasi in Emilia-Romagna, e in tutte le zone più industrializzate d’Italia, in cui si è diffuso maggiormente il contagio causando un particolare aumento dei morti, a causa proprio della mancanza di sicurezza, di distanziamento tra i lavoratori e di assenza dei necessari DPI sui posti di lavoro, si può facilmente intuire che una politica di riapertura delle grandi industrie e di allentamento della quarantena affinché si potesse tornare a lavorare – e solo per quello! – è stata una partita a scacchi con la morte che ha messo a rischio non solo la salute di centinaia di migliaia di lavoratori ma anche quella di tutti noi.
Questa è solo l’evidenza di come questo governo non ha mai lavorato avendo un interesse reale per la vita di questi lavoratori, ma badando solo agli interessi del capitale industriale, delle banche, in nome del profitto.
In questo contesto di
disinteresse o addirittura di contrarietà rispetto alle evidenze scientifiche, il Governo ha sminuito il rischio di poter provocare una nuova ecatombe sui posti di lavoro facendo eco a Confindustria.

 

‘Più libertà’… a che prezzo?

Ci stiamo per affacciare, così, alla “vera fase due” dove, dal 18 maggio, è restituita la libertà di spostamento all’interno della regioni, con la relativa possibilità di riapertura di locali, ristoranti e di tutte le piccole imprese come parrucchieri, estetisti, ecc. Nonostante i contagi effettivamente stiano calando, la situazione non può essere ritenuta ancora del tutto sotto controllo, e se c’è stato quest’ulteriore piccolo tana libera tutti da parte del governo è solo perché ormai era insostenibile permettere gli spostamenti esclusivamente per andare a lavoro, rischiando la propria vita per il profitto di altri, e impedire ai piccoli commercianti di riprendere la loro attività condannandoli a “morte” certa.
Si legge, infatti, nell’ultimo decreto-legge varato il 16 maggio:

A decorrere dal 18 maggio 2020, cessano di avere effetto tutte le misure limitative della circolazione all’interno del territorio regionale di cui agli articoli 2 e 3 del decreto-legge 25 marzo 2020, n. 19, e tali misure possono essere adottate o reiterate, ai sensi degli stessi articoli 2 e 3, solo con riferimento a specifiche aree del territorio medesimo interessate da particolare aggravamento della situazione epidemiologica.


Nonostante ciò, fino al 2 giugno, però, restano vietati gli spostamenti, con mezzi di trasporto pubblici e privati, in una regione diversa rispetto a quella in cui attualmente ci si trova, così come quelli da e per l’estero, salvo che per comprovate esigenze lavorative, di assoluta urgenza o per motivi di salute -resta in ogni caso consentito il rientro presso il proprio domicilio, abitazione o residenza.
Il governo, però, non si dimentica comunque di mantenere in piedi il suo assetto poliziesco, mantenendo un clima di paura e mancanza di chiarezza, non facendo un passo indietro sulle sanzioni, che ammontano ancora a cifre improponibili e che vengono rilasciate a totale discrezione degli agenti, soprattutto, in questa seconda fase, ai danni delle strutture che non si forniranno delle procedure di sicurezza esposte nel decreto.
Per garantire lo svolgimento in condizioni di sicurezza delle attività economiche, produttive e sociali, le regioni dovranno monitorare con cadenza giornaliera l’andamento della situazione epidemiologica nei propri territori e, in relazione a tale andamento, le condizioni di adeguatezza del sistema sanitario regionale. I dati del monitoraggio saranno poi giornalmente comunicati dalle regioni al Ministero della salute, all’Istituto superiore di sanità e al Comitato tecnico-scientifico. In relazione all’andamento della situazione epidemiologica sul territorio poi la singola regione, informando contestualmente il Ministro della salute, potrà introdurre misure ampliative o restrittive rispetto a quelle disposte a livello statale.

Bisogna affrontare di petto la crisi… a differenza del governo!
I due decreti-legge emanati dal governo la scorsa settimana, quello finanziario e questo “logistico”, confermano che non c’è alcuna ossessione da parte dello Stato, se non nei discorsi appassionati di Conte, nella risoluzione della crisi pandemica. Se così fosse, non si sarebbe badato a spese e si sarebbero usati metodi straordinari per mettere la sanità italiana nelle condizioni migliori per fronteggiare il contagio; non si sarebbe proceduto con una politica di tamponi “col contagocce” e con spazi significativi per i privati anche in questo campo; non si sarebbe posta la ripartenza del PIL prima del diritto alla salute e alla sicurezza del popolo lavoratore. Che dire poi dell’esclusione a priori di qualsiasi ipotesi di prelievo dai patrimoni della popolazione ricca? “I soldi non ci sono”: certo, se non li si va mai a prendere dove sono concentrati! E così, anche questa volta i partiti “progressisti” e “del popolo” stanno facendo pagare la crisi ai lavoratori, alla popolazione povera, e anche a una pletora di microimprenditori che, specie nel caso del M5S, hanno costituito la base elettorale “strategica” del partito di governo.


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Un programma alternativo non è solo pensabile, è del tutto possibile: assunzioni a tempo indeterminato del personale sanitario in base al bisogno, tamponi di massa e periodici per isolare i focolai, patrimoniale sui grandi patrimoni per finanziare lo sforzo sanitario straordinario, diminuzione dell’orario di lavoro a parità di paga, anche per migliorare le condizioni di sicurezza sui posti di lavoro, eccetera.

Questo programma non può essere avanzato dai partiti che si piegano alla dittatura degli industriali: sono quelli che si sono ribellati con forza alla “cura medievale” dettata da Confindustria, dagli agrari, dalle multinazionali rapaci, a poter avanzarlo, cioè i lavoratori e le lavoratrici, a partire da quelli che si sono trovati in “prima linea” nei settori essenziali – essenziali per davvero.

Il governo Conte vuole garantire una “estate italiana” a spese nostre: esigiamo un’uscita vera e definitiva dalla crisi pandemica, al contrario, ma pagata dai capitalisti.

Le nostre vite valgono più dei loro profitti!

 

Scilla Di Pietro

Nata a Napoli il 1997, già militante del movimento studentesco napoletano con il CSNE-CSR. Vive lavora a Roma. È tra le fondatrici della corrente femminisa rivoluzionaria "Il Pane e Le Rose. Milita nella Frazione Internazionalista Rivoluzionaria (FIR) ed è redattrice della Voce delle Lotte.