Negli ultimi mesi, in risposta ai tagli e alla riforma Bernini, abbiamo visto nascere in varie città universitarie assemblee precarie, formate da student*, ricercator* e lavorator* precar*. La scorsa settimana c’è stata la prima assemblea nazionale, in cui sono state poste le basi per i successivi mesi di mobilitazioni. La chiave di volta di questa mobilitazione sarà la capacità di estendersi e costruire alleanze con la componente studentesca e altri settori di precariato, dentro e fuori l’università.


L’8 e il 9 febbraio si è svolta a Bologna la prima assemblea nazionale delle assemblee precarie universitarie, nate per opporsi ai tagli e la riforma Bernini. Oltre ai vari coordinamenti locali e associazioni studentesche erano presenti anche dei delegati sindacali USB e FLC-CGIL, con una partecipazione che ha superato le 400 persone.

L’assemblea sì è aperta con una prima plenaria, in cui le varie assemblee locali hanno condiviso il loro percorso e la loro composizione, seguita poi da tre diversi tavoli di lavoro: contro e oltre la riforma, lavorare e studiare nell’università definanziata, e l’università tra guerra e militarismo. Una plenaria finale e un corteo hanno poi animato la domenica.

L’obiettivo di questa due giorni era costruire una piattaforma di rivendicazioni comuni, darsi delle parole d’ordine e slogan, e stabilire una giornata di mobilitazione nazionale. Sia durante le plenarie, che durante i tavoli di lavoro sono emerse numerose proposte e riflessioni, che confluiranno nel manifesto del precariato accademico, che le assemblee hanno deciso di creare. La chiave di volta di questa mobilitazione sarà la capacità di estendersi e costruire alleanze con la componente studentesca e altri settori di precariato, dentro e fuori l’università. Come è stato ribadito più volte durante l’assemblea, il problema non sono soltanto i tagli e la riforma, ma l’intero sistema di università neoliberale, che va abbattuto e ricostruito dalle fondamenta.

 

L’università italiana: criticità e prospettive oltre la riforma Bernini

La riforma Bernini, nonostante si inserisca in un percorso di smantellamento dell’università pubblica avviato da tempo, è estremamente peggiorativa e consacra il predominio del precariato in accademia, con la creazione di 6 diverse figure attraverso la riforma del pre-ruolo. Si tratta di figure a tempo determinato, senza nessuna delle tutele associate al lavoro subordinato, più brevi e peggio pagate di quelle già esistenti. Il tutto accompagnato da ingenti tagli, pari a 173 milioni rispetto al FFO del 2023, al netto dell’inflazione. Il FFO, ovvero il fondo di finanziamento ordinario, è l’unico con cui si possono finanziare posizioni a tempo indeterminato, e una sua riduzione rende di fatto ancora più difficoltoso l’accesso a posizioni lavorative stabili. A questo si aggiunge il mancato rifinanziamento del Piano Straordinario B, del valore di 340 milioni, portando così a una riduzione complessiva di 513 milioni.

Ma i problemi dell’attuale sistema universitario non si riducono alla mancanza di fondi e allo sfruttamento dei lavoratori precari. Il sistema di selezione e reclutamento, insieme alla valutazione basata su indici che non premiano la qualità ma accentuano la mercificazione del sapere, contribuiscono a un’università sempre più modellata su logiche di mercato. Questa mercificazione non solo trasforma i corsi di studio in percorsi orientati alle esigenze economiche, riducendo gli studenti a forza lavoro in formazione, ma costringe i ricercatori a una produttività esasperata e alla subordinazione agli interessi dei privati.

 

Il processo di reclutamento e il sistema di valutazione

Il meccanismo di reclutamento delle Università Italiane, che si manifesta attraverso i concorsi locali per accedere al ruolo e al pre-ruolo, spesso criticato per il suo carattere semi-feudale, viene descritto da Giulio Palermo nel suo libro “Baroni e portaborse” come un vero e proprio meccanismo di cooptazione.

Secondo l’analisi dell’autore la cooptazione universitaria è una pratica conservatrice, che reprime l’autonomia di pensiero, e incanala la ricerca lungo linee già consolidate. Il processo cooptativo si instaura a partire dalla nomina delle commissioni di concorso, che vengono costituite all’interno del sistema universitario stesso, spesso a seguito di accordi informali tra i vari docenti. Questo crea una vera e propria blindatura dei concorsi, il cui esito è determinato sia dal rapporto personale tra i professori e i ricercatori precari sia dall’aderenza al filone di ricerca privilegiato dalle formazioni accademiche più influenti. Il riprodursi di questo meccanismo non permette il perseguimento di filoni di ricerca liberi, ma costringe ad adeguarsi a quelli già delineati negli equilibri accademici, spesso riflesso dell’ideologia dominante. A tal proposito, non è un caso che nei dipartimenti di economia gli studiosi marxisti siano progressivamente scomparsi, così come quelli appartenenti all’economia eterodossa tendano a essere isolati.

Inoltre, la cooptazione genera una forte disparità di potere. La promessa dell’istituzione di un concorso “ad hoc” determina il costituirsi di uno scambio intertemporale, caratterizzato da una latente incertezza, tra aspirante universitario e professore già integrato.  Si tratta ovviamente di un rapporto squilibrato, in quanto il primo non avrà mai la certezza che il suo impegno sarà ripagato, ma da cui non si può sottrarre, pena l’esclusione dalla carriera universitaria. Eventualità che potrebbe comunque verificarsi anche rimanendo all’interno di questo rapporto. Per quanto si tratti di una logica oppressiva e annichilente, per entrare a far parte dell’università è necessario accettarla. Chi non sta alle regole del gioco è condannato ad esserne escluso o relegato ai margini. 

Al processo di reclutamento si aggiunge il sistema di valutazione, che svilisce ulteriormente la ricerca e contribuisce a sua volta a  indirizzarla verso temi di tendenza e teorie ortodosse, più funzionali alla pubblicazione su riviste affermate che all’avanzamento scientifico. I parametri di valutazione dei concorsi seguono linee guida generali fornite dall’ANVUR, ma i criteri specifici possono variare a seconda del dipartimento o del concorso stesso. 

Analizzandoli a grandi linee possiamo riportare due approcci utili per l’analisi svolta in questa sede: la peer review e l’analisi bibliometrica (Gianicola e Colarusso, 2020). Con peer review si intende un insieme di procedure in cui un gruppo di studiosi, generalmente un comitato di esperti del settore, valuta la qualità del lavoro scientifico prodotto da altri ricercatori. Questo sistema è però lento e potenzialmente influenzato da favoritismi.

 Per quanto riguarda invece l’analisi bibliometrica, questa si basa su indici quali l’impact factor (IF), che ha portato alla proliferazione di riviste predatorie, a una riduzione della qualità della ricerca a favore della quantità, e al fenomeno del publish or perish. Infatti, l’IF è basato sulle citazioni ricevute dagli articoli pubblicati in determinate riviste, non sulla qualità della produzione scientifica. Per la sua configurazione, l’indice esclude numerose riviste potenzialmente di qualità ma penalizzate sia per la loro adesione a scuole di pensiero eterodosse, sia per la loro recente istituzione. Una valutazione di questo tipo, oltre a basarsi sull’ipotesi contestabile che il valore di un lavoro scientifico dipenda dal numero di citazioni, favorisce il proliferare di meccanismi quali lo scambio di citazioni e pressioni da parte delle riviste per citare lavori interni, che ne minano ulteriormente la validità (Figà Talamanca 2000).

In generale, chi fa ricerca è sottoposto a una forte pressione per pubblicare il maggior numero possibile di articoli, poiché questo viene presentato come un requisito essenziale per avanzare nella scala del precariato accademico. Il dogma dell’iperproduttivismo che ne deriva, innanzitutto, orienta la ricerca principalmente verso il soddisfacimento dei criteri imposti dalle riviste, sia in termini di metodo che di contenuto, sacrificando le inclinazioni personali e la qualità scientifica; inoltre, rappresenta una fonte significativa di stress e ansia, aggravata dalla contraddizione di concorsi che, nei fatti, si basano solo apparentemente su questi stessi criteri.

Tutto ciò, frutto dell’unione tra il processo di liberalizzazione dell’università partito negli anni ’80, e il sistema semi-feudale che caratterizza da sempre l’università, è arricchito da un ulteriore aspetto problematico: il crescente ruolo che enti militari e imprese belliche ricoprono al suo interno, contro il quale si stanno sollevando sempre più voci, compresa quella della mobilitazione per la Palestina.

 

La militarizzazione del sapere

Il riaccendersi della mobilitazione a sostegno del popolo palestinese ha portato al centro del dibattito il tema della militarizzazione negli atenei. La mobilitazione per la Palestina denuncia da mesi l’inopportuna presenza di accordi, non solo con università israeliana la cui ricerca è in gran parte destinata all’annientamento dei palestinesi, ma anche con imprese belliche, organizzazioni ed enti militari.

La militarizzazione è un processo che non interessa solo l’università ma che si sta imponendo come narrativa dominante nel paese e in Europa. In Italia questo fenomeno è rappresentato principalmente dalla promozione e diffusione della cultura della sicurezza, di cui il decreto sicurezza (ddl 1660) ne è un esempio lampante. Ma non si tratta semplicemente di una questione retorica, nella pratica abbiamo assistito ad un aumento delle spese militari nella nuova finanziaria, a discapito di tagli nel settore sanitario e dell’istruzione. Nel contesto accademico, la riduzione dei finanziamenti pubblici ha come rovescio della medaglia un aumento di investimenti privati, in particolare militari. D’altronde l’interesse delle aziende belliche ad infiltrarsi nelle università è duplice: da un lato queste collaborazioni gli offrono la possibilità di sfruttare il lavoro degli studenti tramite tirocini non pagati e attingere alle conoscenze di lavoratori estremamente formati, quali sono i ricercatori. Dall’altro, legittimano la cultura della difesa e della sicurezza, così come le aggressioni imperialiste. Quest’ultimo punto si lega anche alla questione del prestigio, sia quello scientifico che aziende come Leonardo ottengono nel collaborare con gli atenei, sia quello politico che ottiene invece l’università.

Su questo argomento è particolarmente utile il libro di Michele Lancione “Università e militarizzazione, il duplice della libertà di ricerca” (scaricabile qui). Lancione offre una radiografia dei rapporti tra gli atenei e le organizzazioni di stampo militare, dalla Leonardo, Med-Or, alla NATO e al ministero della difesa stessa, evidenziandone la preoccupante espansione.

Nel 2024, Leonardo era coinvolto in circa sessanta progetti di ricerca con le università italiane, oltre a cinque accordi quadro con importanti atenei come il Politecnico di Milano, il Politecnico di Torino, La Sapienza, l’Università di Genova e quella di Bologna. Parallelamente, una parte dei fondi del PNRR è stata destinata alla costruzione della Cittadella dell’Aerospazio, un progetto nato dalla collaborazione tra Leonardo, il Politecnico di Torino e la NATO, con l’obiettivo di sviluppare tecnologie aerospaziali e militari. 

Anche l’esercito riveste un ruolo centrale in questo tipo di collaborazioni: l’Università Federico II di Napoli, ad esempio, ha da tempo un accordo-quadro con il Centro Alti Studi per la Difesa (CASD) e il Comando Operazioni in Rete dello Stato Maggiore, finalizzato alla realizzazione di progetti congiunti. Inoltre, è stato recentemente istituito il Piano Nazionale della Ricerca Militare. Si tratta di un fondo gestito direttamente dal Ministero della Difesa, che lo ha descritto come l’equivalente del Piano Nazionale di Ricerca (PNR) amministrato dal Ministero dell’Università e della Ricerca (MIUR).

Ad oggi le mobilitazioni universitarie hanno elaborato varie strategie e piani di lotta per contrastare questi fenomeni: la collaborazione/adesione al BDS (boicottare, disinvestire, sanzionare), la chiamata di scioperi, presidi, manifestazioni o anche solo mozioni nei dipartimenti per sciogliere tutti gli accordi a fini bellici e impedirne la creazione di nuovi. Una delle criticità di questo tipo di azioni politiche è la difficoltà nell’individuare gli accordi, perché spesso si nascondono dietro tecnologie dual use, o aziende che fanno da intermediario tra l’università e imprese belliche. Per questo motivo un’altra forma di azione utile e necessaria è la sistematizzazione del rapporto tra il mondo accademico e quello militare. Lancione cita il progetto Demilitarize Education che sta lavorando alla creazione di un database pubblico dei contratti tra università Uk e industria delle armi.

È evidente che i tagli e la precarizzazione hanno un peso rilevante nella legittimazione e normalizzazione dell’ingresso di imprese private e belliche, e questo crea numerosi punti di contatto con la mobilitazione a supporto della Palestina. Una convergenza dei due movimenti permetterebbe di potenziare entrambe le lotte, allargando il movimento e inserendo le rivendicazioni in un contesto politico più ampio.

È necessario spezzare i meccanismi che alimentano la militarizzazione degli spazi del sapere e contrastare la retorica della sicurezza e della difesa, usata per legittimare la conservazione dei principi occidentali e imperiali, affinché non venga accettata come giusta e inevitabile. In un terrificante articolo su Il Foglio, Luca Roberto afferma che l’inserimento, nello statuto dell’Università di Pisa, dell’impegno a non effettuare più alcun tipo di ricerca in ambito militare rappresenta un precedente pericoloso, che potrebbe portare aziende come Leonardo a investire all’estero, a spese <<di innovazione e nuova occupazione>>.  Quanto scritto da Roberto svela la completa assenza di critica nei confronti della militarizzazione dell’università. La collaborazione con imprese belliche è vista esclusivamente come vantaggiosa, in quanto portatrice di progresso scientifico e tecnologico, ma non viene messo in discussione il contenuto di tale progresso, ovvero l’avanzamento di strumenti di guerra e morte. Quella del giornalista del foglio non è una voce fuori dal coro, ma rappresenta la visione della classe dominante in Italia, a cui va contrapposta quella di studenti e lavoratori precari, che rivendicano una università e un sapere pubblico, accessibile a tutti, libero da guerra e precarietà.

 

Il potenziale rivoluzionario dei movimenti studenteschi e universitari

Lo scenario fin qui delineato lascia poco spazio all’ottimismo. Non è solo l’università che soffre a causa del processo di liberalizzazione, ma questo fenomeno ha interessato anche la sanità e in generale tutti i servizi sociali il cui obiettivo è garantire diritti basilari, sempre più affidati a servizi privati e di conseguenza sempre meno accessibili. È chiaro quindi che la lotta non si può limitare ai confini dell’università, in quanto parte di un sistema politico ed economico da cui ne dipende e ne è influenzata. Al contrario, deve farsi portavoce di una trasformazione radicale e sistemica della società, trasformazione che non può prescindere dal conflitto.

I movimenti universitari passati difesero strenuamente il principio di un’università e una ricerca autonoma rispetto alle esigenze della produzione capitalistica, ma non è necessario scavare nel passato per trovare il potenziale sovversivo che può scaturire dai movimenti studenteschi e universitari. In Argentina, lo scorso autunno, abbiamo assistito al protagonismo del movimento studentesco, che ha protestato duramente contro il veto presidenziale alla legge sul finanziamento universitario, paralizzando gli atenei e parte del paese, mentre in Serbia, la protesta degli studenti e universitari, partita a seguito del crollo di una pensilina che ha ucciso 15 persone, si è articolata in massicce occupazioni delle università, blocchi autostradali e scioperi in tutta la nazione. Il movimento, che denuncia decenni di privatizzazione e corruzione mentre rivendica aumento dei salari e università gratuita, ha ricevuto supporto da numerosi settori di lavoratori con cui sta cercando di costruire alleanze, ed è stato in grado di far dimettere il premier Milos Vucevic (la seconda carica del paese, visto che nel sistema serbo il potere è concentrato nella mani del presidente, Alexsandar Vucic). Le dimissioni di Vucevic non hanno coinciso con un raffreddamento della mobilitazione, che continua reclamando la pubblicazione di tutta la documentazione sull’ammodernamento della stazione ferroviaria, la caduta delle accuse contro studenti, attivisti e cittadini arrestati nelle scorse proteste, e infine un incremento del 20 per cento del budget per tutte le facoltà della Serbia.

Questi esempi di lotta ci insegnano che se un movimento è in grado di allargarsi e fuoriuscire dai suoi interessi corporativi, impostando parole d’ordine in grado di coinvolgere più settori, allora può diventare una controparte credibile nel conflitto contro governo e istituzioni, da sempre diligenti esecutori degli interessi dei privati. Per fare ciò è importante stabilire quali siano le alleanze prioritarie da perseguire: quella con la componente studentesca, direttamente attaccata da tagli e riforma, offre un potenziale mobilitativo di massa non trascurabile. In aggiunta, gli studenti rappresentano il soggetto più colpito dal sistema universitario attuale, che, tramite l’istituzione dei numeri chiusi, corsi di studio pregni di sapere nozionistico e sempre più modellati sulle esigenze delle aziende, ha accentuato il suo carattere classista e il suo orientamento verso logiche di mercato. Inoltre, è fondamentale creare un collegamento con altri settori di lavoratori precari, duramente colpiti da anni di politiche neoliberali, e sfidare i sindacati a mobilitarsi su una piattaforma avanzata, senza deviare il conflitto verso istanze riformiste.

La piattaforma nazionale a cui sta lavorando l’assemblea precaria rappresenta un ottimo punto di partenza in questa direzione. Oltre a pretendere un aumento del FFO, è necessario richiedere l’istituzione di un’unica figura per il pre-ruolo, la reintroduzione di una scala mobile che adegui automaticamente i salari all’inflazione, anche per i ricercatori universitari, e va garantita l’impossibilità assoluta per le imprese private o statali di finanziare o co-partecipare alla ricerca accademica. Allo stesso modo, deve essere respinto sia l’attuale sistema di reclutamento, basato su concorsi locali le cui criticità sono state ampiamente analizzate, rivendicandone uno su scala nazionale, sia il sistema di valutazione che mercifica e appiattisce il lavoro di ricerca, imponendo il dogma della produttività. In quest’ottica, proponiamo di introdurre un limite di una sola pubblicazione annuale valutabile. 

Infine, per costruire un ponte concreto con gli studenti, è necessario rivendicare il diritto all’abitare e alla mobilità, temi che colpiscono tanto la popolazione studentesca quanto i lavoratori e le lavoratrici precarie, reclamando un tetto agli affitti, un abbonamento ai mezzi pubblici gratuito o calmierato.

Queste rivendicazioni devono rientrare in una lotta in cui studenti e lavoratori siano protagonisti, anche al di fuori dell’accademia e dell’università, per un’università di massa gratuita, realmente democratica e demilitarizzata.

Siamo realisti, pretendiamo l’impossibile”.

 

Laura Colli

 

Bibliografia

Colarusso S & O Giancola (2020) Università e nuove forme di valutazione: Strategie individuali, produzione scientifica, effetti istituzionali. Roma: Sapienza Università Editrice.

Figà Talamanca A (2000) L’“impact factor” nella valutazione della ricerca. Società Italiana per lo Studio della Storia Contemporanea (SISSCO).

Lancione, M. (2023) Università e militarizzazione. Il duplice uso della libertà di ricerca. Torino: Eris. Disponibile a:

Palermo G (2013) Baroni e portaborse. I rapporti di potere nell’università. Eir.

 

 

 

Nata a Modena nel 1999, ha studiato prima a Bologna e poi a Firenze, specializzandosi in Economia dello Sviluppo. Partecipa al Circolo de la Voce delle Lotte di Firenze.