A differenza delle promesse di Giorgia Meloni di non voler toccare il diritto all’aborto, la sua coalizione politica continua i suoi progetti di attacco all’IVG come col DDL Menia. Un attacco che è già realtà nelle regioni dove governa, come le Marche, e che va respinto con una grande mobilitazione.
Quarantacinque anni dopo l’approvazione della 194, quante e quali cose della legge italiana che regolamenta l’aborto rispondono ai cambiamenti che sono avvenuti in tutti questi anni nelle pratiche dell’aborto, nei bisogni sociali dellə donnə di tutto il mondo, e nella morale di chi invece vuole continuare a scegliere al loro posto?
In questo articolo vedremo come l’aborto non è un “diritto acquisito” nel nostro paese, e la stessa legge in vigore ha limiti e difetti profondi, che possono essere criticati e superati seriamente solo a partire dai bisogni e dalle pratiche concrete dellə donnə, dai percorsi di attività e di lotta autonoma rispetto alle politiche istituzionali e alle politiche ipocrite, del tutto insufficienti, quando non di fatto anti-aborto, dei partiti “progressisti” e che in teoria difendono l’IVG. Non possiamo delegare a queste forze la risposta all’attacco al diritto all’aborto che la destra sta portando a vari livelli.
Menia e gli altri: le nuove proposte di legge della destra contro il diritto all’aborto
Dopo la proposta del senatore Gasparri del 14 ottobre 2022 (presentata anche nelle precedenti legislature), il 13 gennaio scorso il senatore Roberto Menia ha depositato un nuovo disegno di legge per la modifica dell’articolo 1 del Codice Civile per il riconoscimento giuridico del concepito.
Che vuol dire? Che secondo il disegno di legge a prima firma del “fratello” senatore, un ovocita fecondato deve avere personalità giuridica, e quindi acquisire diritti, magari contrapposti a quelli della donna adulta che lo porta nel proprio utero.
Questo del senatore Menia (FdI) è in realtà il quarto disegno di legge “pro-life” presentato da inizio legislatura, cioè nell’arco di soli tre mesi. Un’assurdità, anche dal punto di vista giuridico. Vediamo perché.
L’articolo 1 del Codice Civile è molto chiaro sul fatto che “la capacità giuridica si acquisisce dal momento della nascita” e che “i diritti che la legge riconosce al concepito sono subordinati all’evento della nascita”.
Se passasse la proposta di legge, un embrione e una persona adulta avrebbero la stessa capacità giuridica, ovvero la capacità di essere soggetto di diritti e di obblighi. E i diritti della persona che porta in grembo quell’embrione che fine fanno? Chi decide per il proprio corpo?
Anche il diritto internazionale afferma in maniera inequivocabile che le decisioni sul proprio corpo devono essere fatte dal singolo nel rispetto del diritto all’autonomia e all’integrità corporea. In altre parole, le decisioni che prendi sul tuo corpo dovrebbero essere solo tue! Il DDL Menia vuole invece riaffermare che le scelte sul corpo dellə donnə possono invece appartenere allo Stato, alla chiesa cattolica che sta dietro tutti i gruppi antiabortisti, ai mariti e agli uomini in generale.
Un altro testo presentato dal capogruppo della Lega, Massimiliano Romeo, all’articolo 3 prevede, tra l’altro, che “il concepito è riconosciuto quale componente del nucleo familiare a tutti gli effetti”.
Accanto a queste c’è anche una proposta di Isabella Rauti di FdI che chiede l’istituzione, il 25 marzo, della “Giornata del nascituro”. Un accumularsi di proposte di legge e iniziative che vorrebbero glorificare la famiglia e la produzione di figli, riducendo le madri a incubatrici come se fossimo nell’antica Roma schiavista, e nello stesso momento in cui si peggiorano le condizioni di milioni di famiglie povere col taglio del reddito di cittadinanza
Ma non è finita! Massimiliano Romeo senatore leghista, si focalizza sul garantire la presenza nei consultori di “personale medico e ostetrico anche obiettore di coscienza”. Secondo il testo, già presentato, i consultori andrebbero “modificati per assicurare la tutela della vita umana fin dal concepimento”, cioè esercitare qualsiasi pressione possibile, dando il più ampio spazio possibile agli antiabortisti cattolici, perché venga impedito alle donne di esercitare un diritto stabilito per legge e di avere l’ultima parola sul proprio corpo.
Queste personalità e i movimenti che a loro fanno capo, grazie a questo governo, sono usciti dalla nicchia di ultras cattolici e faranno una pressione reale per influenzare le decisioni politiche dei prossimi anni. Le tesi restano sempre estreme, ma il linguaggio si è raffinato per conquistare un pubblico più largo, facendo prima di tutto ricorso alla stessa terminologia dei diritti umani.
Lottiamo perché l’aborto sia un vero diritto, non uno stigma
Contrastare lo stigma dell’aborto significa soprattutto cambiare la narrazione intorno a questo argomento. Significa parlarne normalmente, senza tabù, senza dramma, anche positivamente.
Significa riappropriarsi della parola “vita” senza lasciarla in appannaggio alle chiese, ai pro-life e agli integralisti, ribaltandone il significato che costoro vi attribuiscono. Stiamo parlando innanzitutto della nostra vita.
Stiamo parlando della nostra esperienza di autodeterminazione.
Ogni giorno, in tutto il mondo, ci sono centinaia di migliaia di donne che abortiscono; una gravidanza su quattro si conclude con un aborto. Secondo molti studi, la stragrande maggioranza delle donne non si pente di avere abortito e pensa che la decisione di interrompere la gravidanza sia stata giusta. Nonostante ciò, la narrazione dell’ aborto che si fa in Italia è molto spesso auto-stigmatizzante, rimuovendo il dato fondamentale:: non è una scelta facile, è una scelta dolorosa. Viene adombrato anche il rischio del rimpianto e del “pentimento” per sottolinearne la drammaticità, quasi a voler lenire il senso di colpa atavico che ci viene inculcato. Contrastare lo stigma dell’aborto è allora necessario ancora fondamentale nel nostro Paese, altrettanto importante è la lotta per migliorare le leggi, affinchè ciò avvenga. Senza la destigmatizzazione dell’aborto, non ci sarà mai libera scelta.
Cominciamo fin da subito stabilendo che l’aborto non è una parolaccia. Non abbiamo bisogno di usare eufemismi sull’aborto e di nasconderlo nelle parole “diritti delle donne” o “salute riproduttiva”. Iniziamo a chiamarlo con il suo nome. Semplicemente: l’aborto.
Partiamo dai fatti. Ormai è sotto gli occhi di tutte che la legge 194 si è rivelata un cavallo di troia per le donne. Non basta trincerarsi nel difenderla dagli attacchi che vengono sferrati dai governi che vogliono incrementare la natalità in Italia sulla pelle dellə donnə, ma lottare affinché la 194 venga decisamente migliorata.
Sappiamo che l’aborto medico, molto meno invasivo di quello chirurgico, è da sempre osteggiato in Italia. Il motivo è molto chiaro: si vuole ostacolare in tutti modi una possibilità di abortire ritenuta troppo “facile”: la ru486 è stata introdotta in Italia nel 2009 – solo nove anni fa!-, mentre già in decine di altri Paesi del mondo hanno sancito da tempo che l’aborto farmacologico è sicuro, efficace e soprattutto non nocivo per la salute delle donne. Tutto il contrario della narrazione che è stata fatta in questi anni nel nostro Paese, una narrazione che purtroppo fa ancora presa e che costringe le donne a sottoporsi a pratiche psicologiche e mediche più invasive che trasformano l’aborto in un trauma così che possa permanere a vita il senso di colpa. Cominciamo ad aprire il conflitto e ribadire che abbiamo in mano le procedure per abortire senza chiedere permesso a nessuno, ma solo eventualmente il supporto che desideriamo, e iniziamo a costringere le strutture pubbliche sanitarie ad adeguarsi e a migliorare le prestazioni dovute.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità menziona il mifepristone e il misoprostolo (farmaci per l’aborto farmacologico) nell’elenco dei farmaci essenziali che dovrebbero essere disponibili in tutti i paesi. Secondo i dati dell’OMS, le compresse di mifepristone e misoprostolo possono essere tranquillamente utilizzate a casa durante le prime 9 settimane di gravidanza. Provocano un processo molto simile a un aborto spontaneo (naturale). Utilizzate nel modo giusto, grazie ad una corretta educazione sessuale e di prevenzione nelle scuole ed il giusto supporto medico, oltre ad avere un’effiicacia del 98%, permettono un aborto più sicuro e confortevole.
Il caso Marche: non solo un laboratorio per le destre
La situazione critica nelle Marche riguardo alla non attuazione delle linee di indirizzo per l’aborto farmacologico, l’altissimo tasso di obiezione di coscienza che arriva fino al 70%, i casi degli ospedali dovre troviamo obiezione di struttura, come quello di Fermo, sono ormai balzati alla cronaca e hanno riempito le pagine della stampa, fino ad arrivare a definire questo territorio come “laboratorio della destra”. Il non detto però è che questa situazione deriva da due decenni di amministrazione di centrosinistra e che la legge n.145 ha minato dall’interno il sistema sanitario pubblico regionale. La giunta Ceriscioli e la maggioranza, che si reggeva tutta sul PD, con questa legge hanno portato a compimento una costante privatizzazione della sanità pubblica regionale.
Dal 2016 la regione ha aumentato di 2 milioni di euro il budget per la sanità privata; gli ospedali pubblici di rete e di polo sono stati chiusi, il 16% dei posti letto ospedalieri è stato privatizzato, la lungo degenza e la riabilitazione pubblica sono state spazzate via, il 60% complessivo è in mano privata.
Su un totale di circa novecento strutture pubbliche socio sanitarie il 41% è stato privatizzato: il 77% dei posti letto!
La privatizzazione nelle Marche ha assunto una vera e propria forma di “cartello”. Infatti si è creata una rete di imprese denominata “Casa di cura delle Marche”, che raggruppa le principali cliniche private e che ha già percepito tra Stato e Regione 54 milioni di euro (più 2 milioni di euro rispetto al 2014) ai quali vanno aggiunti 37 milioni di euro per un “progetto” che doveva attrarre mobilità attiva e ridurre quella passiva. Ma abbiamo visto con quali risultati.
Sono stati chiusi gran parte dei piccoli e medi ospedali, comprese strutture socio sanitarie con il pretesto dei costi eccessivi per il sistema pubblico, e contestualmente, sono stati erogati a privati circa 93 milioni di euro. Si badi bene, questo è un punto delicato e gravissimo: la privatizzazione non ha dato continuità al servizio che prima garantiva il pubblico, ma è finita nel profitto, e nelle aree più popolate e in gran parte dell’entroterra regionale è stato spogliato dei presidi sanitari pubblici. Dopo aver tagliato posti letto ospedalieri pubblici, quei posti vengono riattivati e assegnati in convenzione al privato.
Quali sono i vantaggi in termini economici e di miglioramento dei servizi sanitari sono noti ai marchigiani che vi rivolgono. Scelte strategiche, che riguardano la salute di tuttə, che continuano ad essere fatte, oggi come allora, senza alcuna trasparenza e chiarezza per lə cittadinə.
Tutta questa situazione ha finito per riversarsi anche sulla rete dei consultori. Consultori che ad oggi sono fortemente sottodimensionati rispetto ai parametri previsti dalla normativa: l’organico così ridotto rende difficile garantire interventi mirati ed efficaci. Tant’è che anche qua sono state fatte convenzioni con il privato, come è il caso dell’AIED che per quarant’anni ha avuto una convenzione per operare nell’ospedale Mazzoni di Ascoli Piceno, convenzione che ora pare sia stata sospesa dalla giunta di Saltamartini.
Per capire che cosa sia l’AIED basta andare sul banner di presentazione del sito: ci accoglie una retorica narrativa svilente dove educazione fa rima con colpevolizzazione; una foto eteronormata di coppia bianca con corpo conforme e giovane (ma non troppo giovane) e una serie di bambolotti bianchi a dirvi come, quando e perché fare figli (solo maschi).
Essere pro-scelta è una pratica costante che ha delle regole: non giudicare, non stigmatizzare, ascoltare attivamente e difendere sempre la libertà di scelta.
Questi principi l’AIED dimostra di violarli continuamente, offrendo un servizio (non pubblico) che strizza l’occhio ai movimenti anti-scelta e antiabortisti. Non sono poche le segnalazioni dell’imposizione di un colloquio psicologico obbligatorio prima del rilascio del certificato IVG o inviti pressanti a rivolgersi ai servizi sociali per un aiuto economico o ancora suggerimenti al parto in anonimato. Moltə donnə che si sono rivolte a questa struttura non sono statə presə in consegna semplicemente perché il loro era un aborto non fatto per scelta, ma in seguito a malformazioni del feto. Moltə donnə che si sono viste costrettə ad accedere a questa struttura si sono trovate in difficoltà a sostenere i costi degli esami per accedere all’intervento, esami che se effettuati in un consultorio pubblico sarebbero gratuiti secondo la legge 194. Pensiamo a cosa voglia dire essere immigratə e senza lavoro e trovarsi davanti solo a questa realtà privata come risposta al proprio bisogno di interrompere una gravidanza. Pensata cosa possa voler dire essere una persona transgender e veder patolocizzato e criminalizzato il proprio percorso di ivg. Queat’associazione solo nel 2020, ultimo anno per cui sono disponibili i dati, ha garantito 232 interruzioni di gravidanza nelle Marche su 1.351 aborti volontari in regione.
Oltre le leggi sull’aborto: lottare ed esercitare il nostro diritto dal basso contro la criminalizzazione
Infine, da femminista, mi chiedo se l’aborto debba proprio essere regolato con una legge a sé, che di fatto ne limita l’esercizio. Perché non può essere trattato come qualunque altro servizio sanitario a livello legislativo, seppur meglio a livello di servizio, vista l’importanza e le tempistiche entro cui farlo in sicurezza che, per inciso, non sono affatto i 90 giorni, numero stabilito da una verità non scientifica ma religiosa e morale su quando si può definire vita, dando comunque priorità alla gestazione che al corpo gestate?!
Anche le migliori leggi sull’aborto sono in realtà anti-abortiste: escludono sempre qualcosa, perché lo scopo e la ragione per cui esistono è solo quello di limitare la libertà dellə donnə.
Cosa penseranno lə attivistə polacche che hanno intrapreso una campagna contro il tabù dell’aborto nel loro Paese, organizzando incontri sull’uso della pillola abortiva sfidando più volte il potere costituito, come fanno da anni anche lə compagnə irlandesi di Rosa con i tour di treni e autobus per diffondere la conoscenza sulle pillole abortive? Cosa penserebbe Rebecca Gomperts che sfida da anni i regimi di quei Paesi che imprigionano le donne che vogliono esercitare una libera scelta sul proprio; le femministe argentine, che sono riuscite con le loro lotte ad imporre la legalizzazione, forti della esistenza di una rete nazionale femminista che accompagna migliaia di donne all’aborto, così come in Cile, in Ecuador, e in diversi altri Paesi dell’America Latina che alle reti femministe di accompagnamento all’aborto da anni aiutano decine di migliaia di donnə. Altro che abortire da solə in ospedale.
Perché anche grazie alla pillola abortiva e alla scoperta delle donne brasiliane che hanno sperimentato con successo l’uso del misoprostolo, oggi siamo in un nuovo scenario.
Siamo nello scenario che vedrebbe lə donnə protagonistə delle proprie scelte, le vedrebbe di nuovo proprietarie di competenze ed esperienze che loro stessə hanno vissuto, che vedrebbe le donne costruire un sapere che va oltre le sole competenze mediche; quello di cui necessitiamo è la decriminalizzazione di queste pratiche.
Certo, la strada è ancora in salita ma bisogna prendere atto che potremmo avere noi il coltello dalla parte del manico.
Il dibattito in Italia è stantìo, fa fatica a registrare questi enormi rivoluzionari cambiamenti. Resta incollato, come in una trappola per topi, agli anni 70. Diritto o non diritto, o addirittura diritto “buono” o diritto “cattivo”, precipitando così a capofitto in pieno stigma. Non si riesce a fare un bilancio serio di una legge che si è rivelata fallimentare. Ci si rifugia nella difesa ad oltranza di un fortino svuotato, attraverso il continuo richiamo agli attacchi dei fondamentalisti. Di fatto è un dibattito fuori dal tempo. Di fatto è un ragionare che non tiene conto di una visione aggiornata e globale. Dobbiamo provare ad aprire il conflitto anche qui in Italia, pubblicando e diffondendo manuali per l’aborto autogestito con le pillole, aprendo consultorie femministe, offrendo numeri telefonici a cui rivolgersi per informazioni su come abortire “a casa propria con le amichə”, ispirandosi alla rete femminista cilena di accompagnamento all’aborto. Dobbiamo esigere il ritiro immediato del disegno di legge Menia che è non solo una minaccia all’autodeterminazione dellə donnə, ma una mannaia sul diritto alla salute. “Noi non abbandoniamo le donne, come fa lo Stato” è lo slogan delle Socorristas en Red argentine. Questo non vuole dire dismettere la lotta per l’applicazione della 194, vuole dire invece cambiare completamente la postura politica dalla quale partono le nostre istanze per non accontentarci di una vittoria parziale.
Ylenia Gironella
Laureata in psicologia clinica e di comunità, con specializzazione nel metodo Montessori, educatrice, attivista di Non Una di Meno transterritoriale Marche. Vive a Recanati (MC).