La recente visita in Italia del leader d’opposizione francese Jean-Luc Mélenchon – a capo del movimento La France Insoumise – ha riportato nel dibattito pubblico di sinistra le tesi di chi promette “rivoluzioni” per via elettorale secondo l’ambigua rilettura del conflitto sociale come “popolo contro oligarchia”. Ma la scorciatoia offerta dal populismo della sinistra neoriformista non è uno sbocco utile allo sviluppo della lotta di liberazione degli oppressi dal capitalismo, mentre è al contrario sempre più urgente la costruzione militante di organizzazione e coscienza rivoluzionaria basate sulla centralità strategica della classe lavoratrice.


Negli ultimi giorni il leader de La France Insoumise (LFI) Jean-Luc Mélenchon ha fatto un tour in Italia per presentare il suo libro manifesto politico “Ribellatevi”, tramite il quale tenta di accreditarsi come leader della sinistra in Europa nel nome di una “rivoluzione dei cittadini” contro l’establishment. Questa visita ha generato facili entusiasmi negli ambienti della sinistra radicale nostrana, al punto che il leader “insoumis” ha fatto tappa persino al presidio degli operai ex-Gkn a Campi Bisenzio a pochi giorni dalla visita del suo braccio destro Clemence Guetté. Il relativo successo elettorale in Francia, come anche le sue indubbie abilità oratorie, spiegano la sua popolarità anche negli ambienti di sinistra in Italia, ma c’è poco approfondimento. Nel concreto cosa esprime politicamente il leader della sinistra francese? In cosa consiste materialmente la “rivoluzione” di Mélenchon?

La critica del leader “insoumis” è rivolta contro la sottrazione di beni comuni e democrazia da parte del capitalismo neoliberista, in opposizione al collasso ecologico e sociale da esso prodotto. Gli aspetti cruciali della sua analisi però restituiscono un’immagine sfocata che genera una politica ricca di ambiguità, a causa della vaga idea fondativa di un indefinito “popolo” contro “l’oligarchia” che dovrebbe essere l’attore di questa “rivoluzione”.

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La frettolosa rottamazione “insoumise” della classe lavoratrice

La tesi fondamentale sulla quale Jean-Luc Mélenchon fonda la propria proposta politica è il presunto venir meno della centralità dello scontro tra classe lavoratrice e borghesia, come ha esplicitato in una recente intervista:

Alcuni miei compagni italiani, talvolta segnati da un marxismo un po’ rigido, continuano a parlare di classe operaia e di rapporti sociali di produzione, di sfruttamento e accumulazione come nel XX secolo. Io parlo del mio tempo, di concetti nuovi. Prima l’opposizione era borghesi contro proletari. Oggi è l’oligarchia contro il popolo.

Questo posizionamento è evidentemente frutto della constatazione della sconfitta storica del secolo scorso, da cui è conseguito il drammatico ridimensionamento del movimento operaio e della lotta della classe lavoratrice. Al contempo, la politica di Mélenchon si sofferma sulla questione della “sovranità popolare negata”, ovvero l’effettivo graduale restringimento degli spazi di democrazia negli stati capitalisti a partire dall’offensiva neoliberista degli anni ‘80. Da tutto questo nasce la formula del “popolo contro l’oligarchia”, esprimendo in forma diretta un sentimento molto presente nel senso comune degli ultimi 15 anni, maturato in particolare con le continue crisi dal 2008 a oggi. Se da una parte l’analisi del leader “insoumis” poggia su dei dati di realtà, dall’altra la sua interpretazione del grande cambiamento di fine secolo scorso si adagia molto sull’arretramento generale della coscienza di classe, risultando quindi nella sostanza grezza e superficiale. 

Per mettere meglio a fuoco, soffermiamoci prima su chi negli ultimi 40 anni non ha mai ridotto la propria lotta di classe, ovvero la classe dominante. Fin dall’inizio dell’offensiva neoliberista, le conquiste del movimento operaio sono state continuamente colpite da un fuoco intenso in ogni luogo, dai parlamenti ai singoli posti di lavoro. Dove si legifera l’attacco è stato a colpi di controriforme del mercato del lavoro e manovre di austerità, mentre nelle singole aziende l’attacco è consistito nel peggioramento delle condizioni di lavoro anche tramite il dilagare di pratiche illegali (quali straordinari non pagati, sicurezza sul lavoro negata ed ecc…). Gli attori che hanno portato avanti questi continui attacchi sono facilmente identificabili: politici e partiti al soldo dei capitalisti e i singoli capitalisti nelle aziende da loro controllate; si va dal capitalista multimiliardario che schiaccia interi popoli con i propri investimenti al ristoratore che impone turni estenuanti. E anche chi ha subito questa offensiva è facilmente identificabile: si tratta di chi per vivere può contare soltanto sul vendere la propria forza lavoro a chi possiede un’attività produttiva o commerciale.

Tutto questo ha portato a un indurimento della dittatura dei padroni dentro le proprie aziende, che siano di 10 o 10 mila addetti. Può un padroncino con 10 sottoposti essere considerato un “oligarca”? Uno con 100 lavoratori? Certo che no in entrambi i casi, ma sono sicuramente entrambi ugualmente parte del problema, in quanto attori materiali dello sfruttamento dei “loro” lavoratori, ovvero dell’appropriazione di parte del surplus da essi prodotto: tutto il valore prodotto che eccede il minimo necessario per la sopravvivenza dei lavoratori è surplus, la porzione appropriata dal capitalista è la fonte del profitto. Questa realtà esiste nella materialità dei rapporti di produzione odierni come esisteva nel secolo scorso, pertanto trascurarla è un errore. Esistono conflitti tra piccoli e grandi capitalisti? Certamente sì – sia tra piccola borghesia e borghesia che all’interno della grande borghesia stessa – ma far risaltare il conflitto con i grandi capitalisti – gli “oligarchi” – rispetto al conflitto complessivo lavoratori-padroni significa poi nel concreto mettere nel mucchio di un generico “popolo” i padroncini e la classe lavoratrice, arrivando a sostenere l’assurdità di una comunanza di interessi. Il 76% dei lavoratori e delle lavoratrici in Italia è impiegato nelle PMI, quindi questo posizionamento trascura lo sfruttamento di ben tre quarti della classe lavoratrice del nostro paese! Ovviamente i grandi capitalisti – tramite rapporti commerciali asimmetrici e meccanismi finanziari – sottraggono una parte consistente del surplus estratto prodotto dai lavoratori delle PMI. Ma la grande ingiustizia del capitalismo è dovuta all’esistenza di chi vive sfruttando il lavoro altrui, ovvero l’intera borghesia, non nel fatto che i “poveri” piccoli capitalisti si vedano soffiare una parte del surplus che a loro volta avevano sottratto ai lavoratori. Non siamo più nel Novecento e il contesto si è complicato, ma la realtà dello sfruttamento del lavoro è ancora materialmente onnipresente nella nostra società: ciò sembra però interessare poco il “rivoluzionario insoumis” Jean-Luc Mélenchon, più preoccupato a porre l’accento sui conflitti interni alla borghesia. È abbastanza ironico come uno dei principali palchi del suo tour sia stato proprio il presidio permanente della più importante lotta operaia degli ultimi anni, dimostrazione materiale di come al contrario la centralità della classe lavoratrice continui ad essere attualissima.

La politica effettiva di Mélenchon e de La France Insoumise

Al livello politico, l’obiettivo che il leader “insoumis” indica è quello della “riconquista” degli spazi di democrazia persi con l’offensiva neoliberista, sotto la spinta di questo “popolo” che evidentemente sarebbe a trazione piccolo-borghese. Però se ci si vuole veramente porre questa problematica occorre focalizzare l’attenzione sulle ragioni grazie alle quali questi spazi di democrazia si sono storicamente determinati. 

L’avanzata della classe lavoratrice tra Ottocento e Novecento è stata la forza materiale che ha aperto gli spazi di partecipazione democratica nello Stato liberale, nel contesto di un sistema capitalista che altrimenti non avrebbe mai previsto alcuna partecipazione politica da parte dei subalterni. Non è un caso quindi che l’arretramento democratico abbia coinciso con la sconfitta del movimento operaio del Novecento: sono pian piano venuti meno i rapporti di forza sui quali si basavano questi spazi di democrazia. Come non è un caso anche che il soggetto capace di ottenere forme di democrazia nella società capitalista sia stato proprio la classe lavoratrice, a causa delle sue dimensioni di massa e del ruolo strategico che ricopre nella produzione capitalista. A ciò si è anche aggiunto il ruolo determinante dello spauracchio della rivoluzione proletaria, evidentemente venuto meno post 1989.

Come insegna l’esperienza del ciclo rivoluzionario 1789-1848 in Francia e in Europa, l’alleanza rivoluzionaria tra lavoratori e borghesi/piccolo-borghesi si rompe rapidamente – proprio in virtù del conflitto capitale-lavoro – appena raggiunti gli obiettivi della borghesia, quindi è astorico immaginarsi oggigiorno in piena età capitalista “rivoluzioni” di quel tipo come sembra suggerire Mélenchon. Quindi il discorso politico di per sé del leader “insoumis” già sulla carta non suggerisce alcuno sbocco “rivoluzionario” effettivo, anzi, al livello teorico sposta il focus su un conflitto interno alla borghesia, risultando quindi un’appendice di sinistra populista della stessa. 

A questo punto non sorprenderà scoprire come anche nel concreto gli “insoumis” abbiano ben poco di “rivoluzionario”. Già il ruolo stesso del suo leader Mélenchon – padre-padrone del movimento – dice molto sulla concezione di democrazia de La France Insoumise, il cui pluralismo assolutamente non è all’ordine del giorno. Le organizzazioni di cui Mélenchon è stato leader sono sempre state strumenti usa e getta per la sua personale opa sulla sinistra, a partire dal Parti de Gauche con cui uscì dal Parti Socialiste nel 2009, per passare al Front de Gauche del 2012, rapidamente accantonati nel 2016 per lanciare il suo movimento personale La France Insoumise. L’obiettivo è sempre stato raccogliere più voti possibili per puntare ad andare subito al governo, con l’obiettivo di chiamare un’assemblea costituente per costruire la “Sesta Repubblica”. In cosa sarebbe diversa questa “nuova repubblica” rispetto a quella attualmente esistente? Poco o nulla, visto quanto non sia contemplato alcun protagonismo della classe lavoratrice e quanto non sia messo in discussione lo sfruttamento della stessa da parte della borghesia, ovvero lo sfruttamento della stragrande maggioranza. L’ansia dell’andare al governo a tutti i costi, l’elettoralismo, la totale estraneità degli “insoumis” dal movimento operaio, il forte personalismo, il populismo, le rivendicazioni piccolo-borghesi: tutti elementi che ben definiscono i contorni di una sinistra neoriformista che si candida ad amministrare l’esistente per conto della borghesia.

In quanto orientata al cercare la soluzione alle contraddizioni del capitalismo in un quadro di compatibilità “progressista” con l’esistente, la politica di Mélenchon strumentalizza le lotte e la radicalizzazione della classe lavoratrice per fini meramente elettorali. A causa della sua natura liquida ed interclassista, non è utile né allo sviluppo del conflitto sociale né a dare ad esso una prospettiva di sedimentazione politica con prospettive di liberazione dal capitalismo, risultando essere – al di là della retorica roboante – persino più debole e moderato del riformismo socialdemocratico dei tempi d’oro del secondo dopoguerra. Il riformismo socialista del Novecento storicamente aveva comunque come prospettiva il raggiungimento del socialismo, sebbene in tempi lunghi in un futuro indefinito a cui tendere gradualmente. Questo era un prodotto diretto della natura operaia dei partiti socialdemocratici, mentre nel caso di LFI tutto ciò è assente e pertanto l’orizzonte politico concreto è necessariamente il mero “miglioramento” dell’esistente. Le vittorie dei socialdemocratici del secolo scorso potevano offrire occasioni per crisi rivoluzionarie – vedasi il Cile – mentre nel caso di una vittoria di Mélenchon ciò sarebbe altamente improbabile. Nel concreto quindi agisce come motore di passivizzazione della classe dirottando verso un vicolo cieco, per alimentare le ambizioni personali di Mélenchon e una contesa politica tutta interna al campo borghese.

Nel concreto, La France Insoumise – tramite la creazione del Noveau Front Populaire per le elezioni legislative 2024è riuscita nell’incredibile capolavoro di resuscitare François Hollande e il suo morente Parti Socialiste, il quale si è fatto prima regalare seggi dagli “insoumis” per poi sostenere il governo voluto da Macron subito dopo le elezioni. La scalata di Mélenchon nel tempo ha anche indirettamente contribuito alla disintegrazione del Nouveau Parti Anticapitaliste (NPA) – storicamente uno dei principali partiti della sinistra rivoluzionaria francese, erede della Ligue Communiste Révolutionnaire – con settori sempre più ampi della sua “ala destra” che con il tempo hanno maturato l’illusione di sfruttare opportunisticamente l’opzione neoriformista. L’esperienza però mostra che l’elettoralismo e il verticismo di formazioni come La France Insoumise hanno come effetto di inghiottire e normalizzare chi “da sinistra” si avventura in improbabili alleanze o entrismi fuori tempo, disinnescando la capacità di leadership e azione degli opportunisti di turno come potenziale avanguardia organizzata della classe lavoratrice. In questo senso esperienze analoghe come quella di Podemos, Bloco de Esquerda, Syriza o Die Linkeche hanno letteralmente fagocitato e fatto scomparire intere organizzazioni rivoluzionarie per poi tradire le aspettative di chi li ha votati – dovrebbero insegnarci l’importanza del principio dell’indipendenza di classe nella costruzione della leadership rivoluzionaria della classe lavoratrice.

Non c’è scorciatoia per la nostra liberazione

Nel complesso, è evidente come la politica de La France Insoumise di Mélenchon non sia all’altezza delle sfide che il capitalismo ci pone. Al contrario, è emblematico il percorso controcorrente intrapreso dai nostri compagni di Revolution Permanente, che – dopo essere stati messi alla porta da un NPA ormai in disgregazione avanzatahanno optato per costruire una organizzazione rivoluzionaria indipendente della classe lavoratrice. L’obiettivo è di sviluppare appieno il potere e il potenziale trasformativo della classe, in totale opposizione a qualsivoglia scorciatoia offerta dalla “sinistra” populista. Una scelta che sta cominciando a mostrare i suoi frutti, con un ruolo sempre più importante nei processi di lotta in Francia e una capacità di azione militante in crescita. Come dimostrato da importanti lotte come quella dei Gilet Jaunes o le mobilitazioni contro la riforma delle pensioni, è necessario costruire la leadership e l’avanguardia della classe lavoratrice per allargare e generalizzare le lotte, sedimentare capacità e coscienza militante e costruire il nucleo dirigente dell’alternativa al capitalismo, con l’obiettivo all’orizzonte di costruire il potere degli oppressi fino al punto di rottura del rivolgimento rivoluzionario.

È fondamentale che la classe lavoratrice acquisti coscienza della propria forza e che questa venga sviluppata appieno. In gioco non c’è portare in parlamento qualche politicante di “sinistra” in più che sistematicamente ci deluderà o giocare a chi la spara più grossa, è bensì necessario far acquisire ai lavoratori e alle lavoratrici la capacità materiale di abbattere il capitalismo con le proprie mani. Ci si dirà: come fare se la realtà attuale ci restituisce una classe lavoratrice frammentata e arretrata? È chiaramente un problema, ma non possiamo permetterci di assolutizzare questo dato: ci sono specifiche variabili determinanti su cui si può intervenire per cambiare radicalmente la situazione. La classe lavoratrice è la carne viva che fa materialmente funzionare questo sistema, con una porzione consistente che occupa posizioni strategiche in settori fondamentali quali industria, trasporti, logistica, grande distribuzione organizzata, esprimendo quindi la potenziale capacità di paralizzare un intero paese anche solo con minoranze consistenti ben organizzate collocate in punti nevralgici. Queste rappresentano potenziali avanguardie di una più complessiva classe rivoluzionaria in grado di cambiare le sorti dell’Italia e del mondo, per salvarci dallo sfruttamento e dalle oppressioni come anche dall’incubo incombente rappresentato da guerre e collasso ambientale, in un contesto di generale accelerazione della Storia. Ma questo salto di qualità non è automatico: passare dalla potenzialità alla capacità effettiva di azione richiede un importante e oneroso investimento militante. Altrimenti le primordiali avanguardie spontanee che le contraddizioni del capitalismo fanno ciclicamente emergere tendono a finire isolate, in un contesto di sviluppo diseguale e combinato delle situazioni. Al contrario occorre alimentare le avanguardie, addestrarle per alzarne le capacità e le dimensioni, metterne a valore le qualità specifiche, collegare settori e contesti diversi, sedimentare e diffondere conoscenze e coscienza rivoluzionaria. Serve inserirsi nelle crepe del capitalismo per allargarle e far breccia, occorre che a partire dai vari occasionali fuochi di paglia si sviluppino grandi incendi. Sono queste valutazioni strategiche delle qualità specifiche della classe lavoratrice che ci indicano con rigore metodi per vincere sul campo di battaglia e produrre avanzamenti reali, al contrario della superficialità di concezioni populiste o moltitudinarie che con grande pressapochismo mescolano in modo confuso gli attori in campo.

Il ruolo dell’organizzazione rivoluzionaria è centrale nel catalizzare questo processo complicato e contraddittorio, mettendo insieme con disciplina, metodo e strategia le intelligenze necessarie e le forze da schierare sul campo. Tutto ciò passa necessariamente dalla formazione di quadri rivoluzionari nel contesto di costruzione di una disciplinata avanguardia. Pertanto la chiave non è in alcun modo nella ricerca spasmodica di una comoda poltrona nelle istituzioni, sebbene, se ce n’è occasione, i rivoluzionari devono ovviamente servirsi strumentalmente anche dei parlamenti come tribuna politica per la lotta contro il capitalismo. Una lotta che però va condotta necessariamente nelle strade e nei posti di lavoro. Ma all’ “insoumis” Jean-Luc Mélenchon questo non interessa.

 

Giuseppe Lingetti

Nato a Roma nel 1993. Dottore di Ricerca in Fisica, ha militato nel Coordinamento dei Collettivi della Sapienza fino al 2018 e in Fridays For Future Roma fino a fine 2019. Attualmente lavora come sviluppatore software per un'azienda privata i cui prodotti sono impiegati nell'industria ferroviaria.