Un anno fa i sindacati presentavano la piattaforma per il rinnovo dei ccnl metalmeccanici, con richieste di sperimentazione della riduzione dell’orario di lavoro e aumenti salariali più consistenti che in passato. La risposta di Confindustria è stata di attacco frontale, risultato dell’ormai sempre più evidente indebolimento delle organizzazioni dei lavoratori e delle lavoratrici del nostro paese e di un contesto inasprito dalla crisi industriale. Il 28 marzo ci sarà sciopero nazionale dei metalmeccanici per pretendere il rinnovo del contratto, dopo mesi di mobilitazione sindacale caratterizzati da una conflittualità che fatica ad uscire dai binari imposti dal gioco burocratico della segreteria della Cgil e una strategia confederale opportunista sulla questione riarmo. Ma nel frattempo lo spazio di manovra per la concertazione si è ridotto enormemente – in un contesto produttivo che cambia rapidamente e vede emergere potenziali nuove avanguardie di classe – quindi si aprono potenziali prospettive di lotta in cui è importante investire con le migliori pratiche del sindacalismo conflittuale.
A Febbraio dell’anno scorso Fiom, Fim e Uilm presentavano la piattaforma per il rinnovo dei ccnl metalmeccanici con Federmeccanica, Assistal e Unionmeccanica. È passato un anno e gli industriali continuano a rifiutarsi di discutere le proposte delle organizzazioni sindacali, continuando a proporre una contro-piattaforma padronale che mira a sterilizzare completamente la dialettica sindacale e negare qualsiasi garanzia di aumento dei salari dopo trent’anni di erosione e stagnazione. Di fronte a questo attacco senza precedenti è emersa tutta l’inadeguatezza delle burocrazie sindacali, che abbiamo già commentato a partire dagli stessi limiti della piattaforma per il rinnovo contrattuale. Il fatto stesso che le organizzazioni degli industriali si siano lanciate in questa offensiva senza precedenti è un campanello di allarme importante di quanto le organizzazioni metalmeccaniche non siano più in grado di reggere il confronto con il padronato, quando in passato erano la punta più avanzata dell’organizzazione sindacale della classe lavoratrice (vedasi la FLM degli anni ‘70, ovvero l’organizzazione unitaria dei metalmeccanici durante la stagione dei consigli di fabbrica). È anche un segnale evidente di quanto stiano sempre più venendo a mancare le condizioni materiali sulle quali ha poggiato la disastrosa strategia concertativa delle burocrazie confederali, tra crisi industriale che non si arresta e esigenza sempre più forte della classe lavoratrice di rilanciare la lotta per il salario.
In questo contesto sempre più difficile e in seguito allo sciopero metalmeccanico del settore automotive, a novembre – a circa due settimane dallo sciopero generale – il segretario della Cgil Maurizio Landini tuonava con un roboante “invito alla rivolta sociale”, per la crescita dei salari e contro la manovra finanziaria del governo. Apriti cielo: giornali borghesi scatenati con attacchi al segretario, padroni in lacrime, piagnistei di esponenti governativi, intellettuali e opinionisti di destra disperati per l’arrivo del “pericolo rosso”. Lo sciopero generale ha avuto numeri discreti e un allargamento anche ai sindacati di base, ma già a gennaio tutto taceva nonostante la gravità della situazione e il diffuso malessere dei lavoratori e delle lavoratrici: nonostante la maggiore frizzantezza non ci sono state eccedenze in grado di rompere gli argini imposti dalla leadership sindacale, alla fine è stata ancora una volta un’occasione sprecata dalla ritualità delle burocrazie. Non è seguito alcun rilancio da parte di Cgil e Uil, nonostante il mancato rinnovo di molti ccnl importanti e la perdita prevista per il 2025 per la gran parte dei salariati di alcune centinaia di euro a causa della manovra finanziaria. Soldi persi che si vanno a sommare alle migliaia di euro perse in inflazione dalla crisi pandemica ad oggi. Il sindacato scompare di nuovo dalla comunicazione di massa, quello di Landini si rivela essere stato solo un clamoroso e maldestro bluff.
Pochi mesi dopo la montagna partorisce il topolino tramite il lancio della campagna referendaria per i quesiti sul lavoro contro il Jobs Act del Governo Renzi e per il contrasto a precarietà e abusi negli appalti, con uno slogan – “il voto è la nostra rivolta” – che in seguito alle sparate di novembre di Landini suona come una beffa della burocrazia Cgil verso i lavoratori e le lavoratrici. Il messaggio è chiaro e facilmente interpretabile: quel poco di sciopero e mobilitazione che si fa deve essere il minimo indispensabile per mantenere il ruolo delle burocrazie confederali, visto che poi alla fine tutto verrà investito nel referendum (di cui scriveremo nel dettaglio prossimamente motivando le ragioni per il sostegno critico). Dato il trend degli appuntamenti referendari passati questa operazione rischia di essere nel complesso solo una campagna testimoniale, anche in ritardo di dieci anni rispetto all’approvazione del Jobs Act, mossa che però svolge l’utile ruolo per la burocrazia Cgil di incanalare la conflittualità su binari più gestibili e controllabili dai vertici. Si preferisce quindi la lotta passiva referendaria alla possibilità di investire massicciamente sul conflitto di classe, nonostante l’urgenza dettata da rapporti di forza sempre più sfavorevoli che fanno perdere terreno in ogni battaglia portata avanti.
Gli effetti di questa disastrosa strategia si sono visti anche nello specifico della mobilitazione metalmeccanica degli ultimi mesi. A gennaio e febbraio sono stati sbloccati due pacchetti da 8 ore per scioperi territoriali, impiegati dalle organizzazioni locali in modo asincrono e scoordinato, praticamente una mobilitazione “omeopatica”. Si è dovuto attendere il mese corrente per proclamare finalmente uno sciopero nazionale metalmeccanico di 8 ore, che si terrà il prossimo venerdì 28 marzo. Ma la titubanza continua a dominare, con la debolissima parola d’ordine “per la ripresa della trattativa” quando bisognerebbe solo pretendere il rinnovo del ccnl con salari degni che recuperino decenni di erosione e ottenere la riduzione dell’orario di lavoro, quest’ultimo attualmente tra i più alti in Europa. Inoltre soltanto dieci giorni prima della mobilitazione le leadership sindacali si sono finalmente convinte ad estendere lo sciopero anche al quasi mezzo milione di salariati delle PMI con ccnl metalmeccanico Confapi-Unionmeccanica, finora inutilmente esclusi dalla lotta nonostante l’impasse per il rinnovo riguardi anche loro.
Tutto ciò sta avvenendo anche in un momento storico di profonda trasformazione del lavoro coperto dai ccnl metalmeccanici che ci pone delle sfide di portata epocale a cui il sindacato non sembra voler rispondere adeguatamente. Difatti, in questo contesto di arretramento generale i sindacati metalmeccanici fanno anche il gravissimo errore di non prendere di petto il dilagare delle commesse belliche, illudendosi di poter governare il fenomeno e di poter ridurre il proprio ruolo alla sola trattativa salariale. Ma la crescita spaventosa del complesso militare-industriale ingloba sempre più imprese e forza lavoro finora impiegata in ambito civile, con conseguenze che trasformano in profondità le relazioni industriali. Difatti questo processo si porta necessariamente anche una militarizzazione dei posti di lavoro stessi, tra segreti ed esigenze militari che arrivano a motivare finanche il divieto di utilizzo di strumenti elettronici personali, il divieto di comunicazione con l’esterno, l’introduzione di metal detectors, quindi anche la conseguente compressione dei diritti sindacali a causa del clima da fortezza che ne deriva. Che agibilità sindacale ci sarà mai se i posti di lavoro saranno presidiati da personale in mimetica? A ciò si aggiunge anche che il settore militare – nonostante gonfi enormemente i profitti – produce meno posti di lavoro rispetto alla produzione civile, quindi la conversione dell’economia in senso bellico è un volano per i posti di lavoro solo nella propaganda che giustifica il riarmo imperialista. L’esempio della riconversione bellica degli stabilimenti Volkswagen in Germania è un chiaro segnale di ciò che rischia seriamente di avvenire anche in Italia, ma anche il decennale dilagare di commesse militari in imprese quali Leonardo e Thales in ambito più strettamente tech e ingegneristico sono una manifestazione di un trend stabile e preoccupante.
Quest’ultimo aspetto fa emergere anche la grande sfida posta dalla nuova rivoluzione industriale e tecnologica che ci sta investendo, che da una parte sta vedendo un aumento importante dell’impiego di robot in ambito industriale e dall’altra una costante crescita della domanda di lavoro in ambito elettronico e informatico, utilizzato sempre più nelle infrastrutture, nei servizi e nelle forze armate del paese. Questi fattori sono strettamente intrecciati, poiché per impiegare le nuove tecnologie nell’industria il ruolo di software e hardware cresce sempre più, richiedendo quindi manodopera tech che ne garantisca il funzionamento. Per tutti questi motivi in generale è in netta crescita la porzione di lavoratori e lavoratrici impiegati nel settore tech – sono circa 600mila in Italia – di cui una grande parte è contrattualizzata con i ccnl metalmeccanici. Di questi sempre più vengono assunti anche con bassi livelli di specializzazione e istruzione o alti livelli di discrepanza rispetto al proprio percorso di studi, a causa di una domanda di manodopera tech in continua crescita che il mercato del lavoro fatica a soddisfare. Per tutti questi motivi i lavoratori e lavoratrici di questa categoria si stanno sempre più trasformando in moderni “operai-massa tech” – anche grazie al dilagare delle nuove tecnologie come l’intelligenza artificiale – cambiamenti che da anni stanno spingendo questa produzione a livelli di industrializzazione mai visti prima. Di fronte a questa trasformazione epocale le burocrazie sindacali continuano con il business as usual, risultando nel concreto particolarmente distanti da questi nuovi salariati. Ma se si vuole tornare a vincere e se si vuole combattere l’economia di guerra risulta fondamentale investire nella sindacalizzazione conflittuale dei lavoratori e delle lavoratrici tech, anche tramite le reti di categoria da essi costruite (come per esempio Tech Workers Coalition, di cui segnaliamo l’imminente meeting nazionale del 5 e 6 aprile a Bologna).
È fondamentale che noi lavoratori e lavoratrici ci riorganizziamo per invertire il trend disastroso di più di trent’anni di concertazione sindacale, andando a recuperare il meglio della tradizione conflittuale del movimento operaio, fatta di collettivi aziendali, coordinamenti intersindacali, consigli di fabbrica, lotta al torpore delle burocrazie, fronte unico, assemblee permanenti. Di fronte a quarant’anni di arretramento del movimento dei lavoratori e delle lavoratrici non c’è più tempo per indugiare: occorre tornare a investire nel sindacalismo di massa con pratiche conflittuali radicali sfruttando le occasioni di sciopero e mobilitazione che si presentano. L’importanza produttiva del lavoro coperto dai ccnl metalmeccanici rende pertanto particolarmente strategico organizzare le avanguardie del settore e quindi il rilancio dell’opposizione di sinistra dentro la Fiom al di là di stanchi identitarismi e di aree congressuali ormai sempre più inefficaci.
Giuseppe Lingetti
Nato a Roma nel 1993. Dottore di Ricerca in Fisica, ha militato nel Coordinamento dei Collettivi della Sapienza fino al 2018 e in Fridays For Future Roma fino a fine 2019. Attualmente lavora come sviluppatore software per un'azienda privata i cui prodotti sono impiegati nell'industria ferroviaria.