di Pablo Bartoli

Quando il cinema era visionarietà oltre che messaggio, poesia oltre che storia, affresco oltre che pensiero , prima di ridursi ad una triste commedia esistenziale o ad una parata funambolica di effetti speciali, esisteva Sergio Leone. Uno dei tanti, che ha saputo dimostrare al mondo che la cinematografia può considerarsi a buon diritto una delle grandi arti.

Su Sergio Leone sono stati scritti fiumi d’inchiostro ed è quindi difficile, se non impossibile, stilare una classifica dei suoi migliori film, ma ce n’è uno che probabilmente rappresenta la “summa” del suo pensiero artistico e politico: Giù la testa. Un film che va oltre. Non è semplicemente una storia arcinota sulla rivoluzione messicana, non una pura esaltazione dell’eroismo, non una semplice favola infarcita d’ironia e di sparatorie. Si tratta, nella sua linearità, di un vero trattato di filosofia. Riguarda la debolezza umana, il tradimento, l’entusiasmo , la delusione, la contraddizione , l’odio sociale, la complicità, l’amicizia virile (come in molti altri film di Sergio Leone d’altra parte).

Lo si nota dalla particolare cura con cui sono stati scelti gli attori per i personaggi di contorno della vicenda, come Romolo Valli, uno dei più autorevoli interpreti del teatro Pirandelliano dell’epoca. Lo si nota dall’inizio dell’uso dei piani sequenza sul volto dei protagonisti tesi a fissarne ogni espressione. Tutto il film è imperniato sul dualismo tra i due personaggi principali. Tutto il resto è contorno. Un magnifico contorno, naturalmente, ma pur sempre funzionale al dipanarsi della personalità di quei due. Già, ma “chi sono quei due”? Apparentemente le storia svolge il tragitto di due parabole di vita, che si incrociano e fanno un pezzo di strada assieme. Il rivoluzionario irlandese, forgiato dal desiderio di giustizia sociale trasmessogli dall’invasione straniera nel suo paese, colto quanto basta da saper leggere e apprezzare testi anarchici e divenuto col tempo, quindi, “rivoluzionario di professione” fino a subire cocenti disillusioni.

Il “bandito” peone messicano, seguito da una miriade di parenti e figli di chissà quali madri e, quindi, proletario e sottoproletario al tempo stesso, rozzo e violento quanto basta a sopravvivere in un tipo di società, che faceva e fa della violenza il suo cardine principale, ma anche attento e curioso su ciò che non conosce e dotato di spontaneismo intelligente, che lentamente prende coscienza.

Apparentemente in realtà Sean e Juan rappresentano due facce della stessa persona. In realtà si tratta di un unico personaggio. E’ la rappresentazione del conflitto interno, che lacera ognuno di noi tra l’azione e lo studio, tra la razionalità e la passione ,tra la scelta e l’obbligo, tra la tenerezza e la violenza.
Un unico personaggio, quindi, in cui le due personalità prevalgono di volta in volta e solo quando riusciranno a trovare un equilibrio saranno in grado di costruire “l’uomo nuovo”. Da questo punto di vista risultano chiare le ultime frasi durante la scena della morte di Sean:”amico mio, che grossa fregatura che ti ho dato!” e la risposta di Juan:”E adesso io”.

Se questa non è filosofia rivoluzionaria che altro è?

Nato a Cesena nel 1992. Ha studiato antropologia e geografia all'Università di Bologna. Direttore della Voce delle Lotte, risiede a e insegna geografia a Roma nelle scuole superiori.