In questo mondo, e per questo mondo intendo il quotidiano, è tutto un “Dammi, dammi, dammi. State tutti indietro.” È quello che viene insegnato nelle scuole e nelle grandi imprese. Vuoi avere successo? Essere come Trump? Spingi, calpesta, schiaccia. Le cose vanno così e nessuno si ferma mai. […]

Noi giovani neri vogliamo ciò che ci spetta. Non abbiamo eredità, dobbiamo costruire da noi il nostro impero. La nostra eredità è il cotone. Noi ci siamo stati, siamo stati dei buoni amici se vogliamo metterla sul piano delle relazioni, è come avere un amico che non proteggi mentre sei coperto di gioielli. Ora l’America ha i gioielli e non ci presta attenzione.

Se questo è davvero un melting pot, un paese con diverse culture, con Lady Liberty che ci guarda con la mano in alto… Ci sono troppi soldi qui. Nessuno dovrebbe vincere 36 milioni di dollari alla lotteria quando ci sono bambini che muoiono di fame nelle periferie. Non è idealistico, non è reale, è semplicemente stupido.

Non esiste che un Michael Jackson o qualsiasi altro Jackson guadagni milioni quando la gente muore di fame. Possiedono aerei mentre altri non hanno case, baracche, sacchi in cui dormire, pantaloni!

So che sei ricco, so che hai 40 milioni di dollari, ma non ti puoi accontentare di una casa? Hai bisogno di una casa. Per due figli hai bisogno di due stanze. Perché avere 52 stanze quando altri non ne hanno neanche una? Per me non ha senso e non ne ha.

 

Stile immediato, semplice, carismatico, rivoluzionario. Non è facile parlare in modo così diretto, comprensibile, d’impatto, arrivando al cuore dei problemi che si vogliono affrontare. Ci provano politici e politicanti con risultati per lo più goffi, ci sono riusciti i grandi rivoluzionari della storia, come nel caso del discorso all’ONU di “Che” Guevara.

Eppure queste parole derivano da un’insospettabile intervista del rapper Tupac ad Mtv del 1992.

Difficile da conciliare frasi tanto intelligenti e profetiche con l’immagine che in genere si associa a questo genere musicale tanto chiacchierato in tempi recenti, ma difficilmente identificato propriamente.

Chi invece conosce qualche accenno della vita personale di Tupac non dovrebbe essere affatto stupito dalla natura delle sue dichiarazioni.

Tupac Amaru Shakur nasce a New York nel 1971 pochi mesi dopo la scarcerazione di sua madre, fervente attivista che, fino a poco prima, stava scontando una pena per aver piazzato un ordigno in un edificio per conto delle Pantere Nere, nelle quali militava. L’artista deve il suo nome a Tupac Amaru, rivoluzionario peruviano che aveva combattuto per l’indipendenza dagli spagnoli.

Per sempre porterà rispetto per quella figura materna che aveva allevato in solitudine non solo lui, ma anche una sorella nata da un altro padre assente e che gli avrebbe istillato sin da piccolissimo un’accentuata coscienza di classe. La famiglia Shakur vive in estrema povertà. Le vacanze sono in casa della nonna, dall’altra parte della strada, i crampi allo stomaco per la fame sono un’esperienza quotidiana per Tupac e sua sorella.

Quello che sarebbe diventato uno dei più celebri rapper della storia comincia scrivendo poesie e facendosi notare dai docenti della Baltimore School of Arts per i variegati interessi, lo sconfinato talento. Tupac però aspira a qualcosa di diverso rispetto a quello spingere, schiacciare, calpestare per arrivare ad emergere dal ghetto: vuole fare emergere il ghetto.

Nella sua scalata al successo non lascia mai indietro gli amici fraterni che con lui hanno vissuto ambienti devastati dall’ingiustizia che permea le periferie americane: droghe di ogni genere ad ogni angolo, vendute e lasciate spacciare da quelli che sono poco più che bambini, l’impossibilità, in un sistema scolastico basato sul privilegio, di vedere un futuro diverso dalla strada. La galera come tappa necessaria di crescita per chi sarebbe riuscito a non marcirvi dentro. La polizia come nemico di classe, cane da guardia di quel mondo di abissali divari sociali che un nero poteva solo guardare attraverso le sbarre o le finestre di case fatiscenti opportunamente sistemate lontane dalle zone ricche della città. Sono tematiche che Tupac non svenderà mai. È anzi proprio di questo crudo realismo che si nutre il suo successo. Il rapper sa di cosa parla, non si lascia quella realtà alle spalle. Non smette mai di dimostrarsi riconoscente verso quei fratelli del ghetto dediti allo spaccio e ad altre attività criminali che gli hanno guardato le spalle e gli hanno insegnato cosa significhi vivere in un mondo in cui il confine del Bene e del Male non è tracciato dalla legge, la quale finisce fin troppo spesso per essere strumento di abusi e soprusi.

L’ascolto della sua musica arriva ad essere presentato come un pericolo addirittura dal vice-presidente degli Stati Uniti. La fedina penale, prima vergine, con la popolarità si imbrunisce rivelandosi una sorta di diario di bordo di quelle che furono le sue battaglie.

Viene fermato nel bel mezzo di un attraversamento incauto e, mandati a quel paese i poliziotti, è brutalmente pestato. Intenta una causa per 10 milioni di dollari alla città di Oakland.

Nuovo scontro con le forze dell’ordine: nota due agenti intenti ad importunare un guidatore nero, nella ressa che ne segue spara ad entrambi, crimine che in America avrebbe potuto fargli guadagnare l’ergastolo. Invece i due uomini risultano imbottiti di cocaina e marijuana.

Accusato di istigazione alla violenza per la morte di un agente per mano di un ragazzo che dichiara di ascoltare la sua musica, sarà scagionato ricorrendo al principio della libertà d’espressione.

Sono solo alcuni dei guai giudiziari coi quali ha a che fare il rapper, rivelatori di una vita che non riuscì mai a lasciarsi dietro il senso di ingiustizia, la coscienza di appartenere ad una razza che non aveva certo finito di scontare le umiliazioni che la bugiarda libertà americana aveva in serbo per lei. Violente le discriminazioni, violenti gli abusi, violenta la morte alla quale andrà in contro l’artista alla giovanissima età di 25 anni.

Nell’intervista a Mtv Tupac parla della sola eredità materiale che i neri, a differenza degli altri americani, abbiano come promemoria del loro passato: il cotone. Il riferimento ai secoli bui di schiavitù del popolo afro-americano è un punto sul quale vale la pena riflettere per arrivare a capire come mai le condizioni dei neri non sono cambiate al punto da sventare soprusi che non si possono definire propriamente episodici come quelli di Ferguson.

È il 1865 quando, al termine della Guerra Civile, la schiavitù viene ufficialmente resa illegale dalla Costituzione degli Stati Uniti d’America. O, almeno, questa è la storia che molti amano ascoltare e raccontare. Il XIII emendamento col quale questo provvedimento avrebbe dovuto rendersi effettivo, in realtà recita così:

La schiavitù o altra forma di costrizione personale non potranno essere ammesse negli Stati Uniti, o in luogo alcuno soggetto alla loro giurisdizione, se non come punizione di un reato per il quale l’imputato sia stato dichiarato colpevole con la dovuta procedura.

Nel testo è presente la soluzione a quella che sarebbe stata una vera e propria catastrofe per l’economia americana. Distruttivo sarebbe stato affrancare decine di migliaia di schiavi, un esercito di manodopera non pagata, sfruttata per i lavori più umili, che andava costruendo quella che sarebbe stato il sistema economico terribilmente ingiusto e mastodontico della più grande potenza del mondo. Una mossa vincente sarebbe stata – ed almeno per l’economia lo è stata – quella di indurre tutte quelle persone ad una nuova forma di lavoro gratuito, ma come?

Gli schiavi appena liberati vagavano per le città senza la benché minima idea di quello che sarebbe stato il loro futuro. Non avevano un’istruzione, in tanti casi tutto ciò che sapevano fare era qualcosa di umiliante per la loro dignità di uomini. Lo Stato non aveva previsto alcuna forma di sostegno per loro e di quella libertà priva di significato in molti non sapevano cosa farsene.

In un’America ancora profondamente razzista, la quale stentava a riconoscerli come esseri umani, presero naturalmente a vagare per le strade, a commettere piccoli crimini per i quali vennero incarcerati in massa. La schiavitù è infatti, da Costituzione, abolita “se non come punizione di un reato”. Così recita il XIII emendamento sopra citato. 

Incarcerando decine di migliaia di neri e destinandoli ad un nuovo genere di lavoro gratuito per le prigioni, che cominciarono ad essere fra i business più floridi del mercato, gli Stati Uniti d’America si assicurarono un posto dominante fra le grandi potenze economiche. Posto che conservano accanto al primato rispetto alla popolazione carceraria: secondo il documentario da Oscar “XII emendamento”, gli USA detengono nelle proprie galere il 25% della popolazione mondiale attualmente in carcere e, chiaramente, al lavoro.

Tupac nell’intervista a MTV parla di una mano da Lady Liberty, la Signora Libertà, che pare non tendersi mai in aiuto del popolo nero che aspetta invano ormai da secoli.

Certo la situazione è cambiata.

Il rapper cantava “We ain’t ready to see a black president yet” (Non siamo ancora pronti a vedere un presidente nero). Ebbene il Presidente nero, il premio Nobel che ha autorizzato bombardamenti in cui hanno perso la vita migliaia di persone, lo abbiamo visto.

Se su questa base, però, ci si illude di un cambiamento reale, bisogna portare alla mente le parole di Malcom X. In un suo celebre discorso, l’attivista nero distingueva infatti i “negri da cortile” e “negri dei campi”. I primi, una minoranza di vestiti, istruiti e ben curati da chi li possedeva, avrebbero sempre naturalmente parteggiato per la reazione, per i padroni e sarebbero stati sempre ben felici di lavorare in armonia per loro. I secondi, invece, vestiti di stracci, nutriti con avanzi e ridotti ad una vita di faticosissimi stenti, sarebbero fuggiti alla prima occasione.

Attualmente quando si analizza a fondo la società americana ci si ritrova davanti ad una polveriera: conflitti di ogni genere la lacerano. Anni di maccartismo hanno provato ad estirpare al popolo americano concetti come quello di coscienza e lotta di classe, prospettive antagoniste al liberismo sfrenato che ha limitato ai confini delle grandi città sormontate da grattacieli baraccopoli in lamiere abitate da homeless, drogati, alcolizzati, persone del tutto tagliate fuori da ogni forma di assistenza. È straordinario quindi rilevare come lo spirito di coesione, organizzazione e ribellione sia nato naturalmente in quella che potrebbe essere definita come una vera e propria cattività, dando vita a realtà di lotta come le Pantere Nere o propagandosi attraverso la musica di artisti come Tupac.

L’elezione a presidente di Donald Trump, con le mobilitazioni e gli scioperi al seguito, ha portato alla luce la nuova fase di proletarizzazione del popolo americano, dove la retorica nazionalista ha ottenuto, in primis nell’attirare voti, una divisione politica tra molti lavoratori bianchi (specie nelle aree de-industrializzate e con alta disoccupazione, e nelle realtà di provincia) da donne, immigrati, giovani; i primi, scivolando verso condizioni di vita inferiori e perdendo via via il loro status di aristocrazia operaia, si trovano anch’essi a pressare un welfare dalle potenzialità limitate che già faceva fatica a fronteggiare le rivendicazioni delle altre etnie, dei ghetti, delle disastrate periferie. Il conflitto sociale, accentuato dalla contesa di poche briciole per un proletariato che è ora davvero un melting pot, si è infiammato, dando spazio ad una nuova stagione di razzismo, abusi e soprusi ai quali non è stata mai realmente posta una fine. I fatti di Ferguson testimoniano questo.

Negli austeri ambienti della sinistra rivoluzionaria si tende a dar credito a personalità di un certo calibro. Fu Malcom X a dire: “Non si farà mai una Rivoluzione sulle note di We shall overcome”in riferimento alla celebre canzone pacifista. La Rivoluzione è un evento ben più crudo, violento, reale e drammatico, una dinamica che si manifesta come una novità e una rottura rispetto al contesto da cui nasce. Altrimenti non sarebbe che la ripetizione di un fallimento facilmente domabile.

Così, da qualche parte del mondo, potrebbe compiersi al ritmo cadenzato di parole profetiche scritte da ragazzi con tattoo,   piercing ed abbigliamento non proprio severo:

Cops give a damn about a negro,

pull the trigger

kill a nigga, he’s a hero.

Give the crack to the kids, who the hell cares?

One less hungry mouth on the Welfare.

First ship ‘em dope and let ‘em deal the brothers

Give ‘em guns, step back, watch ‘em kill each other.

It’s time to fight back,

that’s what Huey said,

two shots in the dark

now Huey’s dead

I got love for my brother

But we can never go nowhere unless we share with each other.

We gotta start makin’ changes,

learn to see me as a brother

instead of two distant strangers”

“I poliziotti se ne fottono di un negro,

preme un grilletto

uccide un negro, è un eroe.

Dai del crack ai bambini, a chi diavolo interessa?

Una bocca affamata in meno per il Welfare.

Prima spediscono loro la droga, poi fanno spacciare i fratelli

Danno loro pistole, si fanno da parte e li guardano uccidersi a vicenda

È tempo di comattere anche noi,

questo disse Huey,

due colpi nel buio,

ora Huey è morto.

Amo i miei fratelli

Ma non andremo da nessuna partecipare

senza condivisione tra di noi.

Dobbiamo cominciare a cambiare

imparare a vederci come fratelli

e non come stranieri distanti”

 

Rosa Scamardella

Redattore della Voce delle Lotte, nato a Napoli nel 1996. Laureato in Infermieristica presso l'Università "La Sapienza" di Roma, lavora come infermiere.

La Voce delle Lotte ospita i contributi politici, le cronache, le corrispondenze di centinaia compagni e compagne dall'Italia e dall'estero, così come una selezione di materiali della Rete Internazionale di giornali online La Izquierda Diario, di cui facciamo parte.