Negli ultimi 2 mesi gli specializzandi del corso TFA (Tirocinio Formativo Attivo) per l’abilitazione a insegnanti di sostegno dell’università di Bologna si sono auto-organizzati contro la svalutazione del loro lavoro di formatori, per una scuola realmente inclusiva e per la stabilizzazione dei precari della scuola – il che vuol dire: meno soldi per il riarmo e più per l’istruzione. La mobilitazione critica anche le nuove linee guida dell’insegnamento promosse dal ministro dell’istruzione Valditara, segnata da presupposti classisti e colonialisti. Matteo, specializzando TFA in lotta e militante della FIR-Voce delle Lotte, ci spiega perché la mobilitazione è importante e come potrebbe essere estesa.

 

Voce delle Lotte: Ciao, Matteo. Secondo te che cos’ha spinto gli specializzandi bolognesi del nono ciclo TFA ad organizzarsi?

Matteo: All’organizzazione siamo arrivati in maniera contingente. Per prima cosa, occorre specificare la forte eterogeneità della compagine degli specializzandi sia sotto il profilo dell’esperienza lavorativa, sia per quel che riguarda l’età – la media è assestata sui cinquant’anni – come dei trascorsi formativi: i 360 iscritti comprendono, infatti, precari e precarie “storici”, come anche neolaureati. Gli specializzandi bolognesi hanno iniziato ad organizzarsi per reagire ai soprusi e alle intimidazioni di Roberto Dainese che fino al febbraio di quest’anno era direttore responsabile del corso. L’atteggiamento vessatorio del Dainese è stata la scintilla del piccolo incendio che ancora continua a crepitare. 

Un primo nucleo organizzativo ebbe quindi modo di formarsi a febbraio di modo che, all’indomani dell’emersione della questione INDIRE ad aprile, già vi era una “struttura minima” e politicamente organizzata. INDIRE è un’articolazione del MIM (Ministero dell’Istruzione e del Merito), che – senza divulgare troppo la cosa – ha organizzato una serie di corsi molto più agevoli sia sul piano della quantità di tempo richiesta per parteciparvi (meno ore di frequenza rispetto a quelle del TFA), sia sul piano dei costi (a fronte dei 3000 euro richiesti per l’iscrizione al TFA, INDIRE costa “solamente” 1500 euro e peraltro è quasi del tutto online). Si tratta di un canale “abilitativo” concepito soprattutto per i precari storici e per quanti abbiano conseguito un’abilitazione all’estero – anche comprandola! 

Su quest’ultimo aspetto c’è da fare una specifica. Le abilitazioni all’estero non possono essere equipollenti a quelle conseguibili in Italia e per una ragione molto precisa: perché il nostro paese è da metà anni ‘70 che ha una legislazione, una riflessione in generale sulla didattica speciale e sulla disabilità molto avanzata e che va di pari passo con lo sviluppo del movimento antistituzionale – si pensi alla chiusura dei manicomi a seguito della L. 180/1978, come anche delle scuole speciali. Segnatamente, è la legge Falcucci che cita per la prima volta la figura dell’insegnante di sostegno. In molti paesi questo processo non è avvenuto: in Spagna, Grecia, Bulgaria, Romania esistono ancora le scuole speciali. Acquisire abilitazioni all’insegnamento in questi paesi è problematico sotto diversi aspetti. In primo luogo, alla luce di quanto detto poc’anzi, equivale a formarsi adottando modelli antiquati, fuori tempo massimo, quando non dichiaratamente discriminatori. In secondo luogo, capita che il titolo estero sia facilmente acquistabile. 

Oltre a questo, il governo da febbraio prevede la possibilità che le famiglie degli alunni con disabilità possano o meno confermare la posizione dell’insegnante di sostegno incaricato a seguire il figlio – e questo è il riflesso compiuto di una visione clientelare della scuola pubblica. Il problema della continuità didattica non deve essere demandato alla volontà delle singole famiglie ma garantita dalla regolare assunzione di personale docente specializzato da parte del Ministero dell’Istruzione. Si tratta di una logica meramente aziendale che guarda alla richiesta di un cliente e non all’erogazione di un servizio universale e aperto a tutti.

VdL: Quale saranno, a tuo giudizio, le conseguenze del decreto-legge in questione sui docenti di sostegno?

M.: L’impatto sarà una minore formazione del corpo docente per l’attività di sostegno; una maggiore aziendalizzazione della scuola e di rimando una maggiore precarietà sancita dalla esternalizzazione della stabilizzazione degli insegnanti – appannaggio delle famiglie. Quest’ultimo è un metodo che virtualmente potrà essere sfruttato per stabilizzare anche docenti di materie curricolari. Ed è anche contro questa eventualità che il Coordinamento prende posizione: diciamo no ai ricatti del governo!

VdL: La mobilitazione è estesa al di là delle sole questioni connesse alla scuola inclusiva, poiché essa è interessata anche al tema delle nuove linee guide imposte dal governo. Per quanto riguarda queste ultime, qual è la posizione degli specializzandi del TFA in agitazione?

M.: Intanto una precisazione. La scuola inclusiva non è un tipo di scuola a fianco di altri tipi di scuola, ma una visione generale della scolarità. Un paradigma educativo e sociale che, nella sua versione idealmente più avanzata, vorrebbe coinvolgere nel percorso educativo della persona con disabilità tutti i corpi della società. 

La questione politica fondamentale è un altra. Mi spiego. Una scuola inclusiva, in una società a trazione capitalistica avanzata e in crisi – come la nostra – che vede gli insegnanti precarizzati e in cui non è data la continuità didattica e che è per giunta scarsamente finanziata, esiste ed è esistita ad oggi solo nella vuota retorica che ha accompagnato l’ultimo trentennio di politica nazionale – dalla legge Bassanini ad oggi (governo di Centro-Sinistra). Fondamentalmente, proprio dalla legge Bassanini in poi si è posta la questione della sussidiarietà e al contempo si sono sottratte risorse senza posa. Aumenta la precarietà degli insegnanti, si rende più difficoltosa l’entrata in ruolo degli insegnanti e si afferma la retorica di rito umanista scevra da qualsivoglia sostegno economico concreto. 

La fase del capitalismo maturo falsamente democratico ma in realtà più autoritario trova un nuovo emblematico precipitato nelle Indicazioni 2025 per il primo ciclo di istruzione – ci stiamo mobilitando anche su questo, la prossima manifestazione, calendarizzata il 15 maggio, verterà proprio sull’indegno documento. Queste indicazioni oltre a non parlare di disabilità – se non molto superficialmente nel paragrafo dedicato all’educazione fisica – mettono al centro la celebrazione retorica della preminenza e dell’eccezionalità dell’Occidente rispetto al resto delle espressioni socio-culturali prodotte dal resto dell’umano genere: un resto – da intendere propriamente come rimanenza/scarto – che nel documento ministeriale è espressamente categorizzato come altro/diverso, di fatto derubricato ad inferiore. A suo modo paradigmatico della tendenza suprematista che pervade il documento è senz’altro il paragrafo sull’insegnamento della storia, nella cui introduzione si afferma che “solo l’Occidente conosce la storia”. Si proclama orgogliosamente la spaventosa restrizione dell’orizzonte conoscitivo e, di conseguenza, dell’offerta formativa dei giovanissimi.  

Ebbene, date queste premesse, è ancora possibile parlare di scuola inclusiva? A nostro giudizio, la risposta è ovviamente no. Gli inquietanti connotati delle Indicazioni 2025 risaltano in misura maggiore se confrontati con i parametri che, all’altezza del 2012, venivano stabiliti dall’omonimo testo che allora veniva pubblicato e che ponevano tra gli obiettivi precipui del primo ciclo d’istruzione l’idea di cittadinanza globale, di tolleranza e di aperto verso l’altro. Non si può più parlare di interculturalità, di dialogo orizzontale tra vari e diversi milieu culturali. La fattispecie delle Indicazioni 2025 sembra, invece, tutta improntata all’assimilazione del diverso visto come irriducibilmente altro e come minaccia. Pervasiva la riaffermazione della storia-patria, imperniata sul racconto mitico-favolistico a cui è sottesa una concezione inferiorizzante dell’infanzia. Al bambino non insegnamo ad appropriarsi delle meta-competenze necessarie all’articolazione del pensiero critico. Insegnamo stereotipi nazionalisti. 

Le nuove indicazioni nazionali sono, a nostro avviso, una costruzione ideologica super-strutturale – come Gramsci diceva in Americanismo e fordismo a proposito del fordismo, che proprio negli anni ‘30 iniziava a costruire apparati ideologico-culturali al fine di difendersi culturalmente. Queste indicazioni nazionali sono esattamente quelle costruzioni ideologiche e super-strutturali che servono a giustificazione di una scuola confacente all’attuale congiuntura storica attraversata dal sistema capitalistico che, caratterizzata da una crisi profonda, favorisce l’affermazione di istanze suprematiste e xenofobe, contribuendo ad accentuare e ipostatizzare le divisioni esistenti. Accanto al caso emblematico dell’insegnamento della storia si colloca quello della geografia – utile a sottolineare la differenza che intercorre tra “noi” e “loro”. Miseria dell’istruzione sovranista e dei suoi araldi.

VdL: Questa mobilitazione coinvolge specializzandi del TFA, lavoratori, tirocinanti e anche iscritti all’università: come si è strutturata la mobilitazione e quali legami avete formato con docenti delle scuole e con studenti al livello locale?

M.: Certo, pur non potendo esagerare i numeri della mobilitazione, non bisogna dimenticare che essa si dipana su scala nazionale e ha nel varo dei corsi INDIRE il proprio irrinunciabile punto di raccordo. Questa mobilitazione vede nel gruppo di Bologna forse una delle sezioni più attive nell’organizzazione di sit-in in piazza e più decise – insieme a Torino – nel legare la questione dell’inclusività alla denuncia delle lacunosissime Indicazioni per la Scuola

Come aspiranti insegnanti di sostegno, come professionisti e come cittadini riteniamo doveroso combattere l’idea retriva e anacronistica di scuola che traspare da un documento indegno. Una scuola imperniata sull’autorità del docente – visto come magister, comandante – e sull’acquiescente ubbidienza dell’alunno. Una scuola paurosa, avvitata su sé stessa, identitaria, xenofoba e sciovinista. Una scuola ingiusta e classista – per questo diametralmente opposta al modello di inclusività scolastica da noi propugnato e per affermare il quale ci battiamo. 

Non siamo soli in questa lotta: il tema di una scuola aperta a tutti e per tutti è radicato nella coscienza di molti volenterosi professionisti. Siamo in contatto con diverse realtà attive su scala locale, per esempio il Coordinamento Precari o, ancora, il Movimento per la cooperazione educativa, riorganizzato da qualche anno a Bologna. Insieme a queste realtà vorremmo organizzare a giugno la presentazione di Credere, obbedire, insegnare. Voci critiche sulle Indicazioni Nazionali 2025 per il primo ciclo di istruzione invitando il curatore, Dario Ianes, a prendere parola per denunciare il documento ministeriale. Oltre alle due realtà menzionate, inviteremo anche Gessetti Colorati, un collettivo di insegnanti della scuola primaria fortemente critico verso le Indicazioni

Peraltro, sarebbe interessante collegarsi anche ai tentativi di lotta per il rinnovo del contratto degli insegnanti curricolari, una battaglia importante di per sé e che potrebbe acquisire maggiore peso se accolta nel fronte di quanti – come noi – osteggiano questa idea patriottarda di scuola, retriva e assolutamente carente sotto ogni aspetto. In generale, la mia impressione è che – pur non parlando di numeri altissimi – la vertenza portata avanti dagli specializzandi TFA stia contribuendo a rivitalizzare la lotta degli insegnanti come dei precari – certo, non si parla di masse: ai nostri presidi partecipano al massimo un centinaio di persone. Al netto di questo, è necessario oltreché doveroso che i colleghi si sveglino. Gli insegnanti storicamente si lamentano a livello personale e, al contempo, non si organizzano politicamente. Lamentarsi non basta più, è necessario muoversi, coordinarsi, parlare tra noi delle cose che non vanno nella scuola italiana e tentare di cambiare le cose. Bisogna raccogliere le forze per iniziare a sostenere una discussione politica che abbia la scuola al centro, che si ponga come obiettivo minimo la trasformazione profonda dell’esistente. 

Una cosa che è bene che puntualizzi a proposito delle nostre rivendicazioni è che noi del Coordinamento Specializzandi pur essendo fortemente contrari all’INDIRE, alla logica estorsiva e ricattatoria su cui riposa, non siamo avversi a quanti e quante, precari e precarie storiche, approfitteranno di questo canale per formarsi. La questione è complessa anche perché il governo è esperto nel generare guerra tra poveri. E questo conflitto tra poveri si innesca e rinfocola proprio in virtù del fatto che manca un ragionamento articolato, alto e complessivo sulla scuola. Perché è chiaro che ragionando solo sul proprio segmento si rischia di perdere di vista il quadro generale e la logica perversa che vi è sottesa – logica spietatamente speculativa, votata all’imperativo di fare cassa sulla pelle dei lavoratori e delle lavoratrici della scuola erogando una formazione raccogliticcia e scadente

Vdl.: A fronte di queste inaggirabili criticità qual è la vostra proposta? Come trasformare il sistema della formazione in sostegno attualmente in vigore in Italia?

M.: Per esempio, una proposta che si è discussa – partendo dal presupposto fattuale che il TFA sia più formativo del percorso INDIRE – sarebbe di mantenere il TFA, riducendo drasticamente i costi (3000 euro sono troppi per tutti) e rendendolo gratuito per i precari storici, decurtando le ore di tirocinio e valorizzando di più l’esperienza maturata sul campo. Serve un corso unico di formazione, di facile accesso, economico e di qualità. Questo è per noi un punto fermo. Perché si dia una scuola aperta, inclusiva e all’altezza dei bambini e delle bambine che la attraversano è indispensabile che il personale docente sia formato in sostegno – e perché ciò sia possibile serve che lo Stato sganci i soldi per formare i propri lavoratori, senza se e senza ma. Servono soldi: chiediamo investimenti, investimenti e ancora investimenti.

VdL: Partiamo da un’idea: la persona è disabilitata — nel senso attivo del termine inglese disabled — da un contesto che le impedisce l’accesso a uno spazio a cui dovrebbe invece avere pieno diritto. In altre parole, si è disabilitati da barriere esterne, strutturali.

M.: Esatto. E infatti, se ci pensiamo, la società neoliberista è essa stessa una barriera. Una barriera sistemica, che agisce su più livelli.

VdL: Proprio così, una barriera vera e propria, persino fisica. Ed è da qui che nasce la necessità di una rivoluzione sociale. La questione delle barriere, dell’essere disabilitati, dell’approccio biopsicosociale e della teoria delle capabilities si toccano profondamente. Sono tutte prospettive che, sebbene diverse, puntano a evidenziare come il problema non risieda solo nella persona, ma nell’ambiente che la circonda.

M.: Esatto, e poi c’è il contesto classe — inteso come contesto scolastico — che può essere una barriera a tutti gli effetti. Se parliamo, per esempio, di una persona con ADHD, il problema non è solo la sua condizione, ma la presenza di un ambiente confuso, disorganizzato, dove manca attenzione o coesione. In quel caso, la classe stessa diventa una barriera. Se poi il ragazzo ha anche un atteggiamento oppositivo-provocatorio, in un ambiente scolastico non cooperante o disgregato, è evidente che la situazione peggiora. Un contesto del genere non solo non aiuta, ma acuisce le difficoltà. È proprio in questo senso che si è disabilitati dal contesto.

VdL: Secondo te, quali sono le particolarità della mobilitazione che coinvolge gli studenti tirocinanti?

M.: Una particolarità importante è che molti di noi non sono solo studenti. Siamo lavoratori a tutti gli effetti: il 99% lavora già a scuola e ha le giornate completamente piene. Questo è un aspetto che incide profondamente sulla mobilitazione: da un lato rappresenta una forza, dall’altro una debolezza.

Il punto critico è che il TFA è estremamente costoso, ed è un investimento pesante per persone che guadagnano poco, come gli insegnanti. È un vero e proprio ricatto: se non ti abiliti, non hai alcuna garanzia di lavoro. E anche se ti abiliti, le certezze restano poche. Il punto è che tanti si ritrovano da soli, schiacciati tra lavoro e formazione, e in questa solitudine diventa difficile mobilitarsi.

Ti faccio un esempio: se un docente del TFA ti tratta male, magari ti fa sedere per terra durante un esame, molti pensano “pazienza, devo solo passare questo corso”. Perché hanno figli, perché hanno cinquant’anni, perché sono precari da una vita. È la solitudine che li blocca, e questo rende molto difficile politicizzare davvero il tema dell’insegnamento di sostegno.

Quindi anche gli insegnanti di sostegno, una volta specializzati, si ritrovano spesso isolati nelle scuole. Senza strumenti per far valere i propri diritti, salvo ricorrere al servilismo o a una diplomazia esasperata. Ma c’è anche un aspetto positivo: ci si incontra, si discute. A questi corsi, come il TFA, si concentrano insegnanti con esperienze e problemi simili, e nasce il confronto.

In queste occasioni emergono i precari storici, spesso provati e sfiduciati, che magari non lo dicono apertamente, ma si oppongono a qualunque presa di posizione per paura di ritorsioni, con un ragionamento del tipo “se protestiamo contro il professore, poi all’esame ce la fa pagare”. E a volte è proprio così.

Però io non me la sento di dire che questi colleghi sono dei crumiri — sarebbe una parola troppo forte — ma certamente questa dinamica nasce dalla guerra tra poveri, dalla povertà materiale e simbolica della classe lavoratrice. È come nel film I compagni di Monicelli: il poveretto che arriva dalla Sicilia con venti figli e, quando la fabbrica sciopera, va dal comitato a chiedere se può comunque lavorare. Ecco, questa è la realtà: tragica, ma comprensibile.

Soprattutto chi ha cinquant’anni o più vive difficoltà enormi. Gente che magari non apre un libro da anni perché deve lavorare per campare, si trova all’improvviso a dover sostenere esami universitari, magari davanti a baroni accademici. E anche se l’esame fosse semplice, per loro è comunque un trauma. Molti si sono laureati negli anni ’90, se non prima. Affrontare oggi un docente autoritario, in un contesto così gerarchico, è un’impresa.

In questo contesto, c’è un elemento di forza e uno di fragilità. La forza è che si crea dibattito, si costruisce un confronto vero, anche acceso. Quando abbiamo protestato contro Dainese, per esempio, si sono create tensioni vere: alcuni non volevano firmare la lettera al garante degli studenti e al direttore didattico. Noi abbiamo detto: “È un nostro diritto. Se non vuoi firmare, non firmare. Ma noi la inviamo comunque”.

È stato un momento di rottura, ma necessario. Ecco, questa è la specificità di aver incontrato certe persone in questo corso. Se potessimo stabilizzare questa modalità di incontro e confronto tra insegnanti, io sono convinto che il coraggio — oggi limitato a una minoranza combattiva — potrebbe diffondersi a molti altri.

Qui a Bologna, in particolare, c’è stata una novità importante. Non sarebbe partita questa mobilitazione se non ci fosse stato un nucleo di insegnanti e specializzandi più giovani, sotto i 35 anni, meno segnati dalle sconfitte passate e, soprattutto, politicizzati. Quest’anno, cosa che non accadeva prima, si sono incontrati al TFA dei compagni con una chiara direzione politica, capaci di avanzare proposte e strategie di lotta.

Senza di loro, il gesto che ho fatto io — boicottare l’esame di Dainese alzandomi e andandomene — sarebbe stato puro individualismo, un atto sterile. Invece, grazie a quel nucleo, ha avuto senso politico. Non era un gesto isolato: c’erano persone pronte a sostenerti, a prendere parola, a condividere le critiche. E questo ha portato alle dimissioni del direttore.

Il punto è che non si tratta di “suicidarsi”, ma di agire con senso politico. Serve una base collettiva, e quest’anno, per fortuna, c’è stata.

VdL: E da chi pensi possa arrivare un sostegno concreto alla mobilitazione?

M.: Sicuramente dalle famiglie e dalle istituzioni che si occupano di disabilità. Però serve una riflessione ampia, politica, perché molte famiglie potrebbero anche essere d’accordo con certe linee governative, ad esempio sulla chiamata diretta degli insegnanti di sostegno.

Per questo abbiamo cercato un dialogo con figure come Ianes e con realtà come il Movimento di Cooperazione Educativa. Il livello della lotta non è solo sindacale, è ideologico. Troppo spesso anche tra i pedagogisti si tiene separata la questione della disabilità da quella delle condizioni materiali degli insegnanti, come se fossero problemi diversi. Ma così si riproduce una divisione ipocrita, quella tra diritti civili e realtà economica, che è funzionale al sistema neoliberale.

Servirebbe una sovrastruttura ideologica alternativa, una contronarrazione alla scuola neoliberale. Perché anche le nuove Indicazioni 2025 sono indicative in questo senso: parlano di “far fiorire i talenti” degli studenti. Ma cosa sono questi “talenti”? Se non esistono doti innate — come sostengono studiosi come Chiara Saraceno — allora ciò che chiamiamo talento è in realtà il prodotto di un privilegio di classe.

Chi ha talento ha avuto le condizioni per svilupparlo: tempo, strumenti, supporto familiare. Il talento, in senso classico, è argento, è moneta. Quindi le nuove Indicazioni, anche se non lo dicono apertamente, portano avanti un’idea selettiva e classista della scuola.

Ecco perché quando parliamo di famiglie, dobbiamo parlare di famiglie operaie. La questione non è sociale in senso neutro, è politica e di classe. Bisogna costruire un’idea alternativa di istruzione, in cui la cooperazione educativa sia reale, fondata sulle esigenze materiali delle persone. Coinvolgere i quartieri, comprendere i bisogni delle famiglie rispetto ai tempi di lavoro e alla funzione reale della scuola. Non perché scegliere la scuola diventi un atto di consumo, ma perché la scuola deve essere democratica, nel senso più profondo del termine.

In tutto questo, la precarietà resta centrale. Noi siamo precari, e la nostra lotta è la stessa dei precari dell’università. Anche lì, le condizioni sono disumane: fare ricerca è ormai un privilegio per chi può permettersi anni di disoccupazione. Chi ha una famiglia benestante alle spalle può studiare, pubblicare, pagarsi soggiorni formativi all’estero. Chi no, resta fuori. È lo stesso meccanismo. Esattamente lo stesso.

 

 

 

Giornale militante online fondato nell'aprile 2017.
Sito informativo della Frazione Internazionalista Rivoluzionaria (FIR).

Nato nelle terre dei Pico nel 1989, ha studiato economia a Modena e filosofia a Bologna. Attualmente è dottorando in storia della filosofia alla fondazione San Carlo di Modena.