La strategia dell’”effetto gregge”, con praticamente zero misure di prevenzione del contagio da Covid-19, ha portato la Svezia, com’era prevedibile, a un tasso di mortalità particolarmente alto, tutto a beneficio dell’attività delle aziende, rimaste tutte aperte.


Colti forse da un eccessivo ottimismo, molti avevano creduto che lo stato d’eccezione causato dall’epidemia sarebbe significato una vittoria del razionalismo scientifico sull’irrazionalismo. Purtroppo le cose non sono così semplici. Il progresso scientifico all’interno del capitalismo è infatti fortemente limitato dagli stessi fattori che limitano lo sviluppo umano più in generale: interessi economici di classe, spiriti nazionalisti fomentati ad arte e lanciati l’uno contro l’altro, eccetera.

Gli ”irrazionalisti” in questo caso sono rappresentati (anche) da coloro i quali difendono la Svezia come anti-modello italiano. Qui sulla Voce delle Lotte abbiamo incessantemente criticato il ”modello italiano” di gestione della pandemia da un punto di vista marxista rivoluzionario: abbiamo denunciato, ad esempio, come il mito del ”lockdown totale” fosse una farsa, in quanto lavoratori di certi settori non essenziali fossero mandati in fabbrica (senza protezioni!), infermieri e medici dovessero sostenere turni estenuanti a causa di mancanza di risorse e assunzioni e, infine, la colpevolizzazione dei singoli (ad esempio i runner) da parte dei media e di molti cittadini non fosse altro che una mistificazione ideologica per coprire le mancanze dello Stato (borghese) nella gestione della pandemia.

Nel corso di questa ”fase 2”, mentre la crisi pandemica e sanitaria sta gradualmente (e forse solo temporaneamente) diventando un ricordo e quella economica si è già affacciata, alcuni continuano a vedere nella Svezia un modello da imitare. Così come abbiamo criticato il “modello italiano”, abbiamo anche parlato dell’eccezionalismo svedese: di come, cioè, in Svezia la fiducia dei cittadini nelle (totalizzanti, secondo diversi osservatori) istituzioni socialdemocratiche sia così elevata da non richiedere nemmeno la finzione (populistica) del lockdown: ai cittadini svedesi é bastato far credere che la Scienza (con la ”s” maiuscola) svedese dell’epidemiologo di Stato Anders Tegnell fosse l’unica vera scienza e che gli altri Paesi, che invece di imparare a convivere con il virus tentavano (sia pure nei limiti possibili all’interno dell’economia capitalista e di tutte le sue contraddizioni) di sconfiggerlo, stavano sbagliando. Abbiamo, tra le altre cose, denunciato i toni nazional-sciovinisti di questa retorica. Ma cosa implicava e implica esattamente la ”scienza” del modello svedese? Nella pratica, l’obiettivo di raggiungere l’immunità di gregge (ufficialmente negato, anche se più di una volta Tegnell ha ammesso che “sebbene non sia la nostra strategia, potrebbe essere una conseguenza non-intenzionale della, nostra strategia”: traduzione: in pratica, è la nostra strategia). Quando, in una delle più recenti conferenze stampa, a Tegnell è stato chiesto di commentare un nuovo studio spagnolo che confermerebbe quanto già sostenuto da buona parte della comunità scientifica (non svedese), e cioè che l’immunità di gregge non è una buona idea, la risposta è stata che non si conoscono i dettagli di quello studio e che comunque è relativo alla Spagna e non alla Svezia (difficile qui non assumere una buona dose di quel “nazional-sciovinismo di sinistra” di cui ho scritto poc’anzi, se infatti lo studio provenisse da un Paese più serio e ”rispettabile” dal punto di vista svedese, ad esempio, un altro Paese scandinavo, possiamo speculare che Tegnell avrebbe avuto più difficoltà nel liquidarlo così facilmente). Non é un caso che Tegnell e le altre autorità svedesi, per quel che ne sappiamo, abbiano evitato di commentare la notizia per cui la Danimarca ha già fissato una data per la riapertura delle frontiere alla Germania, ma non alla Svezia (forse perché considerano la Svezia irresponsabile?). Le preoccupazioni della Danimarca (e degli altri paesi scandinavi) sono sostenute da due statistiche che, per quanto basate su calcoli imperfetti, stanno facendo in questi giorni scalpore all’estero – all’interno della Svezia, come al solito, il silenzio è d’oro quando qualcosa va male: la prima afferma che, in termini di numero di morti, la Svezia è il Paese scandinavo con più morti e contagiati; il 21 maggio, ad esempio, la Svezia contava quasi 4.000 morti per Coronavirus, la Norvegia appena 235. Difficile stabilire se questo scarto sia dovuto al fatto che la Norvegia, a differenza del laissez faire svedese, abbia imposto un lockdown simile a quello della Germania (ma comunque molto meno restrittivo di quello dell’Italia) oppure se sia stato determinante il fatto che gli ospizi norvegesi godono di “maggiore salute” (e cioè i lavoratori sono meglio pagati, meglio formati e non costretti a usare carta igienica al posto di mascherine!). In ogni caso, questo primo dato è il più affidabile perché compara il numero di morti e contagiati tra Paesi vicini e sopratutto estremamente simili in termini di organizzazione sociale, tratti antropologici e culturali e demografia (la Norvegia come la Svezia ha una bassa intensità demografica, un alto numero di persone e anziani soli e famiglie mononucleari e una vita sociale a “bassa intensità” rispetto ai Paesi mediterranei, tutti “fattori di partenza” che depotenziano la propagazione del virus). Per queste ragioni, ha senso inferire dal primo dato che qualcosa sia andato storto nella “strategia svedese”. Il secondo dato, quello che più sta facendo scalpore all’estero, è meno affidabile ma certamente non del tutto insignificante (come il governo di Stoccolma vorrebbe far credere): nella settimana tra il 13 e il 20 maggio la Svezia è stato il Paese al mondo con più morti pro capite per Coronavirus: 6.08 per milione di abitante, mentre Gran Bretagna, Belgio e USA avevano rispettivamente 5,57, 4,28 e 4,11. Va da sé che la veridicità di questo dato dovrebbe implicare che Gran Bretagna, Belgio e USA abbiano metodi statistici di conta dei morti per Covid-19 analoghi a quelli della Svezia, il che non è necessariamente vero. Tuttavia, anche se la Svezia avesse ipoteticamente meno morti pro capite di questi tre Paesi, rimarrebbe comunque nella top list dei Paesi con più morti, nonostante le condizioni socio-antropologiche favorevoli, in parte dimostrate dall’enorme distacco con gli altri Paesi scandinavi: da questo si può intuire che se la strategia svedese fosse stata applicata all’Italia, ad esempio, i risultati sarebbero stati catastrofici.

Quali sono le condizioni materiali dalla quale la narrazione ”scientifica” svedese scaturisce? Oltre al fattore culturale dell’eccezionalismo (che può essere interpretato come una sorta di “complesso di superiorità” difficile da ignorare e che accompagna l’intera Storia svedese), ciò che forse è ancora più rilevante è che il sistema sanitario svedese è peggiore di quello italiano, sia in termini di risorse, ma soprattutto in termini di competenze: provate a chiederlo a chiunque abbia avuto a che fare con esso e a tutti gli immigrati in Svezia costretti, laddove se lo possano permettere, a brevi soggiorni nel proprio paese di provenienza per ottenere cure decenti. La Svezia possiede 570 respiratori (erano 4.300 nel 1993!!!), per intenderci la metà dell’Italia in rapporto alla popolazione. Per questa ragione, come più volte denunciato dal ricercatore italiano a Umeå Simone Scarpa sul suo profilo Facebook, moltissimi anziani si sono visti negare l’accesso alle cure anche laddove ci fosse disponibilità di posti letto. Il seguente grafico, di cui riportiamo a seguire l’illustrazione di Scarpa stesso, è molto chiaro.

“La colonna rossa sono i decessi, per fascia d’età (dato cumulativo fino ad oggi).
La colonna arancione sono i pazienti in terapia intensiva, per fascia d’età (dato cumulativo fino ad oggi). Quindi per esempio:
– Tra gli 80-89 anni sono morte 1585 persone, ma solo 87 hanno ricevuto cure in terapia intensiva;
– Tra i 70-79 anni sono morte 858 persone, ma 446 hanno ricevuto cure in terapia intensiva.
Fino ad oggi ci sono sempre stati posti disponibili nei reparti di terapia intensiva”.

Riassumendo, ciò che caratterizza il comportamento della Svezia, a dispetto della sua fama rispetto a un welfare universale ed efficiente, è proprio l’assenza di Stato. Coloro che, a ragione, denunciano la gestione italiana della pandemia per aver colpevolizzato i singoli e aver istituito una sorta di “fascismo sanitario”, non dovrebbero dimenticare che difendere la Svezia significa difendere l’avanguardia di un modello dove un’astratta ”libertà individuale” di tutti i cittadini è più importante persino della salute pubblica e dove una minoranza (gli anziani e i pazienti a rischio) è sacrificabile in nome della “libertà” (di produrre e consumare) della maggioranza. Volendo utilizzare la metafora della guerra, difendere il modello svedese perché non ha commesso gli stessi errori di quello italiano (ma ne ha commessi altri) è come sperare nella vittoria di una potenza contro un’altra con il motivo che “gli altri sono reazionari, ma in un modo più accattivante”, accettandone la brutalità.

Concludiamo questa riflessione con una citazione dello stesso Scarpa:

<<Durante la pandemia l’immagine internazionale della Svezia si è radicalmente trasformata. Quel modello svedese che ha lungamente rappresentato una specie di “utopia” realizzata per i progressisti degli altri paesi occidentali non esiste più. È stato sostituito da un “mito sociale” svedese, soreliano e un po’ nichilista.
Secondo Georges Sorel, l’utopia è un costrutto sostanzialmente razionale, quasi scientifico. L’utopia prefigura un modello di società ideale che è anche il fine ultimo da realizzare. Il mito sociale è invece una costruzione irrazionale, fondata su suggestioni e immagini invece che su argomenti analitici. Mentre il fine dell’utopia è predeterminato (appunto: la realizzazione dell’utopia stessa), il mito sociale serve ad eccitare e mobilizzare le masse, ma il suo fine ultimo resta del tutto indeterminato.
Prima della pandemia, grazie agli alti livelli raggiunti di eguaglianza e sviluppo sociale, la Svezia è stata tradizionalmente vista come l’Utopia Socialdemocratica, e ha talvolta rappresentato un metro di paragone per gli altri paesi occidentali. Per citare Sorel, la Svezia è stata vista come il “modello al quale si possono paragonare le società esistenti per valutare il bene e il male che contengono”.
Durante la pandemia, la Svezia non si è affatto presentata al mondo come un’utopia, per esempio per quanto riguarda l’efficacia e l’adeguatezza degli interventi sanitari. Anzi, all’inizio della pandemia, politici e tecnocrati non si sono fatti problemi a riconoscere che decenni di politiche di austerità avevano ormai smantellato la sanità svedese. Vi sono meno posti nei reparti di terapia intensiva che negli altri paesi europei, mancano i respiratori e stanno addirittura finendo le scorte di anestetici e ossigeno. Siamo costretti al razionamento. Alcuni ospedali utilizzano da tempo gli anestetici per animali con i pazienti malati di Covid-19 e somministrano la morfina a quelli più anziani, proprio per risparmiare le scorte di ossigeno (e tenere in questo modo posti liberi per i pazienti più giovani negli ospedali).
Allo stesso tempo, le autorità svedesi hanno creato un nuovo mito sociale, il mito sociale della Strategia Svedese. Si tratta di una strategia basata su una mistica volontaristica dell’azione per l’azione. Qui in Svezia abbiamo affrontato la pandemia senza ricorrere allo stato forte e interventista (e potenzialmente indebitato). Schierandosi contro gli Eurobond, il governo svedese ha anche preso una posizione chiara e netta contro ogni ipotesi di gestione pubblica dell’epidemia all’interno dell’UE. Qui in Svezia la gestione dell’epidemia è stata demandata alle azioni individuali, e cioè privatizzata.
Raggiungeremo in questo modo l’immunità di gregge? Non lo sappiamo, non possiamo saperlo e non ci interessa. Piegheremo e domeremo la pandemia senza mascherine e senza guanti, e se è necessario anche senza sanità pubblica, a mani nude. L’azione è tutto>>.

 

Matteo Iammarrone

Nato a Torremaggiore, in Puglia, nel 1995, si è laureato in filosofia all'Università di Bologna. Dopo un master all'Università di Gothenburg (in Svezia), ha ottenuto un dottorato nella stessa città dove tuttora vive, fa ricerca e scrive come corrispondente de La Voce delle lotte.