Il caso di molestie avvenuto all’interno dell’Università di Bologna ci ricorda (come se ne avessimo bisogno) delle strutture di potere machista e delle dinamiche patriarcali che condizionano la vita di milioni di studentə in ogni ateneo d’Italia. Il silenzio è il cibo di cui si nutre questo sistema: l’autorganizzazione e la lotta i metodi per stroncarlo.
Questa settimana è arrivato il verdetto per un caso di molestie sessuali riguardante un ex direttore di dipartimento dell’Università di Bologna. Una condanna ad un anno e otto mesi, patteggiata, con la condizione di un lavoro di “riabilitazione” con un centro antiviolenza che si occupa del recupero di uomini maltrattanti. La sentenza è dell’ottobre scorso, ma le tre ragazze che hanno denunciato le molestie reiterate di questa figura di potere riconosciuta in Unibo, in accordo con Malaconsilia (consultoria transfemminista autogestita, attiva nel territorio bolognese da circa due anni) che le ha supportate durante tutto l’iter processuale, insieme all’avvocatessa referente, hanno deciso di rendere nota con più dettaglio la vicenda in una lettera di denuncia aperta verso il proprio molestatore e le istituzioni che hanno permesso che agisse impunito nei loro confronti (e nei confronti di chissà quantə altrə studentə), dal 2013 fino al 2021.
Si tratta di una denuncia che rientra in un più ampio contesto nazionale di emersione della violenza machista quotidiana nel mondo universitario: da quella della studentessa della Sapienza stuprata durante le ore di tirocinio, a quelle delle studentə dell’Accademia delle Belle Arti di Napoli contro un professore che agiva in modo molto simile al caso dell’Unibo. Confermando che non si tratta, purtroppo, di una pecora nera, ma di un intero gregge di baroni universitari machisti, il quale pensa di detenere non solo potere amministrativo, ma anche di essere al di sopra di quello giuridico, innalzando la propria morale, machista e violenta, a morale universale. In effetti, per secoli siamo statə convintə che questa fosse la verità, ma oggi sappiamo che non è così e lo faremo capire anche a loro, consapevoli del fatto che nelle istituzioni, dalle scuole alle università, ai luoghi di lavoro c’è un sommerso che per molte donnə è ancora difficile da scoperchiare. In particolare, il ‘baronaggio’ che fa da base per questi soprusi, viene rafforzato dal processo di aziendalizzazione che sta subendo l’università, oltre ai continui tagli ai finanziamenti pubblici, che permettono ai docenti meglio inseriti nella burocrazia accademica di dettare legge, proprio come un padrone d’azienda, non solo sul far passare l’esame o no, ma anche su cui può prendere le borse di studio e chi no, su chi può accedere ai dottorati; alimentando, così, relazioni di potere verticale che alimentano a cascata comportamenti violenti e machisti.
A partire dalla lettera scritta dallə compagnə dell’Unibo, si riconoscono diversi elementi, in chiave transfemminista, che puntano il dito contro le dinamiche patriarcali che sopravvivono nel funzionamento del capitalismo, dandogli una forma. Lo stesso esordio, con una citazione diretta dell’ex-direttore, per il quale “qui dentro funziona così, come cazzo pensi vada avanti questo posto?”, è esemplificativo della dinamica che spesso e volentieri caratterizza casi come questo: l’aspettativa di favori sessuali è un elemento richiesto, nella stragrande maggioranza dei casi a studentesse socializzate donne, per il “funzionamento” di rapporti di potere che dovrebbero garantire la “sopravvivenza” accademica dellə studentə. “Fai come dico io, qualsiasi cosa dica io, e riuscirai a stare in ateneo senza problemi”- anche per cose completamente auspicabili in un sistema di istruzione pubblica. La coercizione emotiva e psicologica esercitata da una figura in una posizione di potere è una dinamica non semplicemente ricorrente ma strutturale nelle scuole, le università, ed i luoghi di lavoro, a cui veniamo educatə sin da piccolə con gli abusi e soprusi in famiglia da parte del padre padrone, o nella scuola dell’infanzia dalla maestra che vuole insegnarci la disciplina. Una storia che ad impatti e gravità differenti abbiamo conosciuto tuttə.
Le narrazioni che emergono dalla stampa borghese, in questo senso, non aiutano affatto: le notizie vengono date sempre in maniera sensazionalistica, personalizzante, e tremendamente colpevolizzante, chiaramente nei confronti delle vittime; sono costruite in maniera tale da poter tracciare un quadro di “cronaca investigativa”, abbastanza composito di luci ed ombre da poter lasciare margini di dubbio, bisogno di “andare in fondo alla verità dei fatti”, anche quando un giudice emette una sentenza (che sa anch’essa di conciliazione). Dando adito ad un viavai di domande e asserzioni, che spaziano dal “se l’è cercata” al “quanto ci ha messo a denunciare?”, e via dicendo. Queste narrative costruiscono l’informazione con l’intento di occultare la natura eminentemente politica dell’accaduto: ancora una volta, si cerca di far passare come un “semplice” fatto di cronaca una vicenda che invece non è affatto isolata. Le molestie, nei nostri atenei, non sono in alcun modo una novità, e non lo sono soprattutto quelle che arrivano da uomini cis bianchi ed etero in posizioni di potere; sono dinamiche di controllo sociale fondate sulla paura e sul silenzio, ai fini di mantenere un potere radicato e difficile da scardinare. Tuttavia, come ricordano le tre ragazze dell’Università di Bologna e lə compagnə della Malaconsilia, non c’è solo da colpire un individuo “aberrante” (nel senso di fuori dalla norma), ma un intero sistema di coercizione.
Anche per questo facciamo nostro, come FIR e Il Pane e Le Rose, il loro appello a scendere in presidio a Bologna questo 25 novembre sotto il Portico dei Servi, come a Roma alla manifestazione nazionale contro la violenza di genere il giorno successivo, perché le risposte di uno stato costruito sull’ingiustizia e la prevaricazione omolesbobitransfobica e misogina non sono abbastanza per sedare la nostra rabbia, e se non lottiamo per la costruzione di spazi sicuri e consapevoli, la violenza machista di genere non si arginerà da sola. Denunciamo l’ipocrisia dell’ateneo di Bologna che, dopo questa vicenda ha iniziato una collaborazione con la Casa delle Donne al fine di aprire uno sportello antiviolenza, ma che è lo stesso ateneo che, un anno fa, privava la Malaconsilia del suo spazio in Via Zamboni!
Foto dal presidio di oggi all’Unibo.
Chiaramente, non possiamo dirci contrariə all’apertura di luoghi di interfaccia in cui le studentə possano mettersi in rete, chiedere aiuto e consiglio, nei luoghi che si trovano a frequentare per necessità, come quelli di studio. Ma crediamo che questo processo debba provenire dall’autorganizzazione dellə studentə in quanto lə unicə che possano difendere in modo disinteressato i propri bisogni; le istituzioni, come gli atenei, devono solo mettersi al servizio dellə studentə fornendo spazi, finanziamenti e persone qualificate che restano, però, sempre in forte dialogo con lə studentə stessə che si sono organizzatə.
Anche qui sta il punto: non basta mettere alla sbarra uno stupratore, ma ripensare l’intero modo in cui si formano, si informano e si nutrono i rapporti sociali e di potere all’interno di Unibo ed in tutto il sistema universitario italiano. L’università, in Italia, è costruita su assunti profondamente misogini, omolesbobitransfobici e rivolti al profitto nelle sue attività, perfettamente inserita nel lavoro di mantenimento di uno stato che impone queste caratteristiche al suo ordine per interno.
Gridare un “no” convinto alla violenza di genere e agli abusi in ateneo deve diventare un richiamo per rivendicare un’università completamente nuova: un’università in cui l’autogestione studentesca transfemminista è in dialogo con un nuovo modo di comunicare il sapere, non per formare delle macchine di manutenzione dell’esistente ma per essere protagonistə di un luogo dedicato all’emancipazione e alla libera circolazione e produzione di cultura e scienza; non per diventare “macchine da laurea” in perenne stato di ansia per non essere riuscitə a conseguire il titolo accademico in tempi record, ma per poter sviluppare modi di organizzare i saperi volti a democratizzare la nostra economia, salvaguardare l’ambiente, rimettere al centro dei processi produttivi chi li anima, spezzare le catene dell’omolesbobitransfobia e spazzare via chi ancora propone discorsi riduttivistici e dannosi, che ancora impediscono passi avanti fondamentali, ad esempio, per la tutela dellə nostrə sorellə trans, come alla meno peggio fa la destra conservatrice al governo.
Ci rifiutiamo di ricoprire il ruolo delle ennesime vittime sacrificali di Schrödinger: al tempo stesso agnelli indifesi di fronte al mostro mattatore, e sediziose sirene che aspettano a denunciare per trarne chissà quale forma di ricavo individuale. Rivendichiamo di essere ai nostri posti di combattimento nelle lotte che renderanno il patriarcato la postilla di un brutto e obsoleto passato. Perché se è vero che il silenzio è la forza più importante per mantenere al potere gli stessi uomini abusatori, la mobilitazione collettiva è quella più importante per spazzarli via definitivamente.
Sappiamo perfettamente che questa è una sfida ardua ai tempi della Meloni e della vittoria populista della destra, in un contesto dove ancora manca un’alternativa organizzata che possa catalizzare i bisogni dellə studentə e costruire quelle reti che non solo mettono in discussione l’esistente, ma pensano anche a rivoluzionarie; nonostante ciò siamo convinitə che a partire dai luoghi del sapere, organizzandoci al fianco dellə insegnantə, dellə lavoratorə, possiamo conquistare la forza necessaria per sradicare alla base questo sistema marcio.
Che un caso non rimanga più un caso: toccano un* toccano tutte*!
Luca Gieri
Nato a Toronto nel 1998, studente di scienze politiche all'Università di Bologna presso il campus di Forlì, militante della FIR e redattore della Voce delle Lotte. Cresciuto a Bologna, ha partecipato ai movimenti degli studenti e di lotta per la casa della città.