La brutale svolta repressiva dei militari in Myanmar solleva la questione dell’autodifesa dei manifestanti in un contesto in cui i principali eserciti etnici hanno espresso sostegno al movimento popolare.
Lo scorso sabato 27 marzo ha segnato il giorno più sanguinoso di repressione dal colpo di stato militare del 1° febbraio in Myanmar. Più di 100 morti in un giorno, un gran numero di feriti e arresti; dal colpo di stato ci sono stati almeno 510 morti in tutto il paese. Un’altra statistica spaventosa: secondo l’UNICEF, la giunta ha ucciso almeno 35 bambini. È chiaro che i militari hanno deciso di cercare di reprimere il movimento attraverso il terrore.
Negli ultimi giorni, ci sono state immagini di migliaia di persone che fuggono dalle grandi città dove imperversa la repressione; altre, soprattutto le popolazioni delle minoranze etniche, sono fuggite o hanno cercato di fuggire nei paesi vicini.
Tuttavia, nonostante questa brutale repressione, le manifestazioni continuano, anche se sono meno massicce che all’inizio del movimento. Questo è il caso dei giovani studenti e dei lavoratori nelle grandi città ma anche nelle zone rurali. A Yangon, il principale centro urbano del paese, abbiamo visto, per esempio, la costruzione di barricate e lo scontro dei manifestanti con la polizia e l’esercito.
Da questo punto di vista, alcuni manifestanti cominciano ad organizzarsi e ad organizzare la propria autodifesa. Questa è una reazione totalmente legittima agli omicidi, alle brutalità e alle umiliazioni delle forze repressive. Così, foto e video mostrano manifestanti equipaggiati con scudi, molotov e persino armi fatte in casa. Mentre la polizia e l’esercito reprimono impunemente, una risposta difensiva organizzata da parte dei manifestanti potrebbe giocare un ruolo determinante per il morale del movimento ma anche per quello delle truppe che potrebbero essere destabilizzate.
In questo senso, c’è un altro elemento che il potere militare guarda con preoccupazione: l’atteggiamento delle organizzazioni armate delle minoranze etniche nei confronti del movimento. Il Myanmar è un paese con una delle guerre civili più lunghe e complesse del mondo. Ci sono decine di eserciti etnici ribelli che combattono una lotta a volte molto dura contro il potere centrale. Sono di solito situati nelle regioni di confine del paese e sono stati talvolta manipolati dai vicini del Myanmar per raggiungere i propri obiettivi (questo è particolarmente il caso della Cina, ma non solo). Alcuni di questi movimenti armati sono stati in aperto conflitto con i militari negli ultimi anni, ma altri, prima del colpo di stato, erano in un processo di pacificazione e cessazione delle ostilità; alcuni hanno anche cercato di accelerare questo percorso di riappacificazione con i militari dopo il colpo di stato. Tuttavia, l’esercito è ora abbastanza isolato e sta perdendo alleati mentre la repressione violenta dei manifestanti si intensifica.
Lo scorso fine settimana, infatti, mentre i soldati celebravano la “Giornata delle Forze Armate”, e allo stesso tempo si impegnavano nella peggiore serie di uccisioni dal 1 febbraio, le forze del braccio armato del KNU (Karen National Union) hanno preso una base militare a Hpapun, nello Stato Karen, nell’est del paese al confine con la Thailandia. In precedenza, il KNU non solo aveva rifiutato di partecipare alla parata organizzata dai militari in occasione della “Giornata delle Forze Armate”, ma aveva anche espresso il suo sostegno al movimento di opposizione al colpo di stato e condannato la brutale repressione. La giunta militare, per vendicarsi dell’offensiva del KNU, ha lanciato diversi attacchi aerei da sabato, uccidendo almeno 7 civili e spingendo diverse migliaia di persone in esilio nella vicina Thailandia. I rapporti indicano che la Thailandia è in procinto di espellere i rifugiati dal Myanmar.
L’altro esercito etnico che si è espresso a favore del movimento è l’Esercito dell’Indipendenza Kachin (KIA) nel nord del paese. Il KIA ha lanciato attacchi contro le posizioni dell’esercito e della polizia di Myanmar dopo che due manifestanti sono stati uccisi durante una protesta anti-golpe nella regione al confine con la Cina.
Ma il vero colpo alla giunta militare è stata la dichiarazione dell’Arkan Army (AA) nello Stato di Rakhine, nell’ovest del paese, che ha deciso di sostenere la resistenza popolare alla repressione. Questa organizzazione, che si batte per una maggiore autonomia dello Stato di Rakhine, è stata sottoposta a forti pressioni da parte dell’esercito tra il 2018 e il novembre 2020, in un conflitto che ha portato allo sfollamento di più di 200.000 persone.
Dopo il colpo di stato, l’Arkan Army aveva deciso di inviare un rappresentante al Consiglio di Stato (l’organo di governo dei golpisti), cosa che ha suscitato molte critiche da parte del popolo Rakhine. È in questo senso che l’inversione dell’AA, decidendo di sostenere i manifestanti, rappresenta una grande battuta d’arresto per i militari e accentua il loro isolamento all’interno del paese. Inoltre, l’AA, il TNLA (Ta’ang National Liberation Army) e il MNDAA (Myanmar National Democratic Alliance Army), che fanno parte di un’alleanza militare ,”hanno avvertito i militari che lavoreranno con altre organizzazioni etniche armate e con i sostenitori della democrazia per difendersi dalla brutale repressione del regime se la violenza continuerà”, secondo il giornale birmano The Irrawaddy.
Tutto ciò sta ad indicare che il colpo di stato e soprattutto l’eroica resistenza dei giovani, dei lavoratori e delle classi popolari in generale nelle grandi città e nei centri urbani sembra avere un effetto sulla lotta per l’autodeterminazione delle minoranze etniche oppresse e quindi su alcune delle loro organizzazioni. Come possiamo leggere sul sito della CNN: “Durante gli anni di conflitto nelle giungle e nelle montagne del Myanmar, le popolazioni etniche hanno assistito e sono state sottoposte a orribili atrocità tra cui massacri, stupri e altre forme di violenza sessuale, torture, lavori forzati e spostamenti da parte delle forze armate, così come la discriminazione di stato”. Queste popolazioni sanno che ancora più potere per i militari significa più repressione, guerra e oppressione.
Ma allo stesso tempo, la lotta per il diritto all’autodeterminazione sta spingendo il movimento ad andare oltre, non semplicemente ad accontentarsi del ritorno di un governo civile, ma a sfidare l’intero regime. Questo potrebbe portare a mettere in discussione la leadership della protesta e il ruolo della Lega Nazionale per la Democrazia (NLD) di Aung San Suu Kyi. In effetti, la NLD ha governato a fianco dei militari e non ha fatto praticamente nulla per rimuoverli dal potere, né politicamente né economicamente. E sulla questione dei diritti delle minoranze, come nel caso del genocidio dei Rohingya, Aung San Suu Kyi era complice dei militari. Come ha detto un attivista del Rakhine alla CNN, “Per molti nel nord dello stato, devastato dal conflitto, c’è poca differenza tra i militari e il governo spodestato della NLD, che ha sostenuto le recenti campagne militari nel nostro stato”. L’atteggiamento di molti birmani verso le minoranze etniche è cambiato dopo il colpo di stato, creando un terreno fertile per un’azione comune contro i militari.
L’autodifesa è un tema centrale e un compito fondamentale del movimento di fronte alla feroce repressione della giunta militare. Tuttavia, anche questo compito di preservare la vita dei manifestanti deve essere subordinato agli obiettivi politici del movimento. È in questo senso che si pone oggi la questione della direzione e del modo di determinare gli obiettivi della protesta. La lotta per l’autodeterminazione delle minoranze etniche può effettivamente dare una certa radicalità alla mobilitazione, che potrebbe portare a una profonda e rivoluzionaria messa in discussione del regime. Tuttavia, se la classe operaia, la gioventù e le classi popolari alleate alle minoranze etniche rimangono dietro a direzioni concilianti con i militari, i settori capitalisti nazionali e gli imperialisti, tutta questa forza ed eroismo potrebbe essere deviata in un vicolo cieco o addirittura in una demoralizzante sconfitta.
Philippe Alcoy
Redattore di Révolution Permanente e della Rete Internazionale La Izquierda Diario. Vive a Parigi e milita nella Courante Communiste Revolutionnaire (CCR) del NPA.