Le necessità materiali e immediate della borghesia americana e della politica imperialista hanno riportato alla realtà il presidente USA Donald Trump che, per il suo cocktail elettorale a base di nazionalismo a buon mercato, aveva utilizzato anche l’ingrediente dell’isolazionismo “pacifico”, una “dottrina Trump” tutta incentrata sull’America stessa, che ricordava quella di Monroe. La politica “pacifica”, di distensione con i rivali storici, di disimpegno dagli scenari caldi di intervento militare (come Siria, Iraq, Afghanistan) non è andata oltre il periodo della campagna elettorale e dell’insediamento di Trump: gli umori a dir poco tesi di diversi organi statali sensibili, specie tra i militari e i servizi segreti, e la necessità, per i parlamentari non solo repubblicani ma anche democratici, di rendere conto non tanto al popolo americano, quanto ai grandi gruppi industriali e bancari che hanno buona parte dei loro traffici, delle loro sedi fiscali e dei loro stabilimenti produttivi, dei loro capitali all’estero, e la cui stessa sopravvivenza dipende dalla continua espansione all’estero, dalla conquista di nuove fette di mercato – quindi, sul piano politico e militare, dalla conferma, e non dallo smantellamento, del ruolo di prima potenza mondiale del loro Stato di riferimento, appunto gli USA.

È proprio a partire dalle necessità politiche dei padroni della società e dello Stato americani, che possiamo comprendere il rilancio su vasta scala della politica imperialista degli USA nelle ultime settimane: l’intervento a gamba tesa contro Assad, sfruttando il bombardamento con armi chimiche a Idlib, per riaprire la partita sul futuro della Siria e sull’influenza di Russia e USA stessi su quel paese e in particolare sul traffico di gas e petrolio verso l’Europa; l’aumento delle truppe americane direttamente coinvolte tra Kurdistan e Iraq, formalmente impegnate contro Daesh, ma senz’altro utilissime per reclamare poi un’ennesima zona (il Kurdistan siro-iracheno stesso) dove installare la propria egemonia economica e militare (a suon di nuove caserme e basi militari di vario tipo); la polemica con i governi europei della NATO affinché paghino quote più eque nel bilancio complessivo dell’alleanza atlantica (fondi, risparmiati così dagli USA, che permetterebbero dunque interventi più sostanziosi in altri scenari); l’escalation di tensione con la Corea del Nord, un po’ da drole de guerre a dire il vero, tra collaudi di razzi coreani molto spettacolari, ma sicuramente non in grado di “spazzare via” né gli USA né altre potenze (come affermato dal dittatore Kim Jong-un), e flotte che vagano nel Pacifico “riciclando” altre missioni per sembrare tutti intente e disponibili ad attaccare immediatamente la Corea stessa.

Permane dunque una continuità militare e politica con la politica del “ribilanciamento verso l’Asia” che ha caratterizzato l’amministrazione Obama: di fronte ai progetti mastodontici di una grande nuova Via della Seta, su diversi tracciati navali e terrestri, che permetta alla Cina un’esportazione di merci massiccia e predominante su tutta l’Asia continentale e l’Europa, gli USA continuano la loro strategia di arginamento dell’espansione economica e militare cinese anche verso il Pacifico e l’Asia sudorientale, rinsaldando i rapporti anche militari con le Filippine e permettendo al Giappone di riarmarsi per poter meglio fronteggiare prossime situazioni di crisi politico-militare, e sfruttando infine la guasconeria del coreano Kim per imporre un disarmo quanto più ampio possibile dell’arsenale nucleare nordcoreano; un arsenale certo “piccolo” e antiquato, ma non per questo meno capace di costituire un’incognita e una minaccia militare reale agli USA e ai loro alleati nell’area.

Specie nell’era della guerra mediatica, dove lo stesso presidente USA fa politica freneticamente a colpi di tweet, l’enorme risalto dato al caso coreano conferma la situazione delicata dell’imperialismo USA nell’affrontare la colossale espansione economica della Cina, che continua ad avere una crescita annuale del PIL nominale (quella reale potrebbe essere superiore) di poco inferiore all’8%, mentre quella mondiale non arriva al 3% e quella italiana (dopo aver inserito nel conto del PIL un po’ di tutto, traffico di droghe pesanti incluso) nel 2017 a malapena raggiungerà lo 0,9%. L’occasione di un colpo diretto a uno dei paesi sotto l’egemonia cinese (la Nord Corea) ha permesso agli USA di puntare a un potenziale successo politico e bellico proprio alle porte della Cina stessa, dopo la cocente sconfitta nella mancata ratifica dei grandi trattati commerciali TPP e TTIP, che puntavano a creare grandi reti rispettivamente attraverso gli Oceani Pacifico e Atlantico, marginalizzando la Cina nel mercato mondiale.

La questione principale della politica estera USA rimane dunque la sfida con la seconda potenza economica mondiale e col maggior detentore di titoli del tesoro americano, la Cina, la quale, anche sul piano militare, sta cercando di colmare il vuoto tecnologico e di mezzi bellici che la separa dalle potenze imperialiste tradizionali: è di mercoledì scorso la notizia ufficiale del varo della sua seconda portaerei, la Shadong, primo risultato di un piano che dovrebbe portare in pochi anni a un parco di 4-6 portaerei, di nuova fabbricazione come quella appena varata.

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Il teatro asiatico-pacifico non cancella l’impegno di lungo periodo dell’imperialismo USA in Europa ed Asia, cioè l’egemonia economico-militare quanto più larga possibile sui territori dell’ex-Unione Sovietica: un progetto che sconta da anni la reazione della Russia e della politica di potenza del suo Cesare, Vladimir Putin. Un piano, quello di Putin, di ripresa del ruolo di potenza alternativa a quella USA, ripreso dalla situazione della guerra fredda URSS-USA e “riciclato” a seguito del pieno ripristino della società borghese e della fase di recessione e di assalto euro-americano alle immense risorse ex-sovietiche che seguì alla fine dell’URSS; un piano che però si trova a fare i conti con tutta una serie di fattori che ostacolano l’ascesa della Russia come potenza imperialista di primo rango (dalla perdita di molte “province” periferiche industrializzate dell’URSS, a una popolazione di “soli” 147 milioni di abitanti, a un’economia sensibile alla variazione di prezzo di alcune merci, specie gli idrocarburi).

Come gli USA si pongono il compito strategico di ridimensionare la potenza economica-militare della Cina prima che essa possa sfidarli direttamente per il ruolo di prima potenza imperialista mondiale, così continua la preparazione a un possibile depotenziamento economico, politico e bellico della borghesia russa e del suo Stato.

In questo senso, continua lo sviluppo di un colossale dispositivo militare sulla frontiera tra Russia e Europa, in questi ultimi anni arricchito da truppe più numerose e organizzate sempre più precisamente e centralmente sotto il comando NATO, sistemi missilistici, basi militari capaci di reazioni rapide in caso di crisi militare, eccetera.

Notevole in questo quadro l’esercitazione di cyber-difesa, patrocinata dalla dalla NATO Cooperative Cyber Defence Centre of Excellence, che si svolge proprio in questi giorni a Tallinn, capitale dell’Estonia (uno dei paesi della frontiera Russia-NATO, tra gli ultimi ad entrare nell’Alleanza Atlantica). L’operazione, denominata Locked Shields 2017, è l’esercitazione del suo tipo più grande e avanzata al giorno d’oggi l’esercitazione di Cyber-Difesa più grande e più avanzata del mondo.

“L’esercizio comprende circa 800 partecipanti provenienti da 25 nazioni. I partecipanti includono esperti di sicurezza che proteggono i sistemi IT nazionali, i funzionari statali e i consulenti legali degli Alleati e partner della NATO. Secondo lo scenario di esercitazione, gli esperti dovranno difendere i servizi e le reti di una base aerea militare di un paese fittizio, contro gli attacchi informatici che mirano al sistema di rete elettrica della base, ai droni, ai sistemi di comando e controllo militari e ad altre infrastrutture. Più di 2500 cyber-attacchi saranno simulati. Mentre gli esperti IT si alleneranno per difendere le reti informatiche e per affrontare problemi legali e legali, i funzionari statali si esercitano nelle procedure decisionali.

L’esercitazione di Locked Shields [“scudi serrati”] è stata organizzata dal Centro di Cooperazione Nazionale di Difesa Cyber dal 2010. L’esercitazione è fatta in collaborazione con le forze di difesa estone, con l’Esercito britannico, con il Comando degli Stati Uniti, con le forze di difesa finlandesi, e con l’Università di Tecnologia di Tallinn. I partner industriali sono anche strettamente coinvolti“.

La centralità del concetto di “difesa”, che troviamo nella retorica e nella prassi della politica estera USA e delle sue forze armate, dimostra lo studio attento di militari e politici americani del pensiero militare e psicologico, per cui la migliore strategia è quella di una “difesa” pronta a far sbilanciare l’avversario attaccante e a contro-attaccarlo, e la migliore dichiarazione di guerra è quella di chi formalmente viene attaccato per primo e può così rispondere a un’offesa, a un torto – di qui l’attesa, ad esempio, dell’attacco giapponese a Pearl Harbor nel 1941, l’incidente del golfo del Tonkino, il falso pericolo delle armi chimiche di Saddam Hussein, le provocazioni verso Corea del Nord e Russia al fine di coglierle prima o poi “sbilanciate” e vulnerabili.

L’offensiva più pericolosa per la borghesia USA, però, rimane sempre quella “dall’interno”, rimane cioè il possibile sviluppo anticapitalista delle lotte degli sfruttati e degli oppressi statunitensi, e la formazione di un partito rivoluzionario dell’avanguardia del movimento operaio americano, pericoloso “stato maggiore” della futura guerra di classe negli USA, la sola che potrà davvero sconfiggere e spazzare via i parassiti della borghesia americana insieme al suo Stato. Una guerra che infatti fa paura alla borghesia americana impegnata, con grande zelo anche sotto il democratico Obama, a sperimentare militarizzazioni e tattiche di guerriglia urbana sempre più estese e raffinate, quando si tratta di affrontare il proletariato e le masse metropolitane diseredate che si rivoltano.

 

Giacomo Turci

Nato a Cesena nel 1992. Ha studiato antropologia e geografia all'Università di Bologna. Direttore della Voce delle Lotte, risiede a e insegna geografia a Roma nelle scuole superiori.