di Sabrina Monno

Per analizzare un film come “Il portiere di notte”, bisognerà, prima di tutto, analizzare la situazione culturale dell’Italia dei primi anni ‘70. Un caposaldo del cinema italiano e mondiale, Luchino Visconti, gira nel 1969 “La caduta degli Dei”, dando inizio (inconsciamente) ad una piccola rivoluzione tematica. Il film di Visconti è il padre del film della Cavani. Dopo Visconti, un giovanotto di appena trent’anni, Bernando Bertolucci, gira “Ultimo tango a Parigi”, spaccando e scandalizzando l’opinione pubblica italiana, che priverà il regista del diritto di voto e brucerà i negativi del film. In questo clima, nel 1974, Liliana Cavani, presenta “Il portiere di notte”.

AustriVienna, 1957. Max, ex militante nazista e capo SS, lavora come portiere di notte presso l’hotel Zur Oper, insieme ad un ampio gruppo di ex devoti al terzo Reich. Un giorno, arrivano in albergo un famoso direttore d’orchestra con la consorte, Lucia, un’ex detenuta in un campo di concentramento nazista. Tramite l’uso di flashback, scopriamo che Lucia era la “bambina” di Max. Fu lui ad arrestarla. Fu lui a torturarla. Fu lui a farle scoprire il sesso e giochi sessuali. Inizialmente spaventata, Lucia cerca di evitare Max, con scarsi risultati. Improvvisamente, la giovane decide di restare nell’albergo e di riallacciare il rapporto sadomasochistico con Max. I due arriveranno ad isolarsi dal mondo esterno: sia perché minacciati dai colleghi nazisti che vedono in Lucia una testimone oculare pericolosa (“La memoria è fatta di occhi”), sia perché il mondo esterno non capirebbe il loro “amore”.

Lo scandalo fu immediato. La critica americana liquidò il film come “una squallida pellicola sadomaso”. In Italia, la censura non approvò il messaggio e la libertà sessuale espressa, specialmente perché Charlotte Rampling fa l’amore con Max stando sopra di lui. Per l’Italia ben pensante dell’epoca, la donna doveva “stare sotto”. I giornali di sinistra francesi, non approvarono la scelta di rendere protagonista (e quindi eroe) di un film un ex nazista, che, seguendo una logica storica, dovrebbe essere il nemico. Nonostante tutto, il film fu sequestrato solo tre volte e riuscì ad essere proiettato nei cinema. Ben presto, ci si accorse che il film non parlava di sesso. Il sesso era uno strumento. Una sindrome di Stoccolma, quella di Lucia verso Max, che, altro non è, che una sindrome di Stoccolma dell’Europa verso ideologie falsamente sconfitte. L’Hotel Zur Oper è l’Europa stessa. La sottomissione del prossimo, tramite il sesso è la stessa condizione della guerra con il soldato, del ricco con il povero. La Cavani, forse in modo più delicato, anticipa molti temi che sembreranno esplodere nel 1975 grazie a Pasolini, con “Salò o le 120 giornate di Sodoma”. L’ideologia non è morta, è solo ben nascosta.

Nato a Cesena nel 1992. Ha studiato antropologia e geografia all'Università di Bologna. Direttore della Voce delle Lotte, risiede a e insegna geografia a Roma nelle scuole superiori.