Il presidente di Confindustria Bonomi ha giocato il ruolo dell’industriale spazientito di fronte a un governo che non è deciso e autorevole… nell’aiutare in ogni modo possibile i grandi capitalisti. Ma il governo Conte è da sempre un suo alleato naturale.
“Accerchiato, isolato, attaccato dagli industriali e dai commercianti e logorato dall’interno anche da quanti, nella sua maggioranza, lavorano per minarne la leadership” così il Corriere della Sera (18/06/2020) riassume la situazione del premier Conte, facendo la cronaca dell’incontro tra il governo e Confindustria in occasione della puntata degli Stati Generali di mercoledì scorso. In effetti, l’intervento di Bonomi in questa sede sembra suggellare l’ostilità del grande capitale nei confronti dell’esecutivo: “attacco delle imprese al governo” titola la testata milanese, specularmente ai timori di chi – come il Manifesto – da tempo paventa una spallata di Confindustria e delle destre ai danni dell’Avvocato del Popolo, prendendo spunto dalle numerose dichiarazioni anti-sindacali e contro “l’assistenzialismo statalista” del governo pronunciate dal neo-presidente di Confindustria negli ultimi mesi.
In realtà non paiono esistere questioni di principio in virtù delle quali Bonomi e il premier non possano “riconciliarsi”. Addirittura, sempre secondo il Corriere, lo avrebbe confidato lo stesso uomo d’affari a Conte, una volta finita la conferenza: «Lo so che appaio come un presidente di rottura, ma io voglio collaborare — avrebbe assicurato il capo degli industriali — Non ho alternative a ricucire con voi». L’entità dell’impasse economico all’orizzonte rende infatti i padroni dipendenti dal sostegno finanziario del governo molto più che in tempi normali. Bonomi & co. non vedono perciò di buon occhio una crisi ministeriale che rischierebbe di inceppare la macchina esecutiva per molte settimane. Questo, tanto più nella misura in cui – come abbiamo già documentato – Conte ecc. non sembrano per nulla restii ad assecondare le esigenze del padronato. “Il piano che hai esposto oggi l’hai copiato da me?” (Corriere 18/06/2020) avrebbe commentato ironicamente Conte, complimentandosi con Bonomi per un intervento incentrato su austerità e sgravi alle imprese e ai ricchi – in primis: il taglio dell’irpef, incassato quello dell’Irap nell’ultima manovra correttiva (la tassa con cui si finanzia il fondo sanitario ordinario). In cosa è consistito, allora, l’affondo del capo degli imprenditori?
Non tanto nella critica all’indirizzo del governo, quanto alla lentezza con cui si stanno attuando misure già approvate come il pagamento della CIG, o la restituzione di 3 miliardi di accise sull’energia alle imprese, recentemente dichiarate illegittime dalla cassazione (una bazzecola rispetto alle centinaia di miliardi di garanzie sui crediti già approvate dall’esecutivo); lamentela che si aggiunge al classico tropo del vittimismo padronale relativo al pagamento dei debiti della Pubblica Amministrazione.
Alla luce di quanto detto, non è superficialità quella dell’anonimo ministro che ai margini degli Stati Generali, commenta così le “bordate” confindustriali: «Con 172 miliardi in arrivo dall’Europa chi è quel pazzo che tira giù il governo?» (Corriere 18/06/2020, p3).
Confindustria, in effetti, sembra attendere con trepidazione la sanzione ufficiale del recovery fund targato Commissione Europea; un atteggiamento che non stupisce, con il debito pubblico schizzato ormai al 150% e l’esigenza del capitale di succhiare sempre più risorse al proprio Stato. Così, una nuova equazione di governo che dovesse includere “i sovranisti”, finirebbe per essere d’intralcio alle trattative in sede UE: non esistono frazioni rilevanti della borghesia italiana interessate a rompere con le istituzioni comunitarie, mentre il progetto politico di personaggi come Salvini, pur interpellando settori popolari e piccolo-borghesi, presuppone il sostegno della classe dominante. Perciò, agli occhi del grande capitale, eventuali pantomime del “Capitano” ai tavoli di Bruxelles – come quelle che peraltro abbiamo già sperimentato – servirebbero solo a giustificare rappresaglie contro l’Italia da parte degli “investitori internazionali”.
C’è poi da aggiungere come l’aggressività di Bonomi sia da collegare alla crisi della stessa Confindustria, sempre più rappresentante della media imprenditoria settentrionale integrata nelle filiere mittel-europee, più che del complesso della grande borghesia, dopo la diserzione di alcune delle frazioni più internazionalizzate e finanziarizzate del capitale italiano. Perché spendere milioni a sostegno di una struttura nata, storicamente, per compattare il fronte padronale in risposta all’unificazione del movimento operaio, quando l’attuale disgregazione di quest’ultimo permette ai singoli capitali – o perlomeno a quelli più forti – di regolare autonomamente i conti con la propria forza-lavoro? Questo si sono chiesti negli anni gli Agnelli, i Del Vecchio ecc. i quali, peraltro non hanno bisogno del “lobbying” di viale dell’astronomia per influenzare le scelte di governo, grazie alla loro proiezione internazionale, al loro peso occupazionale, ai rapporti diretti con l’alta burocrazia di Stato; al loro enorme ruolo finanziario: (si pensi, ad esempio, al fatto che Generali, controllata dal patron di Luxottica Del Vecchio, detiene da sola qualcosa come il 5% del debito pubblico italiano. Bonomi, insomma, alza la voce non solo per mettere pressione al governo, ma anche per serrare i ranghi della propria organizzazione, esprimendo le preoccupazioni e l’arroganza di quella che è la sua componente più influente.
I puntelli della pace sociale: il finto litigio con Confindustria, il bonapartismo di Conte, la compiacenza della burocrazia sindacale
Quanto detto non equivale certo a sostenere che la sostanza reazionaria del discorso di Bonomi sia da minimizzare; il punto è però che non c’è nessuna ragione per identificare un’opposizione di fondo tra il governo e gli industriali, come una campagna di stampa trasversale sta cercando di fare, sebbene con obiettivi diversi. In realtà, i toni sopra le righe dell’imprenditore milanese sono funzionali al rafforzamento del ruolo bonapartista, apparentemente super partes, di Conte. Questi, infatti – agitando lo spettro di una sua caduta per diktat confindustriale e al contempo soddisfacendo le illusioni neo-concertative di Landini, Barbagallo e Furlan – può rafforzare la special relationship con le burocrazie sindacali confederali. Egli sa bene quanto queste ultime siano state determinanti, durante la pandemia, per contenere la fiammata di scioperi spontanei nelle industrie manifatturiere; sa bene – come lo sapeva Monti nel 2011 – che dalla collaborazione dei burocrati sindacali non si potrà prescindere per far digerire ai giovani e ai lavoratori le misure anti-operaie che si prospettano nei prossimi mesi come risposta alla crisi. Tra non molto terminerà il blocco dei licenziamenti, che il governo non è affatto intenzionato a rinnovare – e cominceranno le ristrutturazioni– le quali si aggiungeranno alle 160 crisi aziendali già in ballo, oltre a quelle che i padroni stanno già mettendo in campo con licenziamenti mascherati da trasferimenti (come alla Comer di Reggio Emilia, alla Cavalli di Firenze e alla FIAC di Sasso Marconi). Intanto, centinaia di migliaia di precari, false partite IVA ecc. hanno già perso lavoro e reddito, in un contesto di crollo del PIL a doppia cifra. Nel frattempo, dal governo arrivano solo promesse di riduzione della pressione fiscale a vantaggio delle imprese, con l’effetto di vanificare gli esigui aumenti di spesa corrente ai fondi destinati a sanità e istruzione previsti dall’ultima manovra correttiva. Queste, solo alcune delle questioni politiche e sociali in ballo alle quali si aggiunge l’importante rinnovo del contratto nazionale dei metalmeccanici.
In questo solco, il “personaggio Bonomi” che attacca il governo e i sindacati è utile alle stesse burocrazie di CGIL, CISL e UIL per legittimarsi nei confronti della base sul piano della rappresentazione pubblica, laddove – sul terreno del conflitto – esse continuano a mostrare la più completa subalternità ai padroni. A ben guardare, in effetti, la sostanza dei discorsi tenuti agli Stati Generali da Landini e Bonomi è piuttosto complementare. Il primo ha enfatizzato l’urgenza di combattere l’evasione fiscale e di detassare gli aumenti salariali (non di lottare per strapparli), mentre il secondo ha ripetuto la solita solfa della necessità di aumentare la produttività del lavoro rendendo più flessibili i contratti nazionali (principio che in fondo non dispiace alla CGIL considerato il testo dell’ultimo contratto nazionale dei metalmeccanici 2016 e dell’accordo quadro confederali-confindustria dello stesso anno, ove si ampliano i margini della contrattazione di secondo livello e welfare aziendale). Differenze “maggiori” sembrano esserci sulla questione del ruolo del pubblico: Bonomi ingiunge: “no all’interferenza dello Stato. Aiuti alle imprese. Sostenibilità del debito (vedi: paghino i lavoratori)” e presenta un piano dettagliato al governo, che verrà reso pubblico la settimana prossima. “Ci vogliono più investimenti pubblici”, ribatte Landini ma oltre ai pugni non c’è nessun programma sul tavolo di Conte (figurarsi nelle assemblee nei luoghi di lavoro per costruire i rapporti di forza con una mobilitazione generale); così, l’unico piano che il Segretario aveva in mano l’altro ieri, 15 giugno, a villa Pamphili era quello del manager di Vodafone Colao…
Django Renato
Ricercatore indipendente, con un passato da attivista sindacale. Collabora con la Voce delle Lotte e milita nella FIR a Firenze.