Di CM

Il 19 Aprile è stato presentato, davanti alle commissioni di bilancio di Camera e Senato il Def, Documento di economia e finanza, documento con cui si dovrebbero programmare, appunto, gli obiettivi economici e finanziari del paese. Ad aprire la discussione è stato Roberto Monducci, direttore dell’ISTAT, istituto nazionale di statistica. Quel che ne viene fuori per quanto riguarda soprattutto l’ambito giovanile è interessante e merita una piccola riflessione.

In Italia il 40% dei giovani tra i 25 e i 34 anni di età è disoccupato, una stima che da meglio le condizioni drammatiche della gioventù rispetto alla fascia d’età presa solitamente in considerazione, ovvero 15-24 anni, fascia d’età in cui di solito si studia e si risulta quindi inoccupati (ovvero persone che non hanno mai lavorato o che hanno lavorato in nero, status che evidentemente non viene conteggiato in quanto formalmente illecito, nonostante sia molto presente in tutto il paese come chiunque abbia un minimo di collegamento con la realtà sa benissimo). Il quadro che ci torna indietro complessivamente è fosco per le nuove generazioni e le problematicità andranno approfondendosi se tanto ci da tanto nei prossimi tempi dopo sette anni di recessione che hanno devastato il panorama sociale e i cui effetti vedremo ancora a lungo.

C’è poi da capire di cosa si tratta secondo l’Istituto Nazionale di Statistica quando si parla di occupazione, infatti, secondo le modalità dell’ISTAT, per risultare occupati basta aver lavorato almeno un’ora a settimana in una qualsiasi attività retribuita in denaro o in natura (?!) oppure aver svolto un’ora di lavoro (sempre a settimana) nell’azienda di famiglia in cui ci si adopera abitualmente. Si capisce benissimo che in un mondo del lavoro in cui con l’introduzione del Jobs Act che rende licenziamenti più facili e quindi intralcia la tanto agognata stabilità economica, le statistiche non possono che essere più ”rosee” (si fa per dire) rispetto alla realtà dei fatti. Viene poi in mente che, nonostante una situazione tanto preoccupante per le nuove generazioni, il governo vara decreti come la Buona Scuola che regala letteralmente centinaia di migliaia di studenti alle aziende come manodopera gratuita.

A completare il quadro, lo diciamo tanto per dare una visione complessiva anche se superficiale della situazione, ci sono più di sette milioni di persone che vivono in grave deprivazione materiale (dato impostato rispetto ad una media europea) quasi il 12% della popolazione, soprattutto giovanissimi e anziani.

La crisi continua a mordere, insomma, e ferocemente, mandando intere giovani generazioni incontro ad un futuro molto più precario e povero rispetto alle condizioni dei propri genitori e nonni. Eppure nessuno, ai piani alti, sembra chiedersi il meccanismo che genera un effetto tanto palesemente illogico. Chi lavora vede i ritmi intensificarsi, gli orari allungarsi, spesso ben oltre le 8 ore al giorno, mentre milioni di persone rimangono a casa o sono costretti in lavori meno che part time che non danno alcuna stabilità economica, non danno la possibilità di acquistare una casa o di mettere su famiglia (a meno di importanti aiuti di genitori e famigliari, per chi può permetterseli e ce li ha), mentre centinaia sono i casi di suicidi per motivi legati alla crisi economica. Marx ha analizzato da vicino il problema di quello che lui chiama “esercito industriale di riserva”: questo insieme di persone viene definito dal rivoluzionario e scienziato tedesco come una “condizione necessaria d’esistenza del modo di produzione capitalistico. Essa (la sovrappopolazione operaia) costituisce un esercito industriale di riserva disponibile che appartiene integralmente al capitalista […] disponibile in ogni momento” (Il Capitale – Libro primo, capitolo ventitreesimo, paragrafo 3). Insomma, centocinquanta anni fa già si parlava di disoccupazione in relazione al tipo di sistema di produzione capitalistico e per quanto tutto possa essere rivisto, corretto e approfondito, i dati ci dicono che questa tendenza esiste ancora e che secoli di chiacchiere borghesi sul fatto che chi non trova lavoro deve la sua condizione esclusivamente  al fatto che non si impegna abbastanza o a qualche oscura tara “genetica” sono, appunto, chiacchiere e nient’altro.

È di fondamentale importanza comprendere che se non si trova lavoro o non si ha stabilità economica la colpa non è da far pendere sulla testa dei disoccupati o sotto occupati e nemmeno frutto esclusivo della “cattiveria” di qualche imprenditore senza scrupoli, ma è dovuta principalmente al sistema economico in cui viviamo e la disoccupazione non è certo un’anomalia di tale sistema, è una regola. Prendere atto che siamo in guerra contro una classe che domina le nostre esistenze dominando il mercato è il primo passo per emancipare noi stessi dalla rassegnazione, unire le lotte di lavoratori e disoccupati, riconoscersi come schiacciati dallo stesso stivale, non lasciarsi dividere dalla classe dominante, è un compito arduo e fondamentale per le nuove generazioni. Sta a milioni di giovani e giovanissimi dal futuro incerto trasformare la rassegnazione in rabbia, e la rabbia in organizzazione.