Economisti borghesi, giornalisti, “filosofi” del libero mercato, ma anche gran parte della cosiddetta sinistra piccoloborghese insieme a sindacalisti “di mestiere”, ritengono che la ricchezza di una nazione sia determinata dalle risorse che imprenditori “illuminati e lungimiranti” investono in vari rami delle attività produttive.

Gli argomenti portati a sostegno di tali tesi sono i più svariati e normalmente vanno dai nuovi posti di lavoro realizzati nei settori industriali e nei servizi, fino all’aumento del PIL di una nazione.

La questione non è di poco conto e non è una mera questione di carattere accademico: intendo qui trattarla brevemente, così da introdurre il lettore a ulteriori letture sull’argomento, come l’ottimo Salario prezzo profitto di Karl Marx.

Analizzando una particolare merce, la merce forza-lavoro, che il capitalista compra “affittando” il lavoratore in un regime di libero mercato e, che nel processo della produzione delle merci produce/realizza sia nuovo valore (cioè il tempo socialmente necessario a produrre la merce) sia plusvalore, riusciremo a far luce su un argomento a prima vista complicato ed oscuro.

Un imprenditore, che compra delle merci, le ritrova intatte così come erano alla fine della lavorazione, cioè non modificate per il loro valore. Tali merci non avranno accresciuto il valore solo per il fatto di essere passate dalle mani di un imprenditore che le ha vendute ad uno che le ha comprate; il loro valore si è soltanto trasmesso nelle nuove merci prodotte. Di conseguenza il guadagno per il capitalista non può avvenire per il semplice fatto di aver acquistato delle merci e di averle vendute. Egli, in media (qui non parliamo dei singoli casi) non vende al di sopra del loro valore il prodotto realizzato, speculando sul prezzo e/o imbrogliando l’acquirente (o, in tal caso, è soggetto a variazioni che reciprocamente gli altri capitalisti fanno contro di lui), ma vende le merci sempre al loro valore. Se il guadagno per il capitalista non può nascere dalla semplice compravendita o da un imbroglio nel commercio, va da sé che questo deve per forza di cose avvenire in altro modo.

Nel processo della lavorazione interviene una “particolare” merce, la merce forza-lavoro che il capitalista ha precedentemente comprato secondo le leggi del mercato e che ora utilizza ai fini della realizzazione del prodotto finito. La forza-lavoro alle dipendenze del capitalista viene utilizzata per la trasformazione delle merci ed in questo processo, cioè lavorando il prodotto, l’operaio immette nuovo lavoro e realizza in esse un valore dovuto al proprio lavoro svolto. Da parte del lavoratore, l’atto che traduce in pratica il potenziale della forza-lavoro, cioè l’attitudine e il tempo necessari a lavorare, accresce il valore delle merci, che egli trasforma con l’ausilio di macchinari messi a disposizione dall’imprenditore, in quanto la sua attività, le sue conoscenze tecniche e manipolazione dell’oggetto creano un valore aggiunto, mentre il valore delle macchine si ritrasmette integralmente nella merce realizzata. Il valore d’uso della forza-lavoro realizza un valore che si immette nella merce.

Tale valore realizzato, fa sì che la merce abbia rispetto a quella iniziale un valore più grande e questo nuovo valore non può essere considerato l’equivalente del prezzo della forza-lavoro che il capitalista ha pagato secondo le regole del mercato. Rappresenta invece il suo valore di scambio. Siccome ogni merce ha in sé un duplice valore (valore d’uso e valore di scambio) la merce forza-lavoro ha nel suo specifico la caratteristica di produrre nuovo valore attraverso la qualità di valore d’uso che le è propria. Il capitale si appropria di questo nuovo valore prodotto dall’operaio in virtù del fatto che egli ha comprato la forza-lavoro in uno al suo valore d’uso.

È evidente, dunque, che tale forza-lavoro, produttrice di valore, non può che essere la classe operaia, cioè quella che affitta il suo tempo per sopravvivere e materialmente lavora nella produzione industriale delle merci.
È soltanto in questa relazione di lavoro che si produce quel “plusvalore” di cui si appropria la classe dei capitalisti.

Il valore – e di conseguenza il plusvalore – non può essere prodotto da altre classi sociali; non produce plusvalore il maestro di scuola per il semplice fatto di aver dato all’operaio le conoscenze tecniche che questi ha applicato nell’industria; non produce valore la madre di un figlio diventato operaio per il semplice fatto di averlo partorito e, quindi, di avergli dato braccia e cervello che ha utilizzato nella produzione; non producono valore né il medico né l’infermiere per le cure prestate all’operaio infortunato sul lavoro. Non è rendendo l’operaio di nuovo abile e potenzialmente in grado di produrre di nuovo plusvalore, che il medico e l’infermiere diventano produttori di valore.
Il valore si produce nell’ambito della produzione modificando le caratteristiche materiali delle merci. Le conoscenze tecniche e scientifiche ed il bagaglio culturale dell’operaio fanno parte del valore d’uso della merce forza-lavoro ma, come l’inchiostro della penna solo potenzialmente può diventare scrittura, così pure le conoscenze tecnico/scientifiche non producono di per sé plusvalore per il solo fatto di essere state trasmesse al futuro operaio. Il maestro ha fornito conoscenze tecniche, ma nonostante questo non ha prodotto nessun plusvalore particolare. Sarà invece l’operaio, merce forza-lavoro, a realizzare quel plusvalore nel momento della lavorazione.

Il Capitale, essendo un rapporto sociale totalizzante, ha bisogno per il suo dominio di assoggettare tutte le attività umane e di avere al suo servizio tantissime altre categorie di lavoratori. Queste categorie di lavoratori pur essendo sottomesse al Capitale – ed essendo necessario al fine della sua riproduzione complessiva – non entrano direttamente nel processo di formazione delle merci e, quindi, non producono valore, nonostante il loro ruolo possa essere necessario ai fini della circolazione delle stesse e delle fasi di circolazione del Capitale, della gestione dell’appartato statale/burocratico, del welfare, ecc.

La classe che regge l’intero sistema sociale, sia per le sue esigenze economiche che spirituali, è quella operaia. È l’unica che ha non soltanto un interesse oggettivo rivoluzionario nel superamento di questa società, ma anche un ruolo sociale oggettivo rivoluzionario, la forza socio-economica necessaria per superare questa società, emancipando la società intera nell’atto di emancipare sé stessa come classe sociale dal rapporto di sfruttamento capitalistico che la sottomette alla borghesia.

Nella Rivoluzione socialista, la classe operaia è il baricentro dello scontro. Nella sua lotta per il potere, costruisce ed esercita la sua egemonia nell’intera società e raccoglie intorno sé le masse proletarizzate, del ceto medio, della piccola borghesia.


Liberando se stessa, la classe operaia libera l’intera umanità.

Salvatore Cappuccio

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