Pubblichiamo la prima parte (qui la seconda) di un’intervista pubblicata su Izquierda Diario di Juan Dal Maso a Pietro Basso, sociologo italiano che svolge lavori di ricerca sulle cause del fenomeno delle migrazioni e la sua relazione con la crisi del capitalismo. Un contributo analitico che pensiamo possa essere utile per chiarire diversi aspetti delle politiche razziste degli Stati-Nazione imperialisti d’Europa.


Quali sono le cause della crisi immigratoria attuale in Europa?

La causa immediata è il progressivo e concomitante collasso di interi paesi del Medio Oriente e dell’Africa araba e nera sotto il peso diventato ormai insostenibile di guerre, guerre civili e processi di impoverimento in corso da anni. In Siria, oggi, secondo dati Onu, ci sono 7,6 milioni di sfollati (su una popolazione di poco più di 20 milioni di abitanti), l’80% della popolazione vive in condizioni di povertà, le principali città sono semi-distrutte e le principali attività produttive del paese sono pressoché demolite. In Iraq, un paese che gli Stati Uniti e l’Europa stanno devastando e disgregando da un quarto di secolo, in modo diretto e indiretto, la situazione è altrettanto tragica. Per non parlare della Libia, della Palestina, dello Yemen, dell’Afghanistan. Anche in vaste zone dell’Africa orientale (Eritrea, Etiopia, Somalia, Sudan) e occidentale (Mali, Costa d’Avorio, Senegal, etc.) è diventato difficile perfino sopravvivere. Per chi può, la fuga verso l’Europa rimane la sola possibilità di avere un futuro: “fuggire o morire”.

Da questi paesi è giunto in Europa nel 2015 circa un milione di profughi, con una forte crescita rispetto agli anni precedenti. Questi profughi sono andati ad aggiungersi al ‘normale’ movimento migratorio verso l’Europa (e dentro l’Europa, da Est verso Ovest e da Sud verso Nord), che è in atto da molti decenni.

Hai studiato la crescita esponenziale delle migrazioni internazionali tra il 1950 e il 2010 e osservato che nei prossimi 35 anni gli emigranti alla scala internazionale potrebbero arrivare a circa 400 milioni (dagli attuali 230 milioni). Quello che sta accadendo ora in Europa è parte di questa dinamica, o implica un’accelerazione o un cambiamento qualitativo di essa?

È sicuramente parte della dinamica complessiva di crescita delle migrazioni alla scala mondiale, ma nello stesso tempo segnala alcuni cambiamenti dentro questa dinamica.

La crescita delle migrazioni internazionali è dovuta a cause strutturali di lungo periodo. Le principali sono: 1) le diseguaglianze di sviluppo prodotte dal colonialismo e dal neo-colonialismo, che hanno diviso il mondo in paesi ricchi e paesi poveri. 2) La violenta pressione del capitale e delle multinazionali dell’agribusiness sull’agricoltura dei paesi di Asia, Africa, America latina, che sta cacciando dalle campagne enormi masse di contadini poveri e di braccianti. 3) L’indebitamento forzato di questi paesi. 4) La catena infinita delle guerre “locali”, scatenate direttamente, o per procura, dagli stati europei e dagli Stati Uniti (ma non bisogna dimenticare il sistematico e periodico massacro di Gaza da parte di Israele). 5) I disastri ecologici. La crisi scoppiata nel 2008 ha esasperato tutti questi processi. In vaste aree del Sud del mondo non si può più vivere. Di sicuro è impossibile una vita dignitosa. Ecco perché masse crescenti di lavoratori e lavoratrici sono costrette ad emigrare.

All’interno di questa dinamica di lungo periodo, quello che sta accadendo ora in Europa indica il crescente peso delle guerre e delle guerre civili nel produrre emigranti. Questi vengono di solito etichettati “rifugiati” e “richiedenti asilo” per distinguerli dai cosiddetti “emigranti economici”. A me questa distinzione non piace affatto. Perché le emigrazioni, siano dovute a fattori economici, politici, militari, culturali, o, spesso, ad un mix di questi fattori, sono sempre e comunque emigrazioni forzate.  Nessuno/a lascia “volontariamente”, a cuor leggero la propria terra di nascita. Ciò detto, è evidente che le guerre e le guerre civili in corso nella lunga fascia che va dalla Libia all’Afghanistan e dalla Costa d’Avorio al Corno d’Africa hanno raggiunto un’intensità devastante. Questa intensità si deve alla loro crescente internazionalizzazione, alla feroce contesa, senza esclusione di colpi, tra le vecchie potenze coloniali e i nuovi attori regionali per accaparrarsi il dominio in queste aree. Con ciò non intendo scusare nessuno dei governi locali, tutti nemici delle proprie popolazioni, ma solo sottolineare che in queste tragiche vicende la responsabilità di ultima istanza è dei poteri forti del capitale globale.

In questo momento si parla molto di rifugiati siriani; ma non sono gli unici migranti diretti verso l’Europa. Qual è l’attuale composizione dei migranti?

Vorrei fare prima una precisazione terminologica. Preferisco parlare di emigranti, e non di migranti, per sottolineare anzitutto che non si proviene dal nulla, ma da un preciso contesto socio-culturale e nazionale, e in secondo luogo che lo si è lasciato perché si è stati costretti a lasciarlo. Benché sia diventato di uso corrente parlare di migranti, concordo con A. Sayad nel dire che gli umani non sono mai migranti (come gli uccelli), ma sempre emigranti e immigrati, poiché gli emigranti, qualunque sia la coscienza che ne hanno, dopo essere stati strappati dalla loro terra di nascita, cercano un nuovo luogo in cui radicarsi.

Venendo ora alla domanda, è vero: nelle ultime settimane si è parlato molto dei siriani. La ragione non è certo “umanitaria”. Attiene, invece, alla spartizione delle spoglie della Siria, che sono ambite da molti: i diversi stati europei in contesa tra loro e gli Stati Uniti, e poi anche Turchia, Arabia Saudita, Iran, Russia. Con l’improvvisa e ben propagandata “apertura” ai profughi siriani, la cancelliera tedesca Merkel ha datto un’opa (offerta pubblica di acquisto) sui futuri assetti della Siria spiazzando la Gran Bretagna e la Francia, che da anni hanno puntato tutto sull’opzione militare e la caduta di Assad. Ci sono state molte piccole, significative manifestazioni di solidarietà popolare verso questi profughi in Germania e in Austria; ma se il “caso” dei profughi siriani ha avuto tanto risalto nei mass media, ciò si deve a evidenti calcoli di potenza. E al fatto che è in corso dalla Siria un’emigrazione composta in buona misura da persone appartenenti ai ceti medi, più che da proletari; e questo fa gola alle grandi imprese tedesche in cerca di personale qualificato, che al momento, e soprattutto in prospettiva, scarseggia.

Ma, come ho già detto, l’emigrazione di questi ultimi mesi verso l’Europa (occidentale e balcanica) non è affatto composta di soli siriani, e neppure principalmente di siriani, e comprende molti/e che non fuggono da zone di guerra o di guerra civile.

In un recente articolo pubblicato dalla Unicamp dici che gli incontri dei governanti europei sulla crisi dell’immigrazione sono delle pantomime che prefigurano guerre. Perché?

Ho parlato di “pantomime” perché per alcuni mesi i governi dell’Unione Europea hanno fatto incontri su incontri per decidere la ricollocazione di 20.000 rifugiati. Ho trovato ridicolo tale numero, e i fatti mi hanno dato rapidamente ragione: infatti, a distanza di poche settimane la Merkel ha dichiarato che la sola Germania è pronta ad accogliere, nel 2015, 800.000 rifugiati (quattro volte di più che nel 2014), addirittura 1 milione secondo il ministro dell’industria.

Ho al contempo denunciato l’insopportabile ipocrisia di questi incontri, che trasmettono all’opinione pubblica europea il seguente messaggio: “i rifugiati sono un costo che non possiamo sopportare”. Anche su tale aspetto ha fatto chiarezza il governo tedesco col suo vice-premier socialdemocratico Gabriel, che il 10 settembre scorso ha dichiarato davanti al Bundestag: “I rifugiati ci servono come manodopera [a basso costo, aggiungo io]. Se riusciamo ad integrare in fretta i profughi nel mondo del lavoro, risolviamo uno dei maggiori problemi per il futuro economico del paese: la mancanza di personale qualificato”. E ha spiegato che di qui al 2030, dati i bassissimi tassi di natalità tedeschi, mancheranno al mercato del lavoro tedesco circa 6 milioni di lavoratori, per cui – se venissero meno gli immigrati, i nuovi immigrati – sarebbe “in pericolo non solo il sistema delle imprese, ma anche il benessere generale della società”; sarebbe a rischio, ad esempio, l’intero sistema pensionistico.

Intendiamoci: non in tutti i paesi europei il mercato del lavoro ha la stessa possibilità di assorbimento di quello tedesco. Ma in un modo o nell’altro la forza-lavoro immigrata è usata dagli stati e dalle imprese europei per comprimere il costo della forza-lavoro. In Italia, per esempio, negli ultimi mesi l’arrivo dei profughi è stato usato da Comuni e Regioni per sperimentare e dare legittimità a forme di lavoro interamente gratuito. A Novara, Udine, Rovereto, Livorno, Firenze, Prato, Cesena, Vittorio Veneto, Treviso, Reggio Emilia, Este, Bari, Reggio Calabria, etc., i richiedenti asilo sono stati impiegati gratuitamente in lavori di pubblica utilità, quasi sempre lavori di pulizia. E a chiederlo è stato il ministro dell’interno Alfano con la seguente motivazione: “Invece di farli star lì a non fare nulla, li facciano lavorare… dobbiamo chiedere ai Comuni di applicare una nostra circolare [del 27 novembre 2014] che permette di far lavorare gratis i migranti”. Altrettanto chiaro è stato il governatore della Toscana, Rossi: “In cambio dell’accoglienza, ci deve essere la disponibilità [da parte dei rifugiati] a prestare attività di carattere volontario [!] a vantaggio della comunità”. In questo modo profughi e rifugiati vengono usati per normalizzare, anche

per gli autoctoni, la forma più estrema di precarietà: il lavoro gratuito.

Ma allora perché tanti contrasti tra i governi europei? Perché i paesi dell’Est Europa continuano ad opporsi alle decisioni dell’Unione?

Perché ci sono situazioni oggettivamente molto differenziate tra i diversi paesi. I paesi dell’area germanica, da sud (Austria) a nord (Olanda, etc.), hanno fatto blocco con la Germania, ma pretendono che alcune attività preliminari di selezione degli emigranti [ovvero della manodopera] sia svolte dai paesi di frontiera, in particolare Italia, Grecia, paesi balcanici, Ungheria. I quali, a loro volta, chiedono il superamento del regolamento di Dublino che impone ai richiedenti asilo di restare nel primo paese europeo in cui sono entrati, ossia proprio nei paesi del Sud e dell’Est che hanno una minore capacità di assorbimento, e non intendono impegnarsi nella organizzazione delle attività di selezione dei richiedenti asilo per conto di altri stati. L’opposizione dei paesi dell’Est Europa è anche un modo per battere cassa e ottenere fondi per queste attività, ma per i governi di quei paesi è soprattutto un modo per canalizzare contro il “nemico esterno” il profondo scontento dei lavoratori per una condizione materiale in molti casi drammatica.

Dobbiamo dunque distinguere un’Europa aperta e accogliente (quella dell’area germanica) e un’Europa chiusa e ostile agli emigranti-immigrati (quella dell’Est e del Sud)?

Assolutamente no!
Se ne è parlato poco, ma nelle ultime settimane a Calais, all’imbocco dell’euro-tunnel, in Ungheria, in Grecia, in Italia, in Austria, in Serbia, in Croazia, in Macedonia, ci sono state vibranti proteste degli emigranti, con morti e feriti, proprio mentre tanti di loro perdevano la vita nel Mediterraneo e nei camion adibiti al loro trasporto “clandestino”. Davanti a queste proteste l’Europa “democratica” e “civile” rischiava di perdere la faccia davanti a tutto il mondo. Questo la Merkel l’ha intuito per prima, facendosi paladina di una politica di “accoglienza”, ma – attenzione! – una politica di “accoglienza” riservata ai soli profughi di guerra siriani. E dopo appena una decina di giorni ha proposto la sospensione di Schengen, cioè la sospensione della libera circolazione in Europa, per timore di un arrivo incontrollato di emigranti in Germania.

Il punto è questo: una vasta fascia di paesi africani, medio-orientali ed asiatici stanno affondando in un caos di immense proporzioni che produrrà, per almeno venti anni (ha previsto il Pentagono), dei movimenti migratori verso l’Europa sempre più grandi. L’Europa, in quanto forza di prima fila del capitale globale, ha contribuito in modo in modo determinante a generare questo caos, ma non può certo garantire alla massa di questi emigranti lavoro, casa, istruzione, welfare, una vita dignitosa – tanto più perché sta sprofondando dentro una crisi in cui anche i suoi lavoratori autoctoni soffrono sempre più la disoccupazione, la precarietà, i tagli al welfare, etc. Si tratta di una contraddizione insolubile, destinata, a mio avviso, ad acuirsi.

 

Nato a Buenos Aires nel 1977, vive a Neuquén. Membro del Partido de los Trabajadores Socialistas (PTS) dal 1997, è autore di "Il marxismo di Gramsci. Note sui quaderni del Carcere" (pubblicato in spagnolo, portoghese e italiano) e "Hegemonía y lucha de clases. Tres ensayos sobre Trotsky, Gramsci y marxismo" (Ediciones IPS, 2018), oltre a vari articoli su temi della teoria marxista.