L’estenuante tornata elettorale statunitense volge finalmente al termine: ciò che non volge al termine è la moltitudine di percorsi che, negli anni, può diventare una spina nel fianco dell’establishment di Washington. Ma serve volontà politica dal suo attore centrale: la classe operaia americana.
Mentre arriva la notte del sette novembre in Italia, dopo quattro giorni di scrutinio elettorale, finalmente negli Stati Uniti esce un esito chiaro dallo spoglio dei voti per eleggere il quarantaseiesimo presidente: Joe Biden, dopo una complicata quanto inusuale campagna elettorale, seguirà Donald Trump nell’amministrazione della principale potenza del mondo occidentale, nel mezzo di una pandemia e di un disastro economico e sociale senza precedenti. Mentre un intero paese sembra risvegliarsi da una sogno febbrile, quasi a non rendersi conto di quanto sia realmente successo negli ultimi quattro anni, parrebbe davvero insensibile non unirsi alla carovana di cori festanti di milioni di persone per aver cacciato dalla Casa Bianca un uomo che negli anni ha aumentato il già profondo divario sociale caratteristico del tessuto americano, spinto politiche xenofobe, misogine e razziste, ignorato dall’inizio la reale estensione del disastro sanitario del Coronavirus e rimarcato (a volte in maniera sottile, a volte decisamente meno) il proprio supporto per schieramenti violenti dell’estrema destra, che hanno attaccato e anche ucciso compagni e compagne lungo tutto il continente nordamericano. Tuttavia, è proprio questo il momento per distaccarsi e prendere una decisa rincorsa, perché se, da un lato, questi anni sono stati contraddistinti dall’avanzamento istituzionale di frange ed esponenti delle fasce più reazionarie della politica statunitense, il contesto in cui comunisti, organizzatori locali (sindacali come comunitari), e attivisti provenienti da ogni strada possibile ed immaginabile si trovano ad operare non è il contesto di quattro anni fa, quando la confusione generalizzata portata dal fallimento della prima campagna Sanders aveva creato solo disillusione e alienazione in una nuova generazione in procinto di politicizzarsi. La presidenza Trump ha invece visto una rinascita di rivendicazioni sociali e forme organizzative pensate perdute nel fuoco dei fallimenti dei movimenti nati in seno all’amministrazione Reagan e al post-Iraq, quando anche il movimento contro la guerra si trovò ad essere cooptato e sedato dal Partito Democratico e dai suoi satelliti. Abbiamo avuto anche modo di assistere a un rinvigorimento di rivendicazioni che parevano aver perso trazione, ad un certo momento dell’amministrazione Obama, come ad esempio il movimento Black Lives Matter, che ha avuto un impatto profondo sugli eventi di questi ultimi mesi e ha aperto strade finora impensabili da solcare non solo per gli USA, nella discussione e nell’elaborazione di rivendicazioni avanzate. La sfida a Trump è un patrimonio collettivo di cui far tesoro, ma a nulla servirà se non si serrano le fila nei mesi che verranno: è il momento di spingere. Perché, paradossalmente, gli ideologhi democratici potrebbero aver ragione a parlare della “più importante elezione delle nostre vite”. Solo, non per le ragioni che pensano.
La Sconfitta di Trump e la direzione del Partito Repubblicano
Nonostante gli strepiti dell’ormai ex presidente degli Stati Uniti, il Partito Repubblicano esce sconfitto dalla tornata elettorale, e, in certi aspetti, in maniera catastrofica. L’amministrazione Trump non è stata in grado di declinare gli interessi che rappresentava in maniera produttiva per potersi riprodurre come avevano fatto altri gabinetti del GOP. Il quarantacinquesimo presidente non è stato in grado di formare, alle elezioni di metà mandato del 2018, un suo vero “caucus” parlamentare, che potesse fare quadrato per supportarlo al 100% nel corso di una durissima campagna elettorale: perché, a prescindere da chi fosse stato il candidato democratico, sarebbe stata una campagna molto più intensa del solito. Che i repubblicani digerissero male Trump non è mai stato segreto: la linea di partito è sempre stata la tutela della borghesia, ma il “come” questa tutela si sarebbe effettuata è un qualcosa che, a livello di correnti interne, differenzia le varie anime della struttura nazionale così come lo fa nella sua “controparte” democratica. La mancanza di una reale struttura di appoggio interna al partito è stata una condanna per un presidente che ha perso — fin dai suoi primi momenti alla guida del paese — la possibilità di mantenere il controllo del “tesoretto” di voti che aveva costruito a discapito di una debole Hillary Clinton e del suo partito, che nel 2016 era completamente in rotta, in aree come Michigan e Wisconsin: due stati simbolici della “Rust Belt” americana, la zona più industrializzata del paese, dove i sindacati asserviti ai padroni ed indeboliti dalle conflittualità degli anni ’90 con il reaganismo hanno poco margine d’influenza reale sulle intenzioni di voto dei propri iscritti. La promessa di “good jobs” per quegli stati, economicamente stravolti dalla crisi del settore automobilistico e manifatturiero, venuta in essere nel “fallout” del collasso economico del 2008, si scontra con la realtà di 4.000.000 di posti di lavoro persi dall’inizio della presidenza.
Situazione simile per il West Virginia, terra di conflitto sociale e contraddizioni acutissime, sia nel settore minerario (dove non c’è stato alcun aumento dei posti di lavoro come invece era stato promesso da Trump), sia in quello della didattica: il West Virginia è tornato ad essere scenario di lotta nel 2018, quando gli insegnanti hanno disubbidito agli ordini dei sindacati categoria e hanno scioperato a oltranza per due settimane, per ottenere aumenti salariali e rinegoziare le condizioni della propria assicurazione sanitaria: in uno stato storicamente rosso, in quell’anno, venne in essere un esempio di sciopero “autorganizzato” che, nei due anni a seguire, sarebbe stato imitato in altri stati tradizionalmente conservatori, come Kentucky ed Oklahoma. Eventualità come queste non sono stati casi isolati per aree comunemente considerate “conservatrici”: la realtà dei fatti è che il Sud degli Stati Uniti, per quanto viva un retaggio quotidiano razzista e conservatore, ospita al suo interno forse le più grandi contraddizioni, e i più grandi dolori, del sistema statunitense. Sono gli Stati del Sud quelli con i più alti tassi di povertà, e da moltissimo tempo — sarebbe forse il caso di chiedersi se il voto in blocco al GOP dei decenni passati fosse un fatto di mera fedeltà partitica, o se invece il Partito Democratico, e tutto ciò che gli gira intorno, abbia costantemente alienato la classe operaia di questi stati tanto da non essere più in grado di raccogliere consenso reale al loro interno. Conservatorismo o apatia? I segnali che arrivano sembrano indicare molto più chiaramente la seconda opzione. In tutto questo, la crisi pandemica si è abbattuta come un macigno su un paese in cui manca anche la minima base di copertura sanitaria sociale e uno straccio di sistema di tutele in una miriade di stati federati. Solo questa settimana si sono registrate 751.000 nuove richieste di sussidi di disoccupazione, sussidi che, con ogni probabilità, tarderanno ad arrivare, mentre le persone senza assicurazione sanitaria, oggi, sono 7.000.000 in più rispetto a quando Trump è stato eletto.
Non certo uno scenario idilliaco. Si sarebbe prospettata una vittoria facile per i democratici, no?
Ma quale vittoria? Il Partito Democratico alle prese con la sua identità
Checché ne si dirà in futuro, la vittoria di Joe Biden non è stata una vittoria semplice sotto alcun punto di vista. Il margine strettissimo di voti che lo ha separato, non tanto a livello nazionale, dove è diventato il candidato più votato nella storia del processo elettorale statunitense, quanto al cruciale livello delle singole contee e dei singoli stati, ci racconta in realtà il travagliato dilemma che gira attorno al Partito Democratico dai mesi della sconfitta di Hillary Clinton, nel 2016. Il caos che ha generato la candidatura di Bernie Sanders è stato un colossale campanello d’allarme per l’establishment democratico, che è subito corso ai ripari per riallinearsi e pensare ad una strategia per riprendere quanti più elettori in tempo per le elezioni che gli USA hanno appena avuto: cavalcando l’onda di un malcontento nato già dalle prime ore della presidenza Trump, tutti i settori del Partito hanno accomodato le candidature dei membri della cosiddetta “Sunset Coalition” e dei “Justice Democrats”, due PAC di orientamento genericamente “progressista” che miravano a sostenere le posizioni di Sanders in vista delle elezioni mid-term del 2018. Questa spinta serviva, principalmente, a “riportare le pecore all’ovile”: catalizzare l’entusiasmo di una nuova marea di giovani genericamente progressisti in un voto coeso e compatto per qualsiasi candidato la Democratic National Convention avesse voluto scegliere. La seconda corsa di Sanders, tuttavia, potrebbe aver creato un fenomeno destinato a scoppiare in faccia al partito: percependo una minaccia interna, durante le primarie di quest’anno, i principali candidati “centristi” si sono ritirati in blocco durante il Super Tuesday per appoggiare la candidatura di un “uomo del compromesso” — l’ex vicepresidente dell’era Obama, Joe Biden. In una mossa di potere compatta e convinta, il messaggio mandato alle milioni di persone che, negli ultimi quattro anni, molte delle quali giovanissime, è stato: “rassegnatevi: o accettate la linea o siete fuori. Se siete fuori, siete come Trump. Se siete dentro, fate come diciamo noi. Il che vuol dire niente sindacati combattivi: la linea la decidono le burocrazie. Niente proteste di piazza: si delega il potere ai PAC. Niente “medicare4all” (il piano sanitario sostenuto da ampie fasce della popolazione americana, e non solo democratica, che avrebbe aperto la strada ad un sistema di copertura sanitaria pubblica e gratuita): espanderemo in maniera moderata l’Obamacare.”. In sostanza, adattatevi: si ha da battere Trump, e per farlo abbiamo bisogno dei voti della destra.
Il liberalismo americano ha sempre cercato queste forme di compromesso, e politici come Sanders hanno sempre servito la funzione di dare reale peso ad uno dei tanti soprannomi famigerati del Partito, “the graveyard of social movements” (il cimitero dei movimenti sociali). Non c’è da stupirsi, quindi, che Bernie abbia abbandonato ogni speranza di cambiamento radicale (per non parlare, come paventava addirittura qualcuno, di ipotetiche uscite di massa dal partito!) poco dopo la sconfitta alle primarie, invitando affrettatamente i suoi sostenitori a votare per Biden. Il coro di voci che seguivano questa linea era ben folto: dall’astro nascente della politica newyorchese, la deputata Alexandria Ocasio-Cortez, a Ilhan Omar, deputata del Minnesota, divenuta celebre per i violenti attacchi verbali islamofobi ricevuti da esponenti del GOP, fino a pensatori pseudo-radicali come Noam Chomsky (che, a sua discolpa, almeno è stato coerente con la sua tradizione di mulo da soma della linea elettorale democratica). Le promesse di questa rinforzata frangia del Partito dell’Asino Recalcitrante erano che “dopo le elezioni, se va tutto bene, possiamo lavorare per prenderci il Partito”. Evidentemente, il messaggio non è arrivato a molti pezzi da novanta della Camera dei Rappresentanti che, in una Zoom Call con la speaker alla Camera, Nancy Pelosi, hanno affermato che “non può mai più accadere che i nostri candidati parlino di cose come ‘socialismo’ o ‘definanziare la polizia’, che ci fanno perdere voti”. Il Partito Democratico, quindi, è arrivato alle elezioni con il candidato che ha sempre voluto e che avrebbe sempre potuto ottenere: chi si illudeva di poter “cambiare le cose da dentro” ha perso; tutto quel che si può fare è votare Biden e tirare dritto, con la speranza che dal tavolo vengano lasciate delle briciole. Di fatto, si è trattato di un voto di blocco contro Trump, sospinto da una macchina mediatica che dipingeva già potenziali tentativi di golpe militare trumpisti per spaventare una Nazione, ma soprattutto (ai fini di questa analisi) un’intera generazione di nuov* attivist* in procinto di cominciare il proprio lavoro per tentare di plasmare un movimento politico che ne rispecchiasse i reali bisogni: salari migliori, sanità pubblica e gratuita, giustizia ambientale, ridiscussione (per non dire cancellazione totale) del debito studentesco, fine della “guerra alla droga” (che in America ha funto solo da pretesto per incarcerare in massa milioni di uomini e donne sproporzionatamente non bianchi), e tutta una serie di misure che avrebbe dovuto lasciare il passo al bisogno “pragmatico” di “rimuovere il grande nemico”. Forse, il Partito Democratico, non aveva ancora capito di aver tirato la corda un po’ troppo, rispetto agli ultimi anni. E che stavolta ci fosse qualcuno, dall’altro lato della corda, che non avrebbe esitato a cominciare, a sua volta, a tirare.
“Non abbelliremo il terrore”
Dalla Neue Rheinische Zeitung, a un supermercato in fiamme, il passo è più breve di quello che si pensi. La celebre citazione di Marx, risalente a quando la Prussia si adoperò per reprimere l’importante quotidiano di cui era Caporedattore nel 1848, colse l’occhio di molti curiosi osservatori quando apparve, a Marzo, sulla facciata di un “Target” saccheggiato durante una delle rivolte che avevano avuto luogo a Minneapolis. Quasi come un filo rosso lungo, lunghissimo, di cui siamo ancora incapaci di vedere il punto d’arrivo, ma che mantiene tanti nodi lungo il percorso della storia, qualcosa deve aver spinto qualcuno a voler scrivere una frase così potente su un simbolo così famoso dell’impero del consumo statunitense, in una caldissima notte del maggio di quest’anno.
Il 23 febbraio del 2020, muore a colpi di fucile il giovane, nero, Ahmaud Arbery, di anni 25. Lo uccidono dei suprematisti bianchi, vicino a casa sua, mentre faceva jogging. Poche settimane prima, in Wisconsin, un altro giovane, nero, Alvin Cole, era stato ucciso, e dopo Ahmaud saranno Breonna Taylor e George Floyd a perdere la vita, per mano di poliziotti assassini, al soldo di uno stato che ha sempre posto la vita dei neri su un piano secondario rispetto a quella di tutti gli altri. In quei giorni riprende forza Black Lives Matter, il movimento che nel 2014 era nato per protestare contro gli omicidi di Trayvon Martin, Eric Garner, Philando Castille e tantissim* altr*, con livelli di partecipazione massiva che aveva visto, in misura comunque meno duratura, soltanto il Climate Strike dell’anno scorso, quasi un preludio all’anno di mobilitazioni che ha sconvolto e continua a sconvolgere gli Stati Uniti. Nelle strade, i toni sono decisamente diversi da quelli che avrebbe preferito l’establishment democratica, che si affanna a ricondurre il malcontento all’interno dei seggi elettorali, anche se ormai proliferano ovunque parole d’ordine importanti: non è più tempo di rinegoziare, bisogna cambiare tutto, e cambiarlo subito. Non definanziare la polizia, ma abolirla. Non rinforzare lo stato assistenzialista, ma demandare la presa e la redistribuzione della ricchezza. Assistiamo a una progressiva quanto immediata esacerbazione di tutte le contraddizioni che si erano andate ulteriormente a consolidare durante questi quattro anni, alle quali va aggiunto il peso della pandemia: in una New York sconvolta dai contagi, cominciano gli scioperi nei magazzini della grande distribuzione: scioperi che vengono prontamente repressi da amministratori democratici, al soldo di multinazionali e grandi gruppi di investimento. A Seattle scioperano i portuali, in Solidarietà con BLM, e sciopera tutta la costa ovest: non si tratta di scioperi “pacificati”, come quello dei metalmeccanici dello UAW dello scorso anno, che, nonostante fosse partito combattivo e partecipato (più di 50.000 operai General Motors arrestarono la produzione), per colpa delle burocrazie sindacali, scemò e finì con l’accettazione di un miserrimo accordo al ribasso: qui, i burocrati, non comandano e non fermano più nessuno. Proliferano “zone temporaneamente autogestite” sul modello europeo, come la CHAZ a Seattle o l’occupazione della piazza davanti a City Hall a New York. Crescono le organizzazioni di sinistra, dai Democratic Socialists of America fino alle federazioni anarchiche locali di tutto il paese (per non parlare dell’aumento di iscritti a sindacati non allineati al colosso democratico dell’AFL-CIO, come l’Industrial Workers of the World, storico sindacato di area anarco-sindacalista che sta vivendo un momento di ricrescita dopo anni di stagnazione). I casi di convergenza tra lotte diverse esistono, seppure sembrano più momenti isolati, che invece uno sforzo organizzato e collettivo: tanto basta, però, per mandare totalmente nel panico il Partito Democratico. Da patetiche esibizioni di “solidarietà”, come quando Nancy Pelosi e compagnia si misero in ginocchio, in abiti tradizionali “kente”, nelle sale del congresso, fino a un rigetto totale del movimento di piazza al minimo accenno di conflittualità, e ripugnanti dichiarazioni esplicitamente reazionarie da parte del candidato Dem, come quando affermò che “i poliziotti non devono sparare mai alla testa o al torso, deve sparare alle gambe”; cominciò, per molti, a diventare sempre più chiaro che il Partito Democratico non avrebbe rappresentato in alcun modo il necessario veicolo di cambiamento sistemico che sempre più persone avrebbero appoggiato, qualora si presentasse l’opportunità. Il risultato dell’imbarazzante operazione cerchiobottista dei democratici potrà risultare meno evidente, nei prossimi giorni, dato il trionfalismo con il quale stanno già celebrando “l’uscita di scena di Trump”, ma basta fare un giro nella Contea di Miami-Dade, storicamente democratica, con più del 50% di residenti non bianchi, e dove Biden è riuscito a perdere centinaia di migliaia di voti, per capire che, forse, il voto utile, a tantissimi, non basta più. Non basta più li, e, di certo, non può bastare alle fasce della classe operaia di tutto il paese, dal Michigan al West Virginia già citati (i margini di voto, nel primo stato, sono davvero stretti, dove sarebbe dovuto essere un exploit blu, mentre nel secondo quell’apatia di cui si accennava in precedenza si è tradotta in un voto repubblicano).
Gli “altri”: c’è vita fuori dal PD?
Alla luce del contesto effervescente che ha fatto da preludio e svolgimento alla campagna elettorale di quest’anno, verrebbe da chiedersi quale sbocco potesse avere questa fondamentale sfiducia nel sistema tutelato e rappresentato dai due megaliti della dialettica politica americana: il tema elettorale è stato campo di battaglia in ogni luogo dove si presentasse l’opportunità di svolgere dibattito, dalle assemblee, ai social, alla conversazione quotidiana; il primo nome che viene alla mente, pensando ad un’ipotetica soluzione extrademocratica, è il partito dei Democratic Socialists of America, di cui abbiamo avuto modo di osservare l’ascesa anche su questo giornale. L’organizzazione, che ad oggi raccoglie 80.000 iscritti in tutto il paese, è a tutti gli effetti la più grande organizzazione politica militante a sinistra del Partito Democratico, con diverse correnti interne e una struttura coordinata tale da dargli spazio operativo su tutto il territorio nazionale. Per anni, i DSA, attraverso l’espressione della linea maggioritaria, erede del segretario storico Michael Harrington, ha cercato di spingere per influenzare in senso social-democratico il PD, sostenendo i suoi candidati ad ogni elezione e cercando di far approvare candidati iscritti al DSA nelle liste elettorali dei democratici, ovunque se ne presentasse la possibilità. Non si trattava di entrismo, quanto propriamente di una stampella a sinistra in ogni luogo dove ce ne fosse bisogno. La Ocasio-Cortez stessa, come altri suoi colleghi, hanno cominciato il proprio percorso nelle fila dei DSA. Ma la crescita di massa del partito, a seguito dello stretto contatto con la campagna Sanders e dell’infittirsi di una sempre più estesa rete di progressisti in tutto il Nord America (legami forti con il New Democratic Party canadese, ad esempio), ha portato a una seria ridiscussione di strategie e tattiche necessarie ad andare avanti in senso costruttivo, non più solo in ottica opportunista, per aggiungere tessere al conteggio di fine anno, ma per essere una reale componente decisiva nel processo affermativo dei movimenti che stavano cominciando a carburare, nelle scuole, nelle piazze e sui luoghi di lavoro. Si è deciso, quindi, dopo il fallimento della seconda campagna Sanders, di non dichiarare esplicitamente il proprio sostegno per il candidato presidenziale democratico, per la prima volta dal ’95 (nel 2000, si decise di non esprimersi esplicitamente sul sostenere un candidato in particolare). Lo stretto rapporto tra i Dem e i DSA esiste ancora, con candidati come Jamaal Bowman e Lee Carter che, rispettivamente, oggi occupano un posto al Congresso e uno alla camera dei deputati della Virginia sotto l’egida democratica. Molte sezioni locali dei DSA, poi, hanno scelto ad ogni modo di votare Biden, andando contro alla decisione del Partito a livello Nazionale, incoraggiati dall’ala facente capo alla rivista Jacobin, di cui moltissimi membri sostengono fosse necessario ancora una volta “ingoiare il rospo” (nota di merito per Daniel Finn, che, anche con un certo coraggio, non si è fatto problemi a rispondere ad una spocchiosa lettera firmata da novantuno membri del vecchio Students for a Democratic Society, in cui si recriminava a questi “giovani scapestrati” di stare rischiando una dittatura, nel non votare Biden. “Nessun socialista che abbia fatto campagna per Sanders dovrebbe sentirsi in colpa nell’abbandonare il PD”, ha affermato). Il salto da fare forse non è ancora arrivato, ma il dibattito è più centrale che mai, specie per la crescita di componenti sempre più radicali all’interno dell’organizzazione.
L’ascesa dei DSA è avvenuta a discapito di quello che era ritenuto, per un arco di tempo pluridecennale, il polo alternativo a “sinistra” del PD: il Partito dei Verdi ha subito anni di dolori interni e smembramenti, causa una fondamentale ambiguità di fondo su “cosa voglia dire essere verdi”, con componenti liberali, pseudo-anarchiche, socialisteggianti e persino conservatrici che per anni si sono contese il potere. Si tratta di un partito borghese, che, a differenza dei DSA, non presenta una reale base militante: quando si pensa in questi termini, quel grande numero, 242.000 iscritti, assume una dimensione un po’ meno spaventosa. Le iterazioni passate dai verdi sono state molteplici e sempre diverse, con unico tema unificante quell’accento sulla questione ambientale (che, però, molte altre organizzazioni sono state in grado di declinare più e meglio in un quadro di ampia riorganizzazione sociale): sarà per la natura “single issue” delle proprie rivendicazioni, sarà per l’assenza quasi totale di una base militante, ma sembrerebbe che quest’anno il GP prenderà uno dei risultati meno soddisfacenti della sua storia, nonostante una millantata coalizione di partiti e organizzazioni collocabili genericamente “a sinistra dei democratici”. La candidatura di quest’anno, un cartello diviso tra il verde Howie Hawkins (attivista storico di New York e tra i primi proponenti di un “Green New Deal”) e Angela Walker (del Socialist Party USA, autista di autobus, organizzatrice locale di Milwaukee e militante di base anch’essa da una vita), è forse uno dei più meritevoli di quelli che abbiano mai presentato: non può, però, salvare un partito allo sbando, con una storia di compromessi e ambiguità nel proprio rapporto con la borghesia. Il sostegno ricevuto da organizzazioni come Socialist Alternative (sezione americana dell’International Socialist Alternative) non si è tradotto in un risultato decisivo per potersi tornare a definire come rilevante.
Si può dire, quindi, che non ci sia stato, questo sbocco per chi volesse dar seguito alle rivendicazioni emerse dalle piazze?
Il vero pragmatismo è rompere con i Democratici: per l’indipendenza di classe dei lavoratori e delle lavoratrici!
Inutile girarci attorno: oggi Biden vince per il fatto di non essere Trump. Il rifiuto del trumpismo, di tutto ciò che ha rappresentato per quattro anni, è la ragione per cui il Partito Democratico possa dire di averla sfangata. Probabilmente, schiere di liberali torneranno nelle loro case e faranno finta non sia successo niente: mentre si rinchiuderanno, di nuovo, nella realtà ideale che si sono potuti costruire, sul privilegio del quale sono beneficiari, di fuori vive e lotta un mondo che non può permettersi di far finta che non sia successo niente. Questa grande descrizione dei processi che hanno contraddistinto il momento elettorale degli USA serve per mettere in luce che il Partito Democratico e quello Repubblicano non rappresentano in alcun modo ciò che può risolvere una crisi che precede il COVID, precede l’amministrazione Trump e, in realtà, risale a molto tempo prima della nascita “ufficiale” degli stessi partiti in questione: le premesse, sulle quali l’intero sistema americano è costruito, sono fondamentalmente sbagliate, macchiate da secoli di colonialismo, violenza e sfruttamento: chi oggi occupa le piazze, i luoghi di lavoro, i centri commerciali in atto di protesta è erede di una storia di lotta secolare, che la borghesia statunitense ha fatto di tutto per annullare e cancellare. Si tratta degli eredi di Eugene Debbs e dei socialisti, che, prima di capitolare al compromesso coi democratici di Roosevelt, sfidarono per davvero, anche alle elezioni, il sistema capitalistico e i suoi fidi araldi. Si tratta degli eredi degli anarchici italiani che organizzavano forme di potere alternativo agli accordi tra mafia e governo americano sulla costa est, e battagliavano quotidianamente contro sgherri privati e polizia. Sono gli eredi delle rivolte schiavili nel profondo Sud, dei minatori del West Virginia col fucile in spalla, dei portuali di Seattle che non caricavano le navi destinate a rifornire di munizioni l’Armata Bianca in Russia. L’alternativa alla storia di violenza e sfruttamento degli Stati Uniti sta nella costruzione di un soggetto che abbia come scopo di prendere in mano la storia, e ribaltare su se stesso il sistema capitalistico su cui poggia l’impianto legislativo americano. Serve un partito che si definisca esplicitamente anticapitalista e rivoluzionario, per far si che quei momenti di convergenza tra varie categorie in lotta possano non solo diventare la prassi, senza limitarsi ad essere “piacevole sorpresa”, ma anche, effettivamente, per elaborare un discorso comune sulla base del quale dare adito al cambiamento sistemico che si rivendica a gran voce nelle piazze (e non nelle urne), e immaginare la società che verrà, senza classi, senza profitto e senza sfruttamento. Molti nostri compagni americani, che usano il sito Left Voice come strumento di propaganda e organizzazione, fanno parte dei DSA, e quotidianamente lottano, anche all’interno del loro partito, perché si stabilisca reale indipendenza di classe rispetto dalle posizioni di compromesso che le fazioni riformiste vogliono mantenere come maggioranza nei processi decisionali. Oggi, esiste un movimento che è in grado non solo di esprimere una serie chiara di necessità, ma è anche in grado di avanzare il dibattito oltre quanto chiunque avesse fatto prima d’ora, almeno dagli anni ’80. Per unire, però, tutte le rivendicazioni diverse che hanno animato questi mesi intensi di contestazione, è necessario un soggetto che possa inquadrarle in una prospettiva rivoluzionaria, e finalmente aprire le porte su un nuovo capitolo degli Stati Uniti d’America. Oltre il trumpismo, e ancora più in là.
Luca Gieri
Nato a Toronto nel 1998, studente di scienze politiche all'Università di Bologna presso il campus di Forlì, militante della FIR e redattore della Voce delle Lotte. Cresciuto a Bologna, ha partecipato ai movimenti degli studenti e di lotta per la casa della città.