Il piano presentato da Trump alla Casa Bianca ha ricevuto sin da subito il benestare di gran parte dei regimi arabi, un segnale chiaro che vede soprattutto i paesi del Golfo in prima fila ad inchinarsi dinanzi all’imperialismo occidentale. Non una novità. Infatti se c’è un filo comune che lega l’intera storia palestinese e le sue vicende è quello relativo alla complicità dei regimi arabi nell’avallare le scelte dell’imperialismo. Fu così nel 1937, durante la Grande Rivoluzione, quando invitarono la borghesia palestinese ad arrestare uno dei più lunghi scioperi della Storia, e fu così nelle fasi del cosiddetto processo di pace, soprattutto dopo il 1973.
Il comunicato del 29 settembre da parte di Arabia Saudita, Egitto, Emirati e Qatar, con il beneplacito silenzioso dell’Iran, confermano questa regola. I regimi arabi sono i primi alleati dell’entità sionista e soltanto l’azione della classe lavoratrice può cambiare le carte in tavola. Non vi è alcun asse della resistenza che possa in una qualche maniera portare avanti una politica alternativa che punti a una vera emancipazione dei palestinesi e dei popoli arabi.
Il 16 settembre, all’indomani dell’attacco israeliano contro il Qatar — con l’obiettivo dichiarato di colpire i negoziatori di Hamas — si è tenuto a Doha un incontro tra i leader di diversi Paesi arabi e l’Organizzazione per la Cooperazione Islamica.
Secondo quanto riportato da al-Jazeera, il vertice è stato caratterizzato da toni accesi e da una forte retorica da parte dei rappresentanti delle varie delegazioni. Quasi all’unanimità, l’attacco israeliano è stato definito un chiaro atto di terrorismo di Stato e un tentativo deliberato di sabotare i negoziati in corso per un cessate il fuoco. In particolare, Iran e Iraq si sono spinti oltre, alludendo esplicitamente alla possibilità di una risposta congiunta arabo-islamica contro il “regime sionista”.
Tuttavia, alle parole non è seguita alcuna azione concreta. I Paesi arabi, pur esprimendo indignazione, hanno di fatto spostato il piano dello scontro all’interno del campo imperialista. Il vertice di Doha ha rappresentato più un’occasione per trovare una posizione comune da presentare nel prossimo incontro a New York con l’amministrazione statunitense di Donald Trump, che non un reale passo avanti a favore della resistenza palestinese.
Nulla di nuovo, dunque, e anzi una conferma del consolidato legame tra le monarchie e i regimi arabi e l’imperialismo statunitense, un’alleanza che storicamente ha impedito qualsiasi azione effettiva contro Israele. Questo allineamento agli interessi occidentali ha portato, proprio in seguito al recente riconoscimento dello Stato di Palestina da parte di Canada e Regno Unito, a una proposta di “piano di stabilizzazione” per Gaza. Si tratterebbe — secondo fonti diplomatiche — dell’istituzione di una sorta di protettorato arabo, sotto egida ONU, con il fine ultimo di ridimensionare l’influenza di Hamas e, più in generale, della resistenza palestinese.
Si tratta di un chiaro segnale di soggiogamento da parte di molti regimi arabi — anche di quelli che, fino a pochi mesi fa, facevano parte del cosiddetto “asse della resistenza”. Una posizione che, oltre a evidenziare i limiti dell’attuale processo negoziale, ripropone le contraddizioni storiche delle politiche arabe nei confronti della questione palestinese.
Blocchi, droni e complicità: la dipendenza araba dall’imperialismo
Nell’estate scorsa, un gruppo di attivisti provenienti da diversi Paesi arabi aveva tentato di organizzare un convoglio via terra, denominato Qafilat al-Sumud (“La carovana della fermezza”), con l’obiettivo di rompere simbolicamente l’assedio imposto a Gaza. Il percorso, ambizioso e coraggioso, partiva dalla Tunisia e mirava a raggiungere il valico di Rafah, in Egitto.
Sin dall’inizio, l’iniziativa si è scontrata con una durissima campagna di delegittimazione condotta dagli stessi regimi arabi. Nonostante ciò, la carovana ha rappresentato un importante banco di prova per misurare la reale disponibilità dei Paesi arabi a sostenere la causa palestinese.
Dalla Tunisia erano partiti nove pullman e numerose automobili, cui si erano uniti attivisti da Algeria e Mauritania, nel tentativo di creare una mobilitazione a catena attraverso Libia ed Egitto. Alcuni partecipanti marocchini, impossibilitati a superare il confine con l’Algeria, avevano raggiunto Il Cairo in aereo. L’iniziativa si inseriva nel contesto della Global March to Gaza, una mobilitazione internazionale che aveva visto confluire in Egitto anche delegazioni europee.
Il convoglio aveva una solida base politica, frutto dell’esperienza maturata all’interno delle mobilitazioni tunisine, che fin dall’inizio hanno assunto una dimensione transnazionale. Le azioni di solidarietà verso gli attivisti arrestati in Giordania, così come le denunce della repressione in Egitto e Tunisia, testimoniavano l’esistenza di un legame intra-arabo che travalicava le retoriche ufficiali dei governi.
Ma proprio questa solidarietà ha rappresentato una minaccia per i regimi. In Egitto, le autorità hanno risposto con arresti arbitrari e un’intensificazione della sorveglianza nei confronti di attivisti arabi e internazionali. Anche in Libia, il cosiddetto “governo” di Khalifa Haftar ha bloccato il convoglio alle porte di Sirte, arrestando una ventina di partecipanti senza formulare alcuna accusa.
Dopo la repressione subita dal convoglio terrestre, è stata la volta della Global Sumud Flottilla — un’iniziativa navale a carattere internazionale che ha ottenuto e continua a ottenere un ampio sostegno in diversi paesi. A pochi giorni dalla partenza, mentre le imbarcazioni si trovavano nei pressi della località tunisina di Sidi Bou Said, un drone — presumibilmente israeliano — ha colpito una delle barche con materiale incendiario. A bordo era presente anche l’attivista Greta Thunberg.
L’episodio, pur avendo caratteristiche di un’azione terroristica, non ha prodotto reazioni ufficiali all’altezza della gravità. Il presidente tunisino Kais Saied, in un primo momento, ha attribuito l’incendio a una sigaretta, per poi correggere il tiro parlando di un giubbotto di salvataggio difettoso.
Una reazione che ha evidenziato le fragilità del regime tunisino di fronte alla violazione della propria sovranità. Un regime che ha fatto del nazionalismo uno strumento per legittimarsi internamente, ma che si mostra impotente di fronte agli attori internazionali, a cominciare da Israele. Tale debolezza è acuita dalla forte dipendenza economica della Tunisia dai finanziamenti di Unione Europea e Stati Uniti.
Un precedente emblematico risale alla fine degli anni ’80, quando Israele bombardò il quartiere di Hammam al-Shatt, nei pressi di Tunisi, nel tentativo di eliminare la leadership dell’OLP in esilio. Anche allora, la fragilità politica interna impedì una risposta adeguata. Oggi, nonostante il mutato contesto, la dinamica si ripropone. Non è un caso che la Tunisia sia stata indicata — ancora una volta — come uno dei possibili Paesi di destinazione per l’esilio forzato di alcune figure di spicco di Hamas.
A tale contesto si aggiunge il fatto che la maggior parte dei regimi della regione stiano ormai giocando il ruolo di protettore dell’entità sionista. L’Egitto e la Giordania di fatto complici del genocidio a Gaza e dell’occupazione violenta di territori in Cisgiordania, non solo mantengono alta l’attenzione ai propri confini contro i palestinesi, ma continuano a fare affari con lo stato ebraico. Accordi sul gas e sul commercio, dall’inizio dell’azione genocidaria contro la Palestina non sono mai stati messi in discussione, così come nulla è stato fatto in termini di revisione e sospensione degli Accordi di Pace.
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Governanti e governati: le pressioni dal basso della classe lavoratrice araba
Mentre si continua a sovrapporre quasi in maniera automatica le posizioni dei governi arabi con una più ampia e composita opinione pubblica di questi paesi, le azioni e le mobilitazioni delle masse arabe ci raccontano un’altra verità.
Nonostante l’alto grado di repressione all’interno dei diversi paesi, le mobilitazioni per sostenere la lotta di liberazione palestinese si sono moltiplicate. Spiccano su tutte quelle avutesi in Marocco durante questi due anni di guerra di sterminio contro Gaza. Come risaputo, lo stato marocchino ha normalizzato i rapporti con l’entità sionista e questo è corrisposto non solo con una cooperazione economico-commerciale più serrata, ma anche con una cooperazione a livello militare sia in termini di addestramento delle truppe e sia con il commercio delle armi. Negli ultimi due anni, ma anche prima (si ricordino le azioni di solidarietà dei marocchini presenti in Qatar per il mondiale di calcio del 2022), il paese è stato investito non solo da manifestazioni nelle principali città, ma anche di scioperi da parte dei lavoratori portuali che in più occasioni hanno bloccato i carichi di armi diretti verso Israele.
Le mosse del Marocco nella normalizzazione con Israele deve anche ricercarsi anche nell’accreditamento dello stesso verso la comunità internazionale rispetto alla volontà di annessione completa del Sahara Occidentale. Una questione che, oltre a ricalcare il sistema di colonizzazione, è stata al centro di polemiche proprio nella mobilitazione della carovana del Sumud, considerando che gli attivisti marocchini avevano condiviso una mappa in cui le cosiddette regioni meridionali (così definite dallo stato marocchino) erano di fatto separate dalla mappa del paese.
Una dinamica questa che riflette lo scollamento quasi totale tra l’inazione dei regimi arabi rispetto alla questione palestinese. La stessa Tunisia, così come l’Egitto e la Giordania sono anch’esse attraversate da diverse mobilitazioni che segnano la ferma opposizione contro la carneficina di Gaza e il colonialismo israeliano. Degne di nota sono state le ultime manifestazioni tenutesi al Cairo le quali, nonostante non fossero di massa, hanno portato avanti rivendicazioni chiare contro il regime di al-Sisi. Dalla scalinata del sindacato dei giornalisti, luogo simbolo del post-2011, gli slogan erano tutti rivolti al diritto alla resistenza del popolo palestinese e contro l’accordo di Camp David del 1979.
Un paese l’Egitto che in quest’ultimo periodo è stato inoltre segnato da numerose manifestazioni e scioperi all’interno delle principali industrie del paese che, come succede da più di un decennio, subiscono forti ridimensionamenti, bonus non pagati ai lavoratori e una centralità sempre più forte dell’esercito all’interno dell’economia. Ultima in ordine cronologico è stata quella nella fabbrica di zucchero ad Aswan dove decine di lavoratori hanno scioperato per due settimane consecutive dando vita a quella che è stata definita “l’intifada dello zucchero”. Parole non scelte a caso, ma che richiamano di fatto una lotta che sembra legarsi a parole d’ordine con un certo significato. Certo, questo non vuol dire che le lotte sociali siano così organiche al movimento di liberazione palestinese, tuttavia, indicano quanto il contesto generale all’interno della regione sia di fatto profondamente influenzato dalla questione palestinese.
Non dimentichiamoci infatti, quanto la Palestina abbia giocato un ruolo fondamentale nel processo di accumulazione delle energie rivoluzionarie che sono poi sfociate nella grande mobilitazione di Tahrir nel 2011.
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Il Piano Trump e la complicità delle monarchie del Golfo
Il Piano Trump è soltanto l’ultimo tassello di una serie di tradimenti arabi alla questione palestinese. I progetti visionari del piano che vuole trasformare Gaza in un enorme resort con zone economiche speciali non sono nuovi. Già negli anni ’80 -’90 la volontà soprattutto americana, con l’appoggio dell’OLP a guida Arafat avevano appoggiato il progetto di Gaza come la ‘Singapore del Medio Oriente’. Oggi, Trump illustra un piano che fa riferimento direttamente ai megaprogetti che le monarchie reazionarie del Golfo hanno realizzato negli anni. In uno dei punti, il 10, il piano afferma che: ‘sarà elaborato riunendo un gruppo di esperti che hanno contribuito alla nascita di alcune delle fiorenti e moderne città del Medio Oriente’. Un’opportunità che farà penetrare all’interno della Striscia i giganti delle infrastrutture per costruire una realtà non solo alla quale i palestinesi non avranno accesso, ma che saranno nei fatti manodopera a basso costo. A questo si aggiunge il fatto che finalmente gli stessi paesi arabi, in testa l’Arabia Saudita e a seguire Egitto e Giordania potranno finalmente formalizzare la loro normalizzazione con Israele che si tradurrà in una maggiore cooperazione e integrazione economica a livello regionale e vedrà fiorire gli interessi delle relative borghesie.
Un sogno che si realizza, considerando che l’integrazione israeliana all’intenro della regione è stata sempre un punto fermo della politica statunitense soprattutto all’indomani della guerra del Kippur del 1973. Gli accordi di Camp David del 1979 vertevano proprio sulla normalizzazione con Israele e avevano come punto fermo, prima ancora della risoluzione della questione palestinese, la normalizzazione con i paesi arabi.
La centralità della classe lavoratrice nella strategia di liberazione della Palestina
Negli anni ’70 quando la cosiddetta rivoluzione palestinese era al suo apice le fazioni rivoluzionarie di stampo marxista svilupparono tutta una serie di elaborazioni teoriche che ancora oggi dovrebbero ricoprire una certa centralità nello sviluppo di una forza rivoluzionaria. Il Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina (FDLP), in questo senso, era tra le più lucide nell’analizzare i rapporti di forza in campo e la relazione tra strategia di liberazione e ruolo della classe lavoratrice araba.
Nonostante la deriva nazionalista della fazione di Nayef Hawatmeh (Segretario generale del FDLP) successiva alla fine della guerra del 1973 e il sabotaggio dell’azione rivoluzionaria dopo la promozione del Programma dei Dieci Punti (riconoscimento implicito di Israele, 1974), essa seppe legare all’interno dei territori occupati lotta di classe e movimento di liberazione palestinese. Nei fatti non abbandonò mai l’idea di una strategia di liberazione attraverso la mobilitazione della classe in tutta la regione.
Oggi, di fronte al ruolo egemonico delle formazioni islamiste, in un’ottica di fronte popolarismo, e l’alleanza con stati reazionari come l’Iran o fazioni islamiste come Hezbollah sembrano essere l’unica via per rafforzare e ribaltare i rapporti di forza.
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Tuttavia, come invece dimostra la realtà sul campo, oltre a non rappresentare una valida alternativa, essa di fatto rischia di far passare in secondo piano il grande potenziale della classe lavoratrice all’interno della regione. Se sul campo di battaglia l’alleanza tra fazioni palestinesi debba essere sostenuta in funzione anti-sionista, di fatto sul piano politico e per l’organizzazione di una reale strategia di liberazione questo non è sufficiente e non è la via per una vera emancipazione non solo della Palestina, ma dell’intera regione. In questo senso, non ha neppure significato lanciare un astratto, quanto auspicabile, legame nella lotta tra lavoratori israeliani e palestinesi. Permane infatti una forte integrazione dei settori strategici della classe lavoratrice israeliana al progetto sionista complessivo. Nonostante le spaccature all’interno della società israeliana rispetto alle operazioni militari e alla strategia per liberare gli ostaggi permane, di fatto, una grande corrispondenza tra volontà popolare e governo rispetto all’annessione dei territori palestinesi – una situazione radicata in complesse dinamiche sociali e politiche (QUI e QUI per approfondire). Soltanto la lotta di classe nella regione Araba e Medio-Orientale, e a livello internazionale, può ribaltare i rapporti di forza a favore dei palestinesi e far saltare l’architettura imperialista a sostegno di Israele. Soltanto questa prospettiva potrà rendere chiaro a settori importanti della stessa classe lavoratrice nell’entità sionista che non si tratta solo di rompere con le politiche corrotte di Nethanyahu, ma con lo stesso sionismo.
All’interno del tentativo trumpiano di liquidare la questione palestinese, centrale sembra ancora essere il ruolo delle masse arabe. Nonostante non si sia sviluppato un reale movimento di massa all’interno dei regimi arabi, la contestazione alle azioni genocidarie israeliane hanno fatto emergere diverse contraddizioni in seno ai diversi regimi. Se da un lato si registrano azioni di contestazione dall’altro sembra mancare una guida politica in grado di rompere con i regimi e con l’imperialismo.
Mattia Giampaolo
Laureato in storia contemporanea dei paesi arabi alla Sapienza di Roma, nel 2018 ha conseguito il master in Lingue e Culture orientali alla IULM University.
Dottorando alla Sapienza presso il Dipartimento di Scienze Politiche, con una tesi su Gramsci, la rivoluzione passiva e la Primavera Araba.