In una delle dimostrazioni più radicali di forza del movimento Black Lives Matter, a Seattle, i collettivi aderenti hanno stabilito un perimetro nel quale una nuova, vivace forma di protesta potrebbe cambiare il modo di pensare questa rivolta.

Seattle è una città con una storia molto particolare, nel quadro del movimento operaio statunitense; focolaio di scioperi guidati dall’allora influente IWW (Industrial Workers of the World, il principale sindacato di riferimento dell’anarchismo americano novecentesco) all’inizio del ‘900, mossi dal fervore post-rivoluzionario bolscevico, con un caso particolare in cui i portuali si rifiutarono di caricare le navi di armamenti per l’Armata Bianca. Anche nelle fila del tradizionale sindacato dell’AFL (American Federation of Labor), si parlava un linguaggio ben diverso, più radicale, rispetto a quello della dirigenza, linguaggio che avrebbe aiutato a fare da ponte per creare strutture di sciopero intersindacale in maniera ben più netta e decisiva rispetto ad altre zone degli Stati Uniti, come ad esempio sulla costa Est, dove questioni di matrice etnica, religiosa e burocratica tenevano separate le varie fasce della classe operaia locale. Il culmine di questo fermento si raggiunse nel 1919, con il grande sciopero generale che scosse le fondamenta stesse dello stato borghese, ovunque si trovassero, addirittura ponendosi alla cima delle ragioni per la creazione dell’Overman Judiciary Subcommittee, un comitato senatoriale di investigazione di supposto operato di “spie tedesche bolsceviche” su suolo americano. Un comitato che, di diversi anni, avrebbe anticipato gli anni bui del maccartismo nixoniano. Il sindaco Ole Hanson, che represse le proteste, ci tenne a sottolineare fino alla morte che la natura solidale e fondamentalmente pacifica dello sciopero diede un carattere potenzialmente rivoluzionario al fermento, aldilà di ogni retorica paranoica conservatrice o liberale. La spinta progressista di Seattle, e di tutto lo stato di Washington, puntellò la storia dell’area nordoccidentale degli Stati Uniti per quasi un secolo: dopo i difficili anni della repressione dei movimenti per i diritti civili e i movimenti pacifisti degli anni sessanta e settanta, fu proprio Seattle a lanciare un nuovo grido di guerra contro il capitale e i suoi sgherri, nel 1999, quando la World Trade Organization portò il suo tavolo di discussione delle politiche per il nuovo millennio proprio nella città più grande dello stato di Washington. Quella che passò alla storia come “la battaglia di Seattle” fu il primo colpo di cannone verso la narrazione pubblica che ancora voleva negare l’impatto globalmente negativo della globalizzazione di stampo capitalistico, e fu strumentale nella nascita del World Social Forum, decisivo nell’organizzazione di un dibattito di opposizione globale per il secolo nascente, per quanto la sua eventuale degenerazione lascia ad oggi molte domande sulle possibili direzioni che si sarebbero dovute prendere a un certo punto. Se suona familiare come nome, è utile sottolineare come tutti i Social Forum tenuti dal ’99 ad oggi, da Genova a Sao Paulo, si collocano sotto l’ombrello organizzativo e simil-ideologico del WSF. Chi oggi si dice “figlio di Genova”, con tutto il dolore e le conseguenze del caso, è realmente un figlio di Seattle.

Non c’è da stupirsi, quindi, che come in tutta la nazione l’omicidio di George Floyd ha acceso i fuochi di una protesta contenuta da lungo tempo, pur con occasionali (e, se andiamo a vedere con senso di progressione storica, incrementalmente più esplosive) ondate locali o regionali, Seattle, pur essendo una città al 66% bianca, in uno stato al 79.5% bianco, ha risposto prontamente alla chiamata per una reale proposizione di giustizia sociale, sfilando, nelle figure dei membri della sua comunità operaia, studentesca, migrante, indigena, latina e, ovviamente, nera, per le strade, fronteggiandosi giorno dopo giorno con la polizia, in scontri sempre più violenti. Il sette giugno scorso, dopo una giornata di presidio nelle strade del centro, con conferenze da parte di leader locali appartenenti a diverse organizzazioni sindacali e politiche, gli scontri si sono intensificati, culminando in una sparatoria causata da un suprematista che ha investito con la sua automobile i manifestanti presenti sul luogo e ha aperto il fuoco dal finestrino con una pistola, ferendo un ragazzo di ventisette anni.

Qui, però, comincia a succedere qualcosa di imprevisto, nella storia che eventualmente dovremo raccontare per decenni, quando la polvere si sarà posata anche solo momentaneamente.

Nonostante, infatti, la risposta all’accaduto da parte del dipartimento di polizia di Seattle fosse l’uso copioso di spray al peperoncino e gas CS (che, non ci stancheremo mai di ripetere, è un’arma proibita all’uso anche in condizioni di guerra aperta dalla convenzione di Ginevra), indicando come realmente la polizia non avesse alcun interesse nel difendere i manifestanti, quanto nell’utilizzare il pretesto dell’attentato per far sparire il problema della manifestazione e riportare all’ordine una città che, di ordine, ne aveva visto ben poco da ormai due settimane. Ma la folla non si disperde. I compagni si organizzano e respingono assalto dopo assalto della polizia, giorno dopo giorno, costruendo barricate sempre più espansive attorno a blocco residenziale dopo blocco residenziale, fino ad accerchiare sei blocchi della Capitol Hill, un quartiere residenziale centrale vicino alla sede del consiglio comunale. Un quartiere difficile, espressione perfetta della duplice dinamica “entrata-uscita” della gentrificazione di stampo americano, ma al tempo stesso storico punto di ritrovo della comunità queer della zona (di seguito, un blog di riferimento della comunità per capire e vedere le attività e i pareri dei residenti locali su tutto quanto sta accadendo). Alle barricate, seguono cataste di cibo e acqua, risorse mediche, punti di ritrovo per solidali e giornalisti.

Ufficialmente, la CHAZ (Capitol Hill Autonomous Zone) nasce l’otto di Giugno, con la ritirata strategica da parte delle forze dell’ordine dall’East Precinct, la sede di quartiere della polizia. Conquistato il distretto, i manifestanti hanno progressivamente cominciato ad organizzare riunioni per coordinare gli sforzi da compiere nelle giornate successive: un giro di conferenze di leader locali, come l’insegnante Nikkita Oliver e la consigliera cittadina Kshama Sawant, socialista, dell’International Socialist Alternative, hanno portato al fiorire di decine di iniziative comunitarie rassomiglianti esperimenti, come potrebbe accadere nei nostrani CSOA o le TAZ olandesi e tedesche, ma applicate su una scala di quasi sei blocchi abitativi che includono il distretto e un campo da baseball, convertito in un centro di attività ricreative e di ristoro. Da subito, molti negozi e ristoranti del luogo si sono attivati per rifornire gli occupanti (in realtà, era già da prima della proclamazione della CHAZ, come ci racconta “maieutic”, un residente di King County che sceglie di raccontarci quanto sa sotto questo pseudonimo, e che specifichiamo per correttezza non è stato presente dopo la proclamazione ufficiale dell’occupazione della Zona, l’8 di Giugno, che queste forme di mutuo sostegno stavano venendo praticate nel quartiere, con anche distribuzione di cibo ad ogni angolo della strada e rifornimenti portati da camion. Questa versione è anche confermata da questo articolo). La prima notte di occupazione ha visto la proiezione gratuita, autorizzata e raccomandata dalla stessa regista Ava Duvernay, del documentario “13th”, sulla storia del tredicesimo emendamento della costituzione americana, e della sua forma propriamente discriminatoria, che ha gettato le basi per lo sfruttamento di massa del lavoro carcerario per come lo conosciamo oggi. Nelle giornate a seguire, le attività culturali si sono intensificate, e l’organizzazione collettiva ha cominciato a prendere via via forma, anche attraverso una lista di rivendicazioni stese tra l’otto e il dieci, con proposte politiche di spessore, come l’abolizione del Dipartimento di Polizia di Seattle, la fine della “school to prison pipeline” (il processo attraverso il quale giovani uomini e donne appartenenti a minoranze vengono indotti attraverso una serie di brutali meccanismi sociali ad entrare a far parte della forza lavoro carceraria, spesso per la vita), l’introduzione di un tetto sugli affitti funzionale ad un processo di “de-gentrificazione” della metropoli di Seattle, e tante altre idee che vanno a toccare criticità di ogni tipo che affliggono da decenni ormai questa comunità. Questa, come moltissime altre negli Stati Uniti.

È proprio, forse, per via del potenziale di immaginario di questa esperienza, che i media di destra hanno subito cercato di seminare discordia e menzogne su quanto stava accadendo. Tutto è partito con un tweet, come solitamente accade, della polizia di Seattle su “voci di estorsione a danno dei commercianti locali”. Una notizia che ha creato una catena di voci arrivate fino al presidente degli Stati Uniti, il quale ha ricondiviso la notizia, rimbalzando utili link al profilo della polizia e di altri outlet e giornalisti reazionari. Peccato che la polizia stessa si sia smentita un giorno dopo, con addirittura una giornalista di The Hill costretta a ritrattare un suo articolo dopo aver, stavolta realmente, intervistato alcuni dei piccoli proprietari presenti sul posto che hanno prontamente negato le accuse. Un’altra serie di tweet, poi, ha cominciato a girare su mancanze di cibo, stupri e violenze, anch’essa diffusa in ogni angolo della rete, apparentemente stesi da un profilo (ora privato) il quale dichiaratamente sarebbe appartenuto a una “leader di BLM”. Anche in questo caso, niente di più falso, dopo che da un altro profilo la persona stessa aveva dimostrato come gli screenshot fossero stati costruiti con strumenti di modifica visuale, liberamente usufruibili da chiunque. Il danno sembrerebbe fatto: uno potrebbe pensare ad un errore innocente, nato da reportage vaghi su una situazione più unica che rara. Ma l’indicatore definitivo che ci sia intento malizioso è nella rappresentazione assurda che il rapper locale Raz Simone ha dovuto subire dall’inizio dell’occupazione. Un membro conosciuto della sua comunità, aveva aiutato nel tenere in sicurezza l’area immediatamente perimetrale alla stazione di polizia, facendo però uno scivolone nel momento in cui ha dichiarato (in un discorso poi decontestualizzato preso da uno stream dell’attivista e collaboratore di Converge Media Omari Salisbury, che sta documentando la vita nella CHAZ da tre giorni ormai) come fosse la comunità stessa, ora, ad essere la polizia, usando però il termine “we”, “noi”. Subito, gli outlet conservatori ci si sono buttati a pesce, creando l’immagine di un vero e proprio “signore della guerra”. La sua colpa? Aver strattonato un ragazzo che stava facendo un murales sulla facciata di un negozio solidale (stava anch’esso rifornendo da giorni i manifestanti) che aveva chiesto fosse lasciato intonso. Mentre è vero che Raz Simone e i suoi compagni sono armati, la questione dell’autodifesa sembrerebbe un argomento naturale di cui occuparsi in un contesto del genere. In realtà, Simone ha sempre smentito, successivamente, che volesse autoproclamarsi  “poliziotto” dell’area, e quanto affermano gli abitanti della zona sembra confermare che “atti intimidatori”, come descritti da Trump, di “bande armate di anarchici” siano quanto di più lontano dalla realtà, specie dopo nove giorni di violenza distruttiva che hanno sconvolto il centro cittadino dall’inizio generale delle rivolte. Non bastano, però, le conferme della sindaca Jenny Durkin e del Governatore dello Stato di Washington Jay Inslee sul fatto che la situazione sia pacifica e controllata: è guerra aperta contro la CHAZ, in ogni campo possibile dell’informazione. Tutti i video e le testimonianze dirette che escono dall’area sono, al contrario, di un clima di pacifica quanto determinata discussione politica comnitaria. E questo spaventa, spaventa molto. Perché la prospettiva di una sempre maggiore organizzazione pone delle premesse davvero importanti per il movimento su scala nazionale. Sulla vicenda, chi è realmente li’, come un abitante dallo pseudonimo di IGD racconta al blog itsgoingdown.org in un’intervista, afferma che: “Ci sono così tante persone attive in questo movimento che sta diventando complesso mappare ogni singolo modo in cui queste affermazioni stanno ottenendo risposta. Dipende anche molto dalla prospettiva in cui guardi. Possiamo notare come chi assurge al ruolo di “leader” è soltanto un approfittatore, ma ci sono altri che rivedono negli anarchici questa natura. La nostra risposta, in generale, è stata quella di essere sempre presenti sul posto, con la preparazione e i testi e le informazioni necessarie e prontamente accessibili da tutti coloro che fossero interessati, e spendendo notti intere a confrontarci con la “peace police” [liberali che vogliono impedire il confronto fisico con polizia e Guardia Nazionale e sabotare il dibattito radicale, ndr] e ad aiutare i medici sul campo a fare il loro lavoro; sostenendo le evasioni carcerarie dei nostri compagni, ma fondamentalmente conversando e stringendo importanti alleanze per dare forma ai collettivi che continueranno questa lotta ben oltre la conquista dell’East Precinct.”

L’undici di giugno, una folla, guidata dalla consigliera Sawant, occupa il consiglio della città, la City Hall. La violazione della misura proibitiva riguardo all’utilizzo del gas CS, introdotto dalla sindaca Durkin il 5 di Giugno, da parte del dipartimento di polizia, oltre che i continui soprusi con spray al peperoncino e cariche di polizia a cavallo, e l’inadempienza statale sul caso del suprematista in macchina, danno ragion d’essere a un grande corteo che viene lasciato passare dall’assistente capo di polizia Deanna Nolette, e che si ferma proprio al centro della City Hall per continuare a chiedere a gran voce proprio quelle rivendicazioni le quali, nei giorni passati, sono passate alla storia come “il manifesto”. Dopo una serie di monologhi, sembrerebbe che tutti siano sul punto di tornare a casa. Ma questo non accade. Tutti tornano all’East Precinct. La CHAZ comincia a vedere delineato il suo ruolo centrale nella vicenda ampia di BLM a Washington. Si consolida sempre più l’immagine che quello sarà il punto di ritrovo, elaborazione e discussione di strategia per i mesi a seguire. Si tratta quindi di un hub? Di uno squat? Non è ancora chiaro, ma li’ tutti ritornano, per prepararsi a giornate calde e tese in una città che, però, sembra stia cominciando a dare la zona come un dato di fatto. Una realtà, non tanto da capire e inquadrare come vorrebbero i media di desta, quanto da accettare e da farci l’abitudine. Mentre questo aggiornamento viene steso, è in programma tra poche ore una marcia silenziosa e uno sciopero generale, che andrebbe a ricollegarsi con quello dello scorso mese che ha avuto luogo proprio tra i lavoratori del settore agricolo. Capitol Hill sarà centrale anche oggi, e gli aggiornamenti che arrivano alle nostre redazioni fanno ben sperare in una buona riuscita nell’ottica della formazione di quella rete di alleanze, comunitarie, politiche e sindacali, menzionate nell’intervista di itsgoingdown.org.

Proprio sulla questione dell’organizzazione reale, però, forse, arrivano le maggiori criticità: mentre è vero che la disinformazione sul terrore di massa supposto che si starebbe svolgendo nella CHAZ è un’operazione eterodiretta da ogni fascia attiva delle sette mediatiche reazionarie, come dice IGD, la Guardia Nazionale non ha mai lasciato Seattle, e la Polizia tenterà di riprendere il controllo della zona. Inoltre, non si tratta di una comune anarchica autosufficiente, ne’ di un CSOA: tentare di descrivere questa “cosa” è sfuggevole e tentare di farlo, oggi, porta naturalmente a cadere in più di un errore. Ma delineare strategie e forme di autogoverno deve diventare una questione centrale per i manifestanti che oggi animano decine di dibattiti nella “Town Hall”, all’incrocio che determina il centro della comunità. Dibattiti sull’inclusione dei sindacati (anche se sarebbe magari utile cercare di stimolare un ulteriore, suppletivo dibattito sulla timidezza dell’AFL nel sostenere appieno le proteste e sul lavorare su un’eventuale condanna dei sindacati di polizia), della comunità indigena Duwamish e dei quartieri più esterni della periferia di Greater Seattle,  tutti decisivi ed importanti per andare avanti e proseguire nella lotta. Ma l’applicazione dell’ambizioso programma della CHAZ non può diventare realtà se non si accompagna a un processo di consolidamento di pratiche che possano continuare a soddisfare i bisogni della comunità e a garantirne la sicurezza dall’aggressione statale e parastatale. Ipotizzando, poi, un’eventuale fuoriuscita dalla CHAZ stessa, per portare la lotta ai padroni stessi, per espandere le idee di questi giorni oltre i confini di un blocco e per riportare in primo piano le istanze di classe, che sono necessariamente di istanze di genere e di appartenenza etnica. Mentre è vero, almeno per noi, però, che è la classe operaia organizzata in un partito rivoluzionario che abbatterà le dinamiche dell’esistente, l’esperienza della CHAZ nel panorama delle lotte americane costituisce un momento di positività indescrivibile, con alcuni che l’hanno descritto come “quella sensazione di aver dimostrato che, qualsiasi sia quella cosa che vogliamo fare, è possibile farla”. In un contesto neutralizzato e represso come quello, momenti come l’occupazione dell’East Precinct servono da laboratori di incontro e condivisione per organizzare lotte e proteste. Per dare continuità a questi percorsi che tengono il mondo col fiato sospeso da mesi. Ma per evitare che la CHAZ si tramuti nella tragica esperienza di Occupy Wall Street, i coraggiosi che oggi sono barricati in quei sei blocchi dovranno riuscire a vedere il mondo oltre il recinto, anche perché ora, tantissime realtà e proteste guardano a loro come un modello. Occupy Wall Street cadde quando perse il contatto col mondo. Ma la storia, ferventemente radicale e militante di Seattle, lascia pensare a scenari, idee, ipotesi, molto più positivi. Scenari che speriamo di vedere realizzati, col cuore e la mente vicini a questa nuova, clamorosa, battaglia di Seattle.

 

Luca Gieri

Nato a Toronto nel 1998, studente di scienze politiche all'Università di Bologna presso il campus di Forlì, militante della FIR e redattore della Voce delle Lotte. Cresciuto a Bologna, ha partecipato ai movimenti degli studenti e di lotta per la casa della città.